Adattarsi male al cambiamento climatico
Misure pensate per ridurne l’impatto sugli ecosistemi e interventi benintenzionati possono in realtà aggravare gli effetti negativi
L’adattamento alle conseguenze dell’aumento delle temperature medie globali previsto per i prossimi anni è tra i principali argomenti trattati in un rapporto recente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. Secondo gli scienziati dell’IPCC, gran parte delle attuali misure di adattamento su scala mondiale non è efficace perché in alcuni casi non ci sono margini di intervento possibile a parte ridurre le emissioni di gas serra. Ma in altri casi il problema è che le misure sono il risultato di scarse capacità di pianificazione.
Nel rapporto, pubblicato alla fine di febbraio scorso, si parla del fenomeno del «disadattamento» in riferimento alla possibilità imprevista e indesiderata che alcuni interventi benintenzionati ma poco lungimiranti possano aggravare gli effetti dannosi del cambiamento climatico anziché mitigarli, e rendere le persone più vulnerabili. E questo può succedere nonostante alcuni di quegli interventi siano spesso preceduti da anni di pianificazione, studi tecnici e numerose consultazioni di esperti.
Un esempio tra i tanti citati dai ricercatori e dalle ricercatrici è la costruzione di dighe pensate per proteggere i centri abitati dall’innalzamento del livello delle acque marine ma che finiscono per impedire il deflusso di quella piovana, incrementando il pericolo di inondazioni, o per provocare altri tipi di danni. Nelle isole Kiribati, nel Pacifico centrale, un piano governativo sostenuto dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo e dalla Banca Mondiale portò negli anni Duemila alla costruzione di una diga per proteggere la popolazione dalle mareggiate ma finì per provocare un’erosione in un’altra area della costa.
Un altro caso di studio è il comportamento umano imprevisto in seguito agli interventi di adattamento. Il falso senso di sicurezza generato da quegli interventi in alcuni contesti può determinare, per esempio, una successiva maggiore concentrazione di popolazione in aree che, nonostante gli interventi, restano ad alto rischio di fenomeni meteorologici avversi. Uno studio pubblicato nel 2020 sulla rivista Regional Environmental Change, per esempio, mostrò come i tassi di mortalità per inondazione associati a una serie di eventi di questo tipo nel 2017 in Bangladesh erano inferiori nelle aree con un livello minore di protezioni strutturali (argini appositamente costruiti in precedenza per limitare i danni potenziali).
Diversi altri casi documentati mostrano come il disadattamento climatico sia un fenomeno ancora più presente e problematico in contesti di maggiore vulnerabilità ed emarginazione. E l’eterogenea composizione del gruppo di ricerca messo insieme dall’IPCC per il rapporto mostra come diverse discipline delle scienze sociali tradizionalmente non associate alla ricerca sul cambiamento climatico, dall’antropologia alla sociologia, potrebbero contribuire ad avere quadri più chiari e completi delle criticità ambientali presenti in determinati territori, a volte note soprattutto alle popolazioni locali e meno ai responsabili degli interventi di adattamento.
Emma Lisa Schipper, ricercatrice di scienze sociali ambientali presso l’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, è una delle 270 scienziate e scienziati coinvolti nella stesura del rapporto dell’IPCC. Il disadattamento, uno dei suoi principali interessi scientifici, è oggetto di varie sue pubblicazioni tra cui un articolo su One Earth, una delle riviste scientifiche del gruppo Cell, e un recente articolo sul magazine online Open Mind.
Il lavoro di adattamento ai cambiamenti climatici è indispensabile per limitarne l’impatto sulle società e sugli ecosistemi di tutto il mondo, salvando miliardi di vite, osserva Schipper: ma «pianificare l’adattamento è un esercizio di incertezza». Se sviluppati a partire da informazioni imprecise o incomplete, o senza dare ascolto alle parti della popolazione più coinvolte ed esperte, molti piani di adattamento che prevedono infrastrutture o altri cambiamenti semipermanenti falliscono. E la parte difficile è individuare in anticipo i rischi di disadattamento, le cui manifestazioni sono complesse e difficili da riconoscere.
I primi approcci nella ricerca sulle misure di adattamento al cambiamento climatico, scrive Schipper, erano largamente basati sulla convinzione che esistessero piani vantaggiosi per tutti e validi in ogni contesto. Ma l’incertezza su come il cambiamento climatico influenzerà gli ecosistemi e le società umane ha progressivamente portato gli scienziati a comprendere che qualsiasi piano di adattamento comporta un certo grado di rischio. Le misure devono inoltre essere sostenibili e «sistemiche», ricorda Schipper, e quindi essere integrate e coerenti con gli altri sforzi di sviluppo delle società.
– Leggi anche: Il movimento contro i prati
In genere, su un piano tecnico e ingegneristico, le persone responsabili dei piani di adattamento al cambiamento climatico hanno le idee abbastanza chiare su cosa sia necessario fare. Sono interventi come costruire ponti in posizioni più elevate e utilizzare materiali più resistenti, per esempio, ma anche formare gli operatori e le operatrici sanitarie a riconoscere in anticipo i segni della disidratazione o, in agricoltura, favorire il passaggio alle coltivazioni resistenti alla siccità.
Il problema, afferma Schipper, è che non esiste un modo semplice di definire positivamente i risultati di un determinato intervento, né quanto tempo sia necessario attendere prima di trarre eventuali conclusioni. Ogni intervento genera inoltre una serie di eventi a catena, e serve quindi essere pronti a riadattare le strategie in funzione di quegli eventi. Costruire più in alto un ponte su un fiume per prevenire i decessi causati dalle inondazioni, per esempio, potrebbe finire per incoraggiare un maggior numero di persone a vivere vicino a quel fiume, cosa che però le esporrebbe alle inondazioni se il clima dovesse cambiare più intensamente e rapidamente di quanto previsto.
Anziché tentare inutilmente di definire in termini assoluti quali siano le misure di adattamento di successo è preferibile, secondo Schipper e secondo altri esperti di scienze sociali e politiche ambientali, comprendere quali siano i meccanismi alla base di frequenti insuccessi, in modo da evitarli.
– Leggi anche: Che fine ha fatto l’anticiclone delle Azzorre
Un primo tipo di insuccesso è il disadattamento causato da progetti infrastrutturali, che sono in genere molto apprezzati in politica «perché offrono prove visibili che il denaro viene utilizzato al meglio». Sono però anche quelli che presentano un rischio di disadattamento particolarmente alto – come nel caso del programma delle isole Kiribati – a causa della loro scarsa flessibilità: «una volta realizzati, non ci sono molte possibilità di apportare modifiche», afferma Schipper.
Poi c’è il disadattamento «istituzionale», ossia quello provocato da politiche, normative e strutture organizzative che sembrano inizialmente appropriate alle circostanze o persino necessarie ma si dimostrano inadatte sulla lunga distanza. Certe misure tendono infatti a creare incentivi negativi perché rendono le persone meno preoccupate per il proprio reddito e meno attente alle strategie di riduzione del rischio a lungo termine.
Sono citate come esempio di disadattamento istituzionale le misure intraprese in California durante un periodo di intensa siccità tra il 2007 e il 2009. Una serie di aiuti e prestiti concessi agli agricoltori per coprire i mancati guadagni, secondo uno studio pubblicato nel 2014 su Sustainability Science, ridusse drasticamente qualsiasi incentivo degli agricoltori ad adattarsi a una nuova realtà e, di conseguenza, la loro capacità di adottare misure alternative di mitigazione della crisi idrica.
– Leggi anche: Cosa stanno facendo gli agricoltori per la siccità
E c’è infine il disadattamento «comportamentale», una circostanza a volte favorita da un’eccessiva sensibilizzazione ai rischi del cambiamento climatico, tale da rendere le persone troppo sopraffatte dalla percezione di quei rischi e poco inclini ad adattarsi. Uno studio condotto in alcuni villaggi nel nord del Ghana e pubblicato nel 2018 sulla rivista Climate Risk Management mostrò che durante la siccità molti agricoltori avevano abbandonato i loro campi in cerca di altro lavoro salariato. Successivamente, quando le precipitazioni erano tornate abbondanti, non si trovavano lavoratori pronti in quantità sufficiente per assicurare un raccolto di successo.
Le ricerche più recenti suggeriscono alcuni approcci utili a ridurre i rischi di generare disadattamenti ambientali, che in quanto tali sono risultati imprevisti ma non per questo sono inevitabili. Un buon consiglio in generale, secondo Schipper, è di consultare a fondo le popolazioni colpite dagli eventi meteorologici estremi. In passato, invece, è capitato che i responsabili politici degli interventi di adattamento trascurassero gli avvertimenti della popolazione consapevole delle più ampie conseguenze negative degli interventi.
I progetti attuati per il controllo delle inondazioni nelle pianure e nelle aree costiere di paesi come il Bangladesh, per esempio, hanno a volte collateralmente bloccato acque alluvionali fondamentali per il nutrimento delle piante locali e della fauna acquatica. Questo ha avuto ripercussioni significative sulle famiglie il cui reddito era basato sulla raccolta di risorse (le lumache, per esempio) da vendere ad agricoltori e pescatori. E, come mostrato da alcuni studi, le preoccupazioni espresse dalle donne impegnate in quell’attività – consapevoli dei rischi per il sostentamento delle loro famiglie – sono state ignorate.
In definitiva, secondo Schipper, lo sviluppo dei piani di intervento dovrebbe tenere conto del contesto sociale e dei bisogni delle popolazioni più povere e vulnerabili. Spesso le persone responsabili della pianificazione e progettazione sono invece persone che vivono molto lontano dalle aree che cercano di aiutare, e questa condizione incrementa il rischio che gli interventi generino disadattamento.
– Leggi anche: La crisi alimentare che abbiamo davanti
La pianificazione degli interventi dovrebbe inoltre non essere concentrata soltanto sull’impatto dei cambiamenti climatici, considerati in astratto, ma anche sui problemi sociali più profondi e già esistenti, conclude Schipper. È necessario comprendere quali fattori sociali – la discriminazione e l’emarginazione, per esempio – riducano le possibilità di determinati gruppi di vivere in aree diverse da quelle che sono più a rischio sotto il profilo dei cambiamenti climatici. «Un piano di adattamento che affronti solo i rischi immediati potrebbe non essere di aiuto con la causa principale di un problema, e potrebbe persino peggiorarlo», afferma Schipper.
Ed è un discorso che riguarda dinamiche sociali presenti anche all’interno dei paesi sviluppati. In passato, fa l’esempio Schipper, numerosi tentativi di controllare le inondazioni negli Stati Uniti si sono dimostrati controproducenti e hanno aggravato le condizioni della popolazione, come nel caso noto e disastroso del fallimento del sistema di argini a New Orleans durante l’uragano Katrina.