Come è caduto il governo, daccapo
Le cause puntuali, quelle che arrivano da lontano, le responsabilità dei partiti e quelle di Draghi, con ordine
La crisi di governo in corso è stata definita “assurda”, “inspiegabile” o “strana”, e in effetti a provocare le dimissioni del presidente del Consiglio è stata una serie di concause diverse che si sono accumulate con una certa rapidità nel giro di una settimana. Altri fattori arrivano da lontano e hanno a che fare in estrema sintesi con l’eccezionalità del governo di Mario Draghi e soprattutto della larghissima maggioranza che lo sosteneva.
In queste ore sui giornali e nelle dichiarazioni dei politici si stanno accavallando interpretazioni e letture diverse sulle responsabilità di quanto successo. I motivi sono due: il primo è che effettivamente queste responsabilità sono distribuite, seppur in misure diverse, sia su alcuni partiti che sullo stesso Draghi; il secondo è che appena la crisi è sembrata probabile ogni partito ha lavorato in modo da prepararla e gestirla per dare la colpa ad altri.
Raramente far cadere un governo è considerato un merito, in politica, ma vale ancora di più in questo caso. A cadere è stato infatti un governo trasversale, di “unità nazionale” come si dice, nato per affrontare alcune circostanze straordinarie (la campagna di vaccinazione, il PNRR e le riforme collegate) e tendenzialmente popolare tra i cittadini, che perlopiù riconoscevano a Draghi competenze e autorevolezze superiori alla media.
A contribuire al caos è stata anche la velocità con cui si è sviluppata la crisi di governo, e la sua imprevedibilità.
Fino a mercoledì mattina sembrava che avrebbe potuto provocarla il Movimento 5 Stelle, e che però alla fine sarebbe potuta rientrare. Nel giro di un’ora, quella del discorso di Draghi al Senato, la situazione si è ribaltata e a concretizzare la crisi è stato il centrodestra. Insomma: di quello che è successo si è capito poco dall’inizio alla fine.
Qualcuno, per spiegarla, ha usato un paragone storico, citando quello che in alcune occasioni è stato definito “effetto Sarajevo”. Il riferimento è all’attentato con cui, il 28 giugno 1914, il nazionalista jugoslavo Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, innescando la Prima guerra mondiale. Stringendo moltissimo, un’interpretazione storica delle cause della guerra ipotizza che, almeno in una certa misura, le forze coinvolte non la volessero davvero, ma una serie di avvenimenti imprevisti e di decisioni conseguenti la resero inevitabile. L’impressione di molti è che sia successo qualcosa di simile anche con questa crisi.
Il casus belli, la causa scatenante, è facile da individuare: la scorsa settimana il Movimento 5 Stelle aveva deciso di non votare la fiducia al governo sulla conversione in legge del decreto Aiuti, un provvedimento che contiene molte misure tra cui quella che dà al sindaco di Roma Roberto Gualtieri i poteri per costruire un inceneritore. Quella misura – e alcune altre, ma soprattutto quella – non piaceva al M5S, che aveva protestato a lungo (dopo settimane in cui il M5S aveva criticato anche altre iniziative governative, dalle armi inviate all’Ucraina alle discussioni sulle eventuali modifiche al reddito di cittadinanza e al cosiddetto Superbonus 110%).
Il governo aveva deciso di porre la questione di fiducia sul voto per il decreto, una cosa che azzera il dibattito e serve a costringere i parlamentari della maggioranza a decidere, in sintesi, se stare dentro o fuori il governo.
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Il M5S aveva provato a evitare questa dicotomia, e in una certa misura ci era riuscito.
Alla Camera aveva votato contro il decreto e a favore della fiducia, ma al Senato i regolamenti impediscono di esprimersi separatamente: perciò non aveva votato la fiducia, ma da subito aveva provato a spiegare che non equivaleva a un ritiro del sostegno al governo. Era insomma un modo per provare a assestare un colpo, nella speranza che potesse servire a ottenere maggiore influenza e concessioni. Non è chiaro quanto il M5S avesse messo in conto che avrebbe potuto far cadere il governo: un’ipotesi che era sembrata molto plausibile quando la sera stessa Draghi aveva presentato le dimissioni, respinte da Mattarella che aveva deciso di dare alla maggioranza altri cinque giorni per discutere di una possibile soluzione, e di “parlamentarizzare” la crisi.
Ma quel voto sul decreto Aiuti non era arrivato dal nulla. Le ragioni più puntuali, infatti, erano inserite in un contesto che non era favorevole alla tenuta della maggioranza.
Il M5S è un partito in crisi ormai da alcuni anni, e proprio sul sostegno al governo Draghi ha subito due scissioni: la prima, nel 2021, dell’ala più radicale che se ne andò in dissenso con la scelta di sostenerlo; la seconda, a fine giugno, dell’ala più moderata che faceva riferimento a Luigi Di Maio, che invece voleva un’adesione più convinta.
In mezzo è rimasto Giuseppe Conte, che dalla scorsa estate è leader del partito e sta provando a recuperare consensi e rilevanza riavvicinandolo alle esigenze e ai sentimenti della base storica, investendo molto capitale politico su alcune misure anche molto diverse tra loro come ispirazione politica, come il Superbonus e il reddito di cittadinanza. Questo tentativo di recuperare consensi non è andato molto bene, Conte è descritto da mesi come in difficoltà a tenere a bada le varie fazioni interne, e il suo rapporto con Draghi secondo le cronache politiche non è mai stato buono.
In questo contesto l’alleanza politica con il Partito Democratico, altra decisione molto importante della sua presidenza, aveva restituito un primo pessimo risultato per il M5S alle elezioni amministrative di giugno, in cui il partito era andato male un po’ ovunque.
I recenti screzi con Draghi avevano insomma creato le condizioni perché Conte ritenesse giunto il momento di provare un qualche tipo di manovra grossa, accettando il rischio conveniente. Quella manovra è stata la non fiducia sulla conversione in legge del decreto Aiuti.
Ci sono poi le responsabilità di Draghi.
Negli ultimi mesi molti retroscena hanno descritto Draghi come sempre più insofferente nei confronti della maggioranza, specialmente dopo la mancata elezione a presidente della Repubblica, carica a cui secondo molti cronisti – ma anche solo intuitivamente – ambiva, anche prevedendo le difficoltà che avrebbe incontrato nel portare avanti le riforme con l’incombente campagna elettorale per le amministrative e la successiva per le elezioni politiche. Ma governare con una maggioranza che andava dal centrosinistra alla destra era diventato evidentemente sempre più difficile, specialmente per via dell’ambiguità della Lega.
Il partito di Matteo Salvini, fin dalle prime settimane di governo, aveva infatti mantenuto un atteggiamento che ricordava spesso quello di un partito di opposizione, per provare a non perdere troppi consensi nei confronti di Giorgia Meloni, che nel frattempo stava diventando la leader annunciata della coalizione di centrodestra anche traendo vantaggio dall’essere l’unica all’opposizione.
Mercoledì mattina, abbastanza a sorpresa, Draghi ha deciso di criticare nemmeno troppo velatamente questo atteggiamento di Salvini. Si è presentato al Senato con un discorso inizialmente molto positivo sul lavoro fatto dalla maggioranza nei suoi primi mesi, elencando i risultati ottenuti e dicendo che «il merito è stato vostro», ma sviluppando poi toni sempre più duri e poco concilianti, con parole piuttosto ostili nei confronti di tutti i partiti ma specialmente della Lega, pur senza mai citarla. Draghi ha criticato chi ha sostenuto le proteste dei tassisti contro la riforma della concorrenza, e ha parlato di «un progressivo sfarinamento della maggioranza» sulle riforme del catasto e delle concessioni balneari, due tra le più osteggiate dal centrodestra.
Alla fine, con toni che il centrodestra ha giudicato provocatori, Draghi ha chiesto ai partiti: «All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. (…) Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che si è poi affievolito? Sono qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani».
Questa conclusione non è piaciuta per niente alla Lega. Lo si è capito subito, ha raccontato chi era al Senato, dal fatto per esempio che i senatori non hanno applaudito: era evidente che fossero sorpresi, delusi e indispettiti dai contenuti e dai toni usati da Draghi. Lega e Forza Italia erano arrivati a mercoledì mattina dicendo ufficialmente che avrebbero continuato a sostenere il governo se il M5S fosse uscito dalla maggioranza. Ma a molti sembrava che avrebbero potuto accettare di proseguire se Draghi lo avesse chiesto nel modo giusto, omettendo i riferimenti alle tante questioni aperte su cui il centrodestra chiedeva di ammorbidire le riforme in discussione, dai taxi agli stabilimenti balneari, o le critiche rivolte a proposte come lo scostamento di bilancio (cioè lo stanziamento di nuova spesa pubblica a costo di fare altro debito e violare quanto previsto nella legge di bilancio).
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Dopo il discorso di mercoledì mattina invece è cambiato tutto, e il centrodestra si è immediatamente riunito per ridiscutere il sostegno al governo.
Circolano interpretazioni e giudizi diverse sulla scelta di Draghi. A qualcuno è sembrato che Draghi volesse chiarire di essere disposto ad andare avanti solo a fronte della disponibilità dei partiti a proseguire nelle riforme avviate fin qui, senza annacquarle. Ad altri è sembrato invece che Draghi abbia in qualche modo voluto sabotare da subito delle trattative che sembravano possibili, se avviate con toni più concilianti, oppure che non si sia reso conto di come un atteggiamento più accorto nei confronti delle sensibilità dei partiti avrebbe potuto portare a un esito diverso. E questa impressione ne confermava una che era emersa già il giorno prima, quando Draghi aveva causato un incidente diplomatico fissando un incontro per parlare della crisi con il segretario del PD Enrico Letta, senza fare lo stesso coi leader del centrodestra, irritando Berlusconi e Salvini che ne avevano poi ottenuto uno in serata.
Nella riunione a casa di Berlusconi, dopo il discorso di Draghi al Senato, il centrodestra ha evidentemente deciso che la cosa migliore fosse provare ad andare alle elezioni anticipate. Da tempo i sondaggi danno la coalizione di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia come prima per distacco nei consensi, e ieri molti retroscena parlavano di «liste dei ministri già pronti» per la coalizione. Tradizionalmente il centrodestra non sceglie prima delle elezioni chi candidare a presidente del Consiglio, sostenendo che questo ruolo spetti al leader del partito più votato: se i risultati delle elezioni confermeranno cosa dicono i sondaggi, quindi, sarà Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
La coalizione ha quindi accusato Draghi di essersi sbilanciato troppo verso il centrosinistra, riservando un trattamento di favore a PD e M5S. Ha proposto una serie di condizioni a Draghi per continuare a sostenerlo: un nuovo governo con nuovi ministri, senza il M5S, e con un programma diverso.
Era evidente che queste condizioni sarebbero state rifiutate – Draghi aveva detto più volte di non essere disposto a governare senza il M5S e “l’unità nazionale” – e che quindi si sarebbe aperta la crisi di governo, cosa che è successa: Draghi ha chiesto che si votasse la fiducia sul suo discorso, un modo per chiedere quali partiti accettassero le sue, di condizioni, e quali no.
Hanno votato a favore il PD, Liberi e Uguali e i partiti di centro. Lega e Forza Italia non hanno partecipato al voto, provocando ufficialmente la fine della maggioranza che sosteneva il governo. Il M5S, che nel frattempo era scomparso dalle cronache perché diventato improvvisamente poco rilevante, visto come si era messa la crisi, si è accodato. Ormai non contava più granché: era evidente che il governo, senza il centrodestra, sarebbe caduto a prescindere.
Nel suo discorso Draghi ha detto abbastanza chiaramente che non riteneva ci fossero più le condizioni per governare, sostenendo fosse venuto meno «il patto di fiducia sincero e concreto» che aveva tenuto inizialmente insieme la maggioranza. La maggior parte dei commentatori gli ha in sostanza dato ragione, indicando nell’irresponsabilità e nei calcoli elettorali dei partiti il fattore principale che ha fatto cadere il governo. Altri però hanno individuato delle responsabilità anche nel comportamento e nelle scelte del presidente del Consiglio, ritenendo che abbia fatto pochi sforzi per risolvere la crisi e tenere in piedi il governo e unita la maggioranza.
Dopo il voto sul decreto Aiuti, il suo governo avrebbe potuto continuare a contare su un’ampia maggioranza anche senza il M5S. Per Draghi però era evidentemente importante avere il sostegno di quasi tutto il Parlamento, e lo aveva ribadito nel suo discorso: «Ritengo che un Presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile».
Proprio nel rapporto di Draghi con il parlamento può essere individuato un ultimo fattore che ha contribuito alla crisi. Nel discorso in cui ha annunciato le intenzioni di voto del partito, la capogruppo del M5S al Senato, Mariolina Castellone, ha accusato Draghi di aver legittimato «la poca dialettica e uno scarso coinvolgimento del parlamento quasi fosse l’unica via che un governo ha per lavorare».
Questo genere di accusa ha del fondamento, ma è anche sistematica: da anni è alla base di estese riflessioni e studi anche accademici. La frammentazione politica e la fine del cosiddetto “bipolarismo” in Italia hanno reso più complicata l’approvazione delle leggi in parlamento, incentivando i governi a ricorrere maggiormente ai decreti legge, alle leggi delega e ai voti di fiducia, strumenti con cui può applicare il proprio potere di iniziativa legislativa.
Tra le leggi approvate dal governo Draghi è successo in circa 8 casi su 10, secondo il sito openpolis, il terzo dato più alto tra i governi delle ultime tre legislature, e che però è più basso di quello del secondo governo Conte (85,3%, però con la pandemia in mezzo) e del governo Letta (83,3%).
Nonostante questo documentato svuotamento di poteri e funzioni del Parlamento, quella di mercoledì è stata la terza crisi di governo consecutiva a svilupparsi al Senato, dopo quelle del primo e del secondo governo Conte (in cui non si era arrivati al voto, ma erano arrivate prima le dimissioni perché era venuta meno la maggioranza).
Tra le dinamiche della politica più difficili da interpretare ci sono spesso le volontà e i comportamenti dei gruppi parlamentari, più eterogenei e meno raccontati rispetto a quelli dei leader politici. Le cronache politiche, per esempio, descrivevano come deteriorato soprattutto il rapporto di Draghi coi senatori: alla Camera le cose andavano meglio, tanto che il gruppo dei deputati del M5S sembrava essere in forte disaccordo con il ritiro del sostegno al governo deciso da Conte in accordo col gruppo al Senato. Il brevissimo discorso di giovedì mattina di Draghi alla Camera, non a caso, è sembrato molto più cordiale: ma ormai le sue dimissioni erano inevitabili.