L’ufficio è ancora lì
Ha resistito alla pandemia come spazio e come istituzione, contrariamente alle previsioni di alcuni, ma sono emerse nuove necessità di organizzazione del lavoro
La straordinaria diffusione del lavoro a distanza fu una delle principali e più raccontate conseguenze indirette della pandemia. Tra il 2020 e il 2021, le restrizioni introdotte per ridurre i contagi da coronavirus limitarono e in molti casi resero impossibile l’accesso agli uffici per milioni di lavoratori e lavoratrici e molte aziende ridimensionarono gli spazi precedentemente presi in affitto, offrendo al personale la possibilità di lavorare da casa anche dopo la fase di emergenza.
Le prime riflessioni suggerite da quei cambiamenti delle modalità e dei tempi del lavoro – cambiamenti radicali e da molti ritenuti permanenti – furono poi controbilanciate da considerazioni più prudenti e incerte riguardo al futuro degli uffici. Le comodità e l’efficienza del lavoro individuale da remoto furono in parte limitate, soprattutto in particolari ambiti, dalle difficoltà nelle interazioni necessarie per lo sviluppo e la condivisione di un pensiero di gruppo e per la formazione del personale neoassunto.
Il progressivo ritorno di molti dipendenti nei luoghi di lavoro, favorito dal successo delle campagne vaccinali e dall’allentamento delle restrizioni, ha dimostrato il valore fondamentale dell’ufficio non soltanto come spazio ma come istituzione, ha scritto recentemente l’Atlantic. Allo stesso tempo è però emersa la necessità di pianificare gli accessi e coordinare i turni in modo da favorire – anche attraverso specifiche figure professionali – l’apprendimento dei dipendenti neoassunti e l’integrazione di nuove forme di lavoro ibrido, da remoto e in presenza, negli schemi aziendali preesistenti.
Secondo l’informatico statunitense Ian Bogost, docente alla Washington University di St. Louis e noto autore dell’Atlantic, l’ufficio è la premessa ineliminabile del lavoro d’ufficio. E se molte aziende hanno scelto di richiamare i propri dipendenti a lavorare in presenza non lo hanno fatto per assecondare le loro richieste, né per ragioni di produttività. I piani di ritorno negli uffici sono serviti piuttosto come affermazioni di una sorta di valore universale dell’ufficio in sé, indipendente dal settore di lavoro specifico e dalle singole decisioni dei capi delle aziende.
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L’ufficio è una struttura che non soltanto rende possibile il lavoro ma definisce e preserva una certa cultura e un certo stile di vita, ha scritto Bogost. In quanto tale, esiste da quando i primi uffici erano monasteri e i primi impiegati erano monaci, che tra rotoli e codici svolgevano lavori qualificati che non avrebbero potuto svolgere altrove. E in epoche successive diventò anche in altri ambiti lo spazio che strutturava e tramandava il lavoro della conoscenza svolto al suo interno, favorendo nel frattempo la condivisione di tempi e spazi tra i lavoratori, in comunità via via più numerose e aree urbane sempre più affollate.
Dopo l’introduzione dei telefoni, dei computer e di altri strumenti che teoricamente rendevano possibile lavorare da altri posti, l’ufficio ha continuato a esercitare un persistente potere di attrazione sui dipendenti, anche per ragioni di comodità, ambizioni personali, privilegi e prestigio. «L’ufficio imponeva questi valori ai suoi lavoratori e i lavoratori li accettavano, o volontariamente o perché costretti, o perché nessun’altra scelta sembrava possibile», ha scritto Bogost.
La pandemia rese chiare molte delle possibilità del lavoro a distanza che era stato difficile vedere fino a quel momento, ma non ha ridotto quella capacità di attrazione degli uffici, o perlomeno non nei termini e nelle dimensioni inizialmente immaginate da molti analisti.
Superata l’emergenza e venute meno le restrizioni, sia nelle aziende che nelle pubbliche amministrazioni il lavoro d’ufficio in presenza è tornato in molti casi a essere la modalità preferibile e spesso anche quella prevalente. In molti casi gli spazi degli uffici sono tuttavia stati occupati non completamente, in base a nuovi turni di lavoro settimanali che tengono in conto la sicurezza dei dipendenti e il rispetto di eventuali misure di prevenzione dei contagi.
La riapertura degli uffici è stata accolta favorevolmente da una parte di lavoratori e lavoratrici che l’avevano a lungo attesa, giudicando negativa l’esperienza del lavoro da remoto durante la pandemia. Altre persone – tra cui oltre 1.400 dipendenti di Apple che in una lettera all’azienda hanno definito «il lavoro in ufficio una tecnologia del secolo scorso» – hanno invece posto l’attenzione sui valori della flessibilità e della diversità, a loro dire meglio tutelati dal lavoro a distanza.
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Secondo molti, lavorare da casa o da luoghi diversi dall’ufficio non ha nemmeno avuto ripercussioni negative sulla produttività aziendale, che era uno degli effetti previsti e più temuti. Diverse riflessioni si sono anzi concentrate sui vantaggi derivanti dalla riduzione del pendolarismo e dei tempi necessari per spostarsi da un luogo a un altro in orario di lavoro. Ma la produttività non è mai stato il punto della questione, secondo Bogost.
Nel corso del tempo l’«Ufficio» – Bogost utilizza la maiuscola per indicarlo come istituzione – ha definito le attività delle aziende e la vita dei dipendenti in modi più complessi e articolati di quanto sia possibile fare utilizzando come unico parametro l’efficienza del lavoro. Negli uffici ci sono anzi molte apparenti inefficienze ammesse e tollerate semplicemente perché degli uffici sono parte integrante: dalle lungaggini burocratiche, per esempio, ai rallentamenti nel lavoro dell’amministrazione.
Una dimostrazione indiretta ma molto potente della solidità e resistenza di questa istituzione nel suo complesso proviene peraltro dal settore tecnologico responsabile della produzione degli strumenti del lavoro a distanza, ha aggiunto Bogost. Prima della pandemia, furono proprio molte grandi aziende di Internet a estendere i propri contratti immobiliari esistenti o aumentare gli spazi presi in affitto.
«Se le aziende che progettano e costruiscono le basi stesse del lavoro a distanza aderiscono ancora ai valori antiquati dell’Ufficio, cosa dovremmo aspettarci da tutte le altre?», si chiede Bogost. La sua ipotesi è che modalità «ibride» di lavoro a distanza e lavoro da casa potrebbero in futuro diventare la norma ma soltanto gradualmente, e sempre che aziende e impiegati si organizzino non soltanto in funzione dell’efficienza del lavoro ma in modo da non mettere in discussione l’ufficio come spazio e come istituzione.
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L’inclinazione di molti sostenitori del lavoro a distanza a concentrarsi sugli argomenti relativi alla produttività aziendale rischia poi di sminuire altri vantaggi di questa modalità di lavoro emersi durante la pandemia. Laddove non si sia tradotto in un’estensione dei turni di lavoro né in una richiesta di partecipare a riunioni troppo frequenti, indette come misura compensativa dell’assenza fisica delle persone, il lavoro a distanza ha effettivamente aumentato il tempo libero a disposizione dei dipendenti.
La crescente abitudine dei dipendenti a lavorare da casa ha permesso loro di diventare progressivamente più abili nell’organizzazione autonoma del proprio tempo, con il vantaggio di poterne dedicare di più anche alla famiglia. E la riduzione del pendolarismo ha comportato non soltanto una significativa diminuzione dei livelli di stress di lavoratori e lavoratrici, ma anche una minore produzione di emissioni inquinanti, sebbene questo non sia stato sufficiente a diminuire nel complesso la concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
L’introduzione stabile del lavoro da remoto ha inoltre prodotto una serie di vantaggi per le aziende anche in termini di maggiore ampiezza e profondità della selezione del personale e maggiore flessibilità dei contratti di lavoro. Ha per esempio reso possibile, anche per periodi di tempo determinato, l’assunzione di personale qualificato che non sarebbe rientrato nella selezione in condizioni di lavoro in presenza come unica modalità di lavoro.
Questo non significa che il lavoro a distanza comporti soltanto vantaggi. In un altro articolo recente, scritto dal giornalista americano Derek Thompson, l’Atlantic ha descritto più dettagliatamente alcuni dei problemi aziendali diventati più evidenti durante la pandemia. L’estesa e stabile diffusione del lavoro da remoto ha permesso, per esempio, di comprendere che le difficoltà principali interessano determinati dipendenti: i più giovani e i neoassunti, in particolare.
Molti di loro si rendono conto di «aver avuto accesso a una stanza virtuale che si definisce un’azienda ma è fondamentalmente una chat di gruppo». E se già è difficile promuovere una cultura aziendale in circostanze normali, prosegue l’Atlantic, «ancora più difficile è farlo tramite un emoji e un messaggio di gruppo frainteso su Slack».
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I vantaggi da molti attribuiti al lavoro flessibile, come per esempio non avere distrazioni, possono diventare svantaggi significativi per i dipendenti più giovani. Proprio dalle interazioni più informali e dalle riunioni di gruppo – la parte di lavoro che Thompson descrive come «soft work» – quei dipendenti traggono infatti molte informazioni già acquisite dai loro colleghi più esperti. E proprio in quelle interazioni hanno più facilmente la possibilità di suggerire nuove idee e apportare innovazione.
Il lavoro da remoto tende inoltre a rendere più difficoltosa la creazione di nuovi gruppi di lavoro e la comunicazione tra gruppi. In uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour e condotto nel 2020 da Microsoft, in collaborazione con la University of California Berkeley, i ricercatori esaminarono i messaggi e le chat in forma anonima di 61 mila dipendenti dell’azienda. E scoprirono che nei primi mesi della pandemia il numero di messaggi all’interno dei gruppi era aumentato notevolmente ma le comunicazioni e quindi la condivisione di informazioni tra i gruppi erano diminuite.
Un’impressione condivisa da molti, apparentemente confermata anche dai risultati di altri studi, è che la qualità delle idee all’interno di un’azienda tenda a peggiorare quando le persone collaborano a distanza anziché di persona. E una delle spiegazioni più plausibili di questa tendenza, secondo Thompson, è che «la collaborazione richiede fiducia e la fiducia implica una sorta di intimità», che è qualcosa di complicato da ottenere tramite chat. Lavorare a distanza senza la possibilità di riunirsi di persona, in molti contesti, può infatti «appiattire i colleghi in caricature e astrazioni semplicistiche».
Esistono tuttavia numerosi ambiti, come per esempio la ricerca scientifica, in cui la collaborazione a distanza tra persone che si trovano anche in luoghi molto distanti non riduce l’innovazione e non compromette la qualità del lavoro ma piuttosto la migliora. La principale differenza rispetto ad altri ambiti professionali, afferma Thompson, è la maggiore esperienza dei ricercatori con questa modalità di lavoro e il collaudato sviluppo di reti ibride adatte a favorire sia gli incontri di persona che quelli virtuali.
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L’idea di Thompson è che per realizzare estesamente questo tipo di reti, cioè anche nelle aziende, potrebbe rendersi necessaria l’introduzione di una nuova figura professionale, una sorta di middle manager in grado di «sincronizzare» il lavoro dei vari gruppi. Avrebbe come principale compito quello di determinare, basandosi su una comprensione più ampia delle dinamiche e dell’intero flusso del lavoro aziendale, quale parte sia un lavoro da poter svolgere in modo «asincrono» e quale invece richieda alle persone di essere fisicamente presenti in ufficio nello stesso momento.
È un incarico che nelle aziende, secondo Thompson, al momento stanno prevalentemente ricoprendo persone che già si occupavano di altre mansioni e per le quali il coordinamento dei gruppi finisce al fondo della scala delle priorità. Sarebbe invece preferibile affidarlo a un gruppo specifico, secondo lui, dal momento che la gestione dei flussi di lavoro da remoto e lavoro ibrido presenta difficoltà specifiche e richiede competenze specifiche.
Spetterebbe a queste figure professionali «sviluppare e aggiornare costantemente un piano di chi deve essere in ufficio, in quali giorni, dove si siederà e innanzitutto perché si trova lì». Si assicurerebbero che i nuovi dipendenti, per esempio, siano in ufficio con colleghi in grado di fare loro da mentori durante il periodo di inserimento. E pianificherebbero frequenti convegni e riunioni di tutta l’azienda, anche per i lavoratori a cui è meno spesso richiesta la presenza fisica in ufficio, «con la consapevolezza che le migliori nuove idee – che sia nell’ambito della scienza, della consulenza o dei media – spesso provengono dalla inaspettata ibridazione di competenze eterogenee».