I tre corridori che hanno reso eccezionale l’ultimo Tour de France
Jonas Vingegaard, Tadej Pogačar e Wout van Aert hanno creato rivalità e grande spettacolo, come poche altre volte prima
Alla partenza del Tour de France maschile di quest’anno, uno dei più avvincenti di sempre, c’erano 176 corridori. All’arrivo dell’ultima tappa, domenica a Parigi, erano 135. Tra questi, ce ne sono tre che si sono fatti notare per l’eccezionalità delle loro prestazioni e l’audacia del loro modo di intendere il ciclismo: se questo Tour è stato diverso dai precedenti, e se già ci si chiede come saranno i prossimi, gran parte del merito va a loro.
Giusto tre settimane fa, uno dei tre era atteso come quasi imbattibile, talvolta descritto come il “ciclista perfetto” e in più di un’occasione perfino presentato come un predestinato e paragonato a Eddy Merckx. È Tadej Pogačar, ed è arrivato secondo.
L’altro, che nel 2018 ancora lavorava part-time inscatolando pesce in Danimarca, un paese senza montagne né tantomeno colline, è Jonas Vingegaard, che ha vinto il Tour de France e oltre alla maglia gialla si è preso pure la maglia a pois di miglior scalatore.
Il terzo ha vinto la maglia verde della classifica a punti (in genere prerogativa dei velocisti), è stato premiato come ciclista più combattivo, è stato in fuga per un totale di quasi 700 chilometri, ha vinto tre tappe e ha staccato Pogačar in salita. È Wout van Aert, e Vingegaard ha detto di lui che è «il miglior ciclista al mondo». I due, peraltro, corrono nella stessa squadra, la Jumbo-Visma, senza dubbio la squadra migliore di questo Tour.
Tadej Pogačar
Di lui – sloveno di 23 anni – si parlava come di un ciclista perfetto perché in effetti non sembrava avere punti deboli: aveva vinto entrambi i Tour de France a cui aveva partecipato e nel frattempo era anche riuscito a vincere un Giro di Lombardia e una Liegi-Bastogne-Liegi, lasciando intendere di avere tutto il necessario per poter vincere anche ciascuna delle altre più importanti corse di un giorno, le “classiche monumento”.
A inizio luglio, sull’Ultimo Uomo, Michele Pelacci aveva parlato, per il ciclismo, di «un prima e un dopo Pogačar», di un dominio che «sembra[va] non avere limiti». Al netto di problemi, malanni, cadute e infortuni vari, in riferimento a Pogačar ci si chiedeva soprattutto come e quando avrebbe vinto questo Tour, quanti ne avrebbe potuti vincere da qui in avanti, e quanto intrigante o magari sfinente sarebbe potuto diventare il suo dominio agli occhi di avversari, sponsor, organizzatori e spettatori.
Pogačar, invece, è arrivato secondo. Perché Vingegaard, oltre che sostenuto da una squadra migliore di quella di Pogačar, è stato più forte di lui e lo ha staccato in salita in due diverse occasioni (dopo che già l’aveva fatto nel 2021).
Dopo aver perso la maglia gialla a metà Tour, Pogačar si è però parecchio ostinato nel cercare di riprendersela. I suoi costanti e coraggiosi tentativi di attaccare Vingegaard, che via via si mostrava sempre più come il più forte, hanno reso questo Tour entusiasmante come pochi altri, e possibilmente hanno creato una rivalità che, vista l’età dei protagonisti, potrebbe durare molto a lungo. «Saranno anni interessanti», ha detto Pogačar.
Jonas Vingegaard
Ha 25 anni (e pochi mesi in più di quelli che gli avrebbero permesso di vincere anche la maglia bianca di miglior giovane, che è andata a Pogačar) ed è possibile che ancora fino al 2020, quando Pogačar vinceva il suo primo Tour, il suo nome non dicesse niente perfino ad appassionati piuttosto assidui. Al ciclismo professionistico, Vingegaard ci arrivò infatti solo nel 2019: dopo essere cresciuto in un piccolo paese di pescatori nella Danimarca del nord, dopo promettenti ma non strabilianti inizi nel ciclismo su strada, in una carriera inizialmente alternata al lavoro di inscatolamento ittico e senz’altro rallentata dalla rottura di un femore nel 2017 e da una commozione cerebrale nel 2018.
Se Pogačar si è fatto apprezzare per come si è ambientato nell’insolito ruolo di sfidante sfavorito, Vingegaard è stato capace, quando in classifica aveva 39 secondi di ritardo da Pogačar, di rischiare il tutto per tutto e attaccare, con la sua squadra, da lontano.
Quando poi si è trovato a indossare la maglia gialla e a difenderla dai tantissimi attacchi di Pogačar, è stato protagonista con lui di tappe come non se ne vedevano da anni: nella terza e ultima settimana del Tour i due si sono trovati soli più volte. In ogni occasione, Vingegaard se l’è saputa cavare e quando ne ha avuto la possibilità ha fatto vedere quanto più forte di Pogačar riusciva ad andare.
Pogačar e Vingegaard sono stati protagonisti di una sfida costante e ripetuta, in cui lo sloveno ha provato ad attaccare il danese anche a decine di chilometri dall’arrivo, creando le condizioni affinché le tappe diventassero vivaci e imprevedibili.
Oltre che nel piacere di chi le ha viste, l’eccezionalità della sfida tra Pogačar e Vingegaard sta inoltre nei distacchi finali che chiunque altro ha avuto in classifica generale. Mentre Pogačar ha accumulato un ritardo di 2 minuti e 43 secondi da Vingegaard (quasi tutti in conseguenza della sua crisi nell’undicesima tappa), il terzo – Geraint Thomas, vincitore del Tour nel 2018 – è arrivato a Parigi con un ritardo in classifica generale di oltre 7 minuti. Il quinto era a oltre 15 minuti, il decimo a quasi 25, il 17° a più di un’ora.
Wout van Aert
Eppure, per Vingegaard, il vincitore di una delle più combattute edizioni della corsa ciclistica più difficile al mondo, il migliore ciclista al mondo è Wout van Aert, 27enne belga nato a Herentals, nelle Fiandre.
Van Aert arriva dal ciclocross – una disciplina ciclistica autunno-invernale, che ha spesso a che fare col fango – e nel ciclismo su strada ha saputo vincere in volate di gruppo, su storiche salite, a cronometro e anche con arrembanti fughe da lontano. Van Aert è uno che nel ciclismo su strada ha vinto già tanto ed è tendenzialmente tra i favoriti di ogni grande corsa di un giorno a cui scelga di partecipare.
La sua unicità sta nel fatto che oltre ad aver vinto tre tappe, ottenuto la maglia verde e sfiorato quella a pois, in questo Tour è anche stato in fuga più di chiunque altro e, in più, è stato un validissimo gregario per Vingegaard.
In genere, o si fa i gregari (sacrificandosi cioè per il proprio capitano e il bene maggiore che è la maglia gialla) o si cercano vittorie, fughe e altre maglie. Van Aert invece ha fatto tutto insieme, e tutto benissimo. Inoltre, sull’Hautacam, una lunga e dura salita pirenaica, è riuscito ad andare così forte da staccare Pogačar. Il tutto pur non avendo per nulla un fisico da scalatore: Van Aert è alto un metro e novanta e pesa, in genere, non molto meno di 80 chili, mentre Vingegaard, alto un metro e 75 centimetri, ne pesa circa 60.
In tutto ciò, van Aert è pure riuscito ad arrivare 22° in classifica generale, di fatto replicando i risultati ottenuti nel 2020 e nel 2021. Motivo per cui si fa sempre più forte l’idea secondo cui, se lo vorrà, Van Aert potrà diventare un giorno un credibile pretendente alla maglia gialla.
Il giornalista Alexandre Roos ha scritto sull’Équipe: «Non avevamo mai visto un corridore pesare tanto sulla corsa pur senza avere un interesse alla maglia gialla».
La Jumbo-Visma
È senz’altro notevole, al netto di tutto questo, che due protagonisti su tre di un Tour così peculiare corrano per la stessa squadra, e che questa squadra sia riuscita a vincere maglia gialla, maglia a pois, maglia verde e 6 tappe su 21 senza però uccidere la corsa, ma anzi rendendola parecchio più vivace del solito.
Più volte è capitato che la Jumbo-Visma fosse impegnata a raggiungere obiettivi diversi nella stessa tappa: capitava per esempio che Van Aert fosse in fuga per fare punti per la maglia verde, ma anche per vincere e fare punti per quella a pois; e che insieme rallentasse di proposito per aiutare Vingegaard nell’ottenimento di quella gialla. Ci sono stati problemi (nella quinta tappa, sul pavé, la squadra se l’era vista brutta), ma i risultati hanno dato ragione alla squadra.
La precedente squadra che aveva saputo dominare il Tour de France era stata la Sky di Chris Froome. Lo aveva fatto però in modo diverso, più analitico e meno creativo: «Faceva catenaccio» ha scritto il giornalista William Fotheringham sul Guardian. Della Jumbo-Visma, che è olandese, Joshua Robinson ha scritto invece sul Wall Street Journal: «se la nazionale olandese degli anni Settanta inventò il calcio totale, la Jumbo-Visma sta perfezionando il ciclismo totale».