Le elezioni non sono state fissate il 25 settembre per “salvare” la pensione dei parlamentari
Lo ha sostenuto polemicamente qualcuno ieri, ma deputati e senatori al primo mandato l'avrebbero maturata in ogni caso
Dopo le nuove dimissioni del presidente del Consiglio Mario Draghi, ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto per lo scioglimento delle camere: il 25 settembre ci saranno le elezioni anticipate, ha deciso il Consiglio dei Ministri nel tardo pomeriggio. La scelta di questa data ha suscitato da subito qualche polemica: il 24 settembre infatti saranno passati 4 anni 6 mesi e 1 giorno dall’inizio della legislatura, il tempo minimo affinché un parlamentare alla prima elezione possa ricevere la pensione parlamentare, quella che si sente chiamare più spesso con il nome di “vitalizio” pur non essendolo.
Sui social network è cominciata a circolare con qualche indignazione la tesi secondo cui sarebbe stato scelto appositamente il 25 settembre – un giorno dopo la data spartiacque – per garantire la pensione a molti parlamentari: tesi ripresa anche da diversi giornali e agenzie di stampa con titoli allusivi sul fatto che i vitalizi fossero stati “salvati” dal governo giusto in tempo.
In realtà la Costituzione prevede che i parlamentari rimangano formalmente in carica fino all’insediamento delle nuove camere, che di solito avviene una ventina di giorni dopo il voto (in questo caso sarà il 13 ottobre, per esempio). Significa che perché i parlamentari al primo mandato non avessero diritto alla pensione le elezioni si sarebbero dovute tenere nei primissimi giorni di settembre, più o meno entro il 4: un’ipotesi che non è mai stata nemmeno in discussione, e che comunque non sarebbe stata possibile per rispettare i tempi tecnici necessari tra lo scioglimento delle camere e la data delle nuove elezioni (almeno 60 giorni).
Anche considerando la crisi iniziata il giorno delle prime dimissioni di Draghi, il 14 luglio scorso, sarebbe stato impossibile fissare elezioni all’inizio di settembre.
Gli assegni “vitalizi”, cioè che durano per tutta la vita, sono da sempre indicati come un grosso privilegio dei parlamentari: fino a diversi anni fa infatti bastava aver fatto anche un solo giorno di legislatura per averne diritto, e secondo calcoli che garantivano una somma molto superiore ai contributi versati dai parlamentari. All’inizio del 2012 però furono sostituiti dalle “pensioni parlamentari” (e perciò anche l’uso del termine “vitalizio” è formalmente scorretto), calcolate secondo metodi contributivi in maniera non diversa da quella degli altri dipendenti pubblici.
– Leggi anche: La storia di vitalizi e “pensioni d’oro”
Per avere diritto alla pensione parlamentare bisogna aver fatto un mandato di almeno 5 anni (che scattano formalmente il giorno successivo ai 4 anni e 6 mesi): deputati e senatori cominciano poi a riceverla al compimento dei 65 anni di età, che possono diminuire fino a 60 anni per ogni anno di legislatura oltre al quinto (in pratica, un parlamentare che abbia svolto 6 anni di mandato comincia a riceverla a 64 anni, a 63 se ne ha svolti 7, e così via).
Il problema di avere diritto o meno alla pensione, quindi, esisteva eventualmente solo per i parlamentari eletti per la prima volta in questa legislatura (quelli rieletti hanno già tutti superato 5 anni di mandato), che però in questo caso erano la maggior parte, visto il rinnovamento della classe politica di questi ultimi anni: alla Camera dei deputati erano 427 su 630 (il 68 per cento), al Senato 234 su 315 (il 73 per cento).
Durante il loro mandato parlamentare, deputati e senatori ricevono ogni mese la cosiddetta “indennità parlamentare”, una sorta di stipendio deciso dall’articolo 69 della Costituzione e pensato per assicurare la loro indipendenza (l’idea è che se non avessero uno stipendio adeguato sarebbero più facilmente corruttibili). Lo stipendio è di circa 10mila euro lordi per entrambe le camere, circa 5mila netti. Alla fine del mandato, in ogni caso, deputati e senatori ricevono anche un “assegno di fine mandato”, analogo al TFR dei lavoratori dipendenti: un contributo pari all’80 per cento del lordo dell’indennità parlamentare, moltiplicato per il numero di anni in cui si è rimasti in carica.