Breve storia del successo dei movimenti antiabortisti italiani
Alleanze, conflitti e relazioni che sono via via cambiate nel tempo e che si sono sempre più intrecciate con la politica nazionale
di Giulia Siviero
La sentenza con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha eliminato la tutela federale al diritto di interrompere volontariamente una gravidanza è stata festeggiata in Italia da diversi politici e partiti, movimenti antiabortisti e anche dalla Chiesa cattolica. «Mi si riempie il cuore di gioia», ha scritto ad esempio il senatore della Lega Simone Pillon. «Vittoria! Questo è un giorno fondamentale per i movimenti pro-life degli Stati Uniti e di tutto il mondo», ha fatto sapere l’associazione ProVita e Famiglia. E la Pontificia Accademia per la Vita, che ha sede in Vaticano, ha a sua volta diffuso un comunicato in cui si legge: «Il fatto che un grande paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato la sua posizione su questo tema sfida anche il mondo intero».
Questi tre soggetti (partiti della destra e dell’estrema destra italiana, associazioni o movimenti, e Vaticano) sono i principali attori di un ciclo di mobilitazioni “in difesa della vita” avviate in Italia dopo l’approvazione della 194 (nel 1978), la legge che consente di interrompere una gravidanza, e che hanno tra loro una storia fatta di alleanze, conflitti, ri-posizionamenti, e relazioni che sono via via cambiate nel tempo.
All’inizio fu il Movimento per la vita
Uno dei più importanti gruppi antiabortisti italiani è il Movimento per la vita (Mpv) che, come si può leggere nel sito, si propone «di promuovere e di difendere il diritto alla vita e la dignità di ogni uomo, dal concepimento alla morte naturale, favorendo una cultura dell’accoglienza nei confronti dei più deboli ed indifesi e, prima di tutti, il bambino concepito e non ancora nato».
Il Movimento per la vita venne fondato poco dopo l’approvazione della legge 194 e inizialmente si strutturò intorno all’organizzazione di due referendum per abrogarla: uno invocava la cancellazione dell’intera legge, ma venne scartato dalla Corte Costituzionale; l’altro proponeva di riconoscere solo l’aborto terapeutico, eliminando gli articoli che invece tutelavano il diritto della donna di decidere. Nel 1981 questo secondo referendum venne respinto con il 68 per cento dei voti.
Fallita la strada del referendum, l’Mpv reagì cominciando a organizzarsi a livello locale e a lavorare su due principali fronti, come ha spiegato la sociologa dell’Università di Losanna Martina Avanza: costruendo degli obiettivi politici a partire dalla cosiddetta «cultura per la vita» e cercando di «salvare quante più vite possibili». Cercando cioè di scoraggiare le donne ad abortire attraverso i “Centri di aiuto alla vita” (CAV) e i progetti ad essi collegati a cui, di fatto, la stessa legge 194 dà spazio di azione. I CAV sono presenti in tutt’Italia, anche in moltissimi ospedali pubblici: sono almeno quanti i punti dove è possibile praticare un’interruzione di gravidanza, e sono finanziati soprattutto dalle amministrazioni di destra e centrodestra.
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L’organizzazione a due aree del Movimento per la vita fu da subito altamente sessuata: gli uomini erano la maggioranza all’interno del braccio politico e le donne erano quasi le uniche attiviste nell’ambito dell’assistenza. Entrambi i fronti, spiega Avanza, «continuano ancora oggi a lavorare affinché l’aborto non diventi una scelta possibile: ma per decisione morale delle donne, non tanto per obbligo giuridico».
Il fondatore del Movimento per la vita, e poi suo storico presidente dal 1990 al 2015, fu Carlo Casini, a lungo deputato della Democrazia Cristiana e in seguito eletto al Parlamento Europeo per cinque legislature con l’UDC (è morto due anni fa).
Massimo Prearo, ricercatore in scienza politica all’Università di Verona che ha condotto ricerche sui nuovi movimenti cattolici pubblicate nel libro “L’ipotesi neocattolica. Politologia dei movimenti anti-gender”, spiega che Casini fu la perfetta espressione «di quella unità politica dei cattolici che per lungo tempo aveva contribuito al mantenimento della religione nella struttura del campo politico: sotto la direzione, l’influenza o la supervisione, in quella prima fase, del Vaticano».
Dalla fine degli anni Novanta, dice Prearo, la condizione e i diritti delle donne, la morale sessuale, le tecniche di riproduzione, i diritti di gay, lesbiche e trans e le nuove configurazioni familiari «divennero in Europa e anche in Italia oggetto della politica e di conflitti pubblici». E divennero, allo stesso tempo, anche l’occasione che portò a una spaccatura all’interno del movimento contro l’aborto.
Fino a un certo punto, conferma Avanza, il Movimento per la vita tenne al suo interno istanze molto diverse, alcune più radicali di altre, che cominciarono a mostrare in maniera chiara le loro differenze quando si iniziò a discutere della legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita: una legge che, pur stabilendo molti divieti, consentiva la fecondazione artificiale e metteva in discussione la morale tradizionale e religiosa sulla procreazione “secondo natura”.
«Il Movimento per la vita, che era ideologicamente contrario alla procreazione non naturale, scelse di seguire il principio della realpolitik per riuscire ad ottenere quella che dal proprio punto di vista era la miglior legge possibile: una legge di compromesso che prevedeva molte limitazioni e che avrebbe comunque avuto la funzione di arginare la fecondazione eterologa», cioè l’utilizzo degli ovuli o degli spermatozoi (gameti) donati da una terza persona. Cosa che di fatto avvenne fino alle successive sentenze che ne modificarono profondamente i contenuti, eliminando i vari divieti che la legge iniziale imponeva.
«Le parti di movimento più oltranziste e forse anche più coerenti rispetto al Movimento per la vita da un punto di vista teorico» prosegue Avanza «scelsero invece di fuoriuscire e di formare altri gruppi: consideravano inaccettabile la legge 40 e rifiutavano qualsiasi logica di compromesso politico».
Fino all’inizio del Duemila a prevalere fu dunque il modello ecclesiastico di azione politica, relativamente moderato e rappresentato dal Movimento per la vita. Il quale, dice Prearo, «forte di un sistema di influenze all’interno e all’esterno delle istituzioni, riuscì comunque a ottenere dei risultati politici». Quando nel 2005 venne organizzato un referendum abrogativo della legge 40 per far saltare i divieti imposti da quella che era stata recepita come una legge cattolica, il Movimento per la vita, con le gerarchie del Vaticano, fece attivamente campagna a favore dell’astensione dando un contributo definitivo al mancato raggiungimento del quorum.
Il Movimento per la vita riuscì anche a fermare, nel 2007, la proposta di legge sui DICO: avrebbe portato al riconoscimento di alcuni diritti derivanti dalla convivenza e dunque validi anche per le persone omosessuali.
La Marcia per la Vita
Nel 2007, i DICO divennero il tema di contestazione centrale del primo Family Day, una grande manifestazione che si svolse a Roma in difesa della famiglia cosiddetta tradizionale e naturale. Alla manifestazione aderirono e parteciparono le realtà più ufficiali e rappresentative del movimento cattolico, compreso il Movimento per la vita, che a distanza di qualche anno disertarono invece e in gran parte i Family Day del 2015 e del 2016.
La spaccatura del movimento pro-life italiano portò alla nascita di un nuovo spazio di mobilitazione contestatario e si concretizzò con l’organizzazione della Marcia per la Vita, in aperta e diretta concorrenza rispetto al Movimento per la vita. La prima edizione della Marcia si tenne a Desenzano del Garda nel 2011, la seconda a Roma l’anno successivo: ebbe un grande successo, grazie anche all’adesione di diversi politici, tra cui quella del sindaco di Roma Gianni Alemanno.
Tra il 2007 e il 2015 (quindi dal primo Family Day ai Family Day di seconda generazione, passando per la Marcia per la Vita) avvenne un passaggio fondamentale: come spiega Prearo si passò dal modello di azione ecclesiastico a un modello movimentista: che si collocava al di fuori dello spazio ufficiale del movimento cattolico italiano e che si muoveva in relativa autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica.
Questo fronte avanzava anzi una critica interna alla chiesa e ai movimenti pro-life più tradizionali. Li considerava colpevoli di aver cercato delle mediazioni rispetto al riconoscimento di una serie di diritti (in quegli anni vennero tra l’altro presentati in parlamento il “ddl Scalfarotto” sulla penalizzazione dei crimini d’odio a carattere omofobico, il “ddl Cirinnà” sul riconoscimento delle unioni civili e il “ddl Fedeli” sull’educazione di genere), di aver ceduto alla dottrina del male minore e di aver mostrato almeno in parte la disponibilità a trattare su principi che quelle stesse frange consideravano non negoziabili.
Si passò, per dirla in un altro modo ancora, dal discorso classico “in difesa della vita e per la vita” a un discorso “contro”, ispirato alla “tolleranza zero”.
Il Comitato Verità e Vita, fondato nel 2004 da uno dei personaggi più attivi nella creazione di questo nuovo fronte, Mario Palmaro, scrisse infatti che la Marcia era «una sfida all’indifferenza e alla tiepidezza interna allo stesso mondo pro-life italiano e al mondo cattolico, spesso spaventato dai temi della vita, considerati pericolosi perché “dividono la comunità”». E ancora: la Marcia «non ha paura di dichiararsi contro»: contro l’aborto, contro la fecondazione artificiale, contro l’uso della diagnostica prenatale, contro il testamento biologico e contro l’eutanasia.
Il Movimento per la vita, spiega Avanza, è sempre stato contro la Marcia: «Perché era promossa dai movimenti più radicali, perché utilizzavano immagini di feti spappolati, un linguaggio violento, perché usavano la parola “omicidio” per riferirsi all’aborto».
Il Movimento per la vita, «fatto da uomini di palazzo», rivendicava per sé un profilo più istituzionale e rispettabile, dice Avanza. Lavorava e continua ancora oggi a lavorare «infiltrandosi nelle associazioni di categoria, negli ambienti giuridici, vaticani o medici per fare lobby. Sulla strada, invece, non avrebbe più potuto avere alcun controllo: ad esempio, sulle infiltrazioni neofasciste che costituivano parte di questo nuovo movimentismo e alle quali il Movimento per la vita non voleva essere associato».
I nuovi attori e progetti movimentisti nati dalla Marcia per la vita, oltre ad avere diverse complicità con i movimenti di estrema destra e neofascisti, affiancarono alle battaglie più tradizionali del discorso pro-life le questioni che avevano a che fare con il genere e la sessualità (anti-gender), e con la difesa della cosiddetta famiglia naturale (pro-family).
E questo allargamento, aggiunge Avanza, permise «di arrivare a un pubblico molto vasto: i discorsi sullo snaturamento della differenza sessuale, sull’indottrinamento dei figli, sull’imposizione di modelli culturali che non ci appartengono o anche sulla difesa della libertà di pensiero e parola contro la dittatura del politicamente corretto hanno coinvolto e mobilitato persone che sul tema specifico dell’aborto magari avevano e continuano ad avere posizioni meno radicali».
La strategia pre-politica del nuovo movimentismo
Secondo Prearo, nella costruzione di questo nuovo fronte movimentista contestatario, la Marcia per la Vita ha rappresentato un evento di settore che era servito soprattutto «a tenere compatto il campo e a manifestarne l’esistenza». Restava comunque un evento esplicitamente cattolico, nel quale i vari gruppi si muovevano ancora appoggiandosi su reti di alleanze già esistenti e relativamente indipendenti tra loro.
I due successivi Family Day (quello del 2015 e del 2016, attraverso varie manifestazioni, convegni, giornali alleati e relazioni internazionali) divennero invece il momento della scelta strategica di un discorso comune, fatto di modi di dire, parole d’ordine o slogan ben precisi e condivisi. Divennero poi il momento di un allargamento al di fuori del movimento stesso, di occupazione di un campo non solo extra-ecclesiastico ma anche extra-cattolico, e soprattutto della costruzione di un coordinamento nazionale.
In questa operazione furono fondamentali il “Comitato difendiamo i nostri figli”, oggi “Associazione Family Day”, fondato dal medico e neocatecumenale Massimo Gandolfini; “ProVita” di Toni Brandi, vicino a Forza Nuova; i “Giuristi per la Vita” dell’avvocato Gianfranco Amato; e l’associazione “La Manif pour Tous Italia” (poi “Generazione Famiglia” e oggi “ProVita & Famiglia”), uno spazio associativo che andava oltre il campo cattolico, che era aperto a tutte le confessioni e che dunque si proclamava aconfessionale.
Attraverso quest’operazione, il campo movimentista contestatario riuscì a occupare uno spazio pubblico e politico molto ampio. Divenne un interlocutore legittimo, cominciò a contaminare il dibattito, a costruire, a diffondere e a difendere una nuova agenda politica e una nuova strategia politica di relazione con i partiti.
Mentre Mario Adinolfi, insieme a Gianfranco Amato, fondava un partito, il “Popolo della Famiglia”, con l’intenzione di dare una rappresentanza politica a tutte le persone che avevano partecipato ai Family Day del 2015-2016, Massimo Gandolfini elaborò una strategia differente e di maggior successo, da lui stesso definita «pre-politica»: basata cioè su un’azione di «fecondazione» e di «contaminazione» delle forze politiche della destra e dell’estrema destra parlamentare sensibili alla causa.
Tale strategia consentì al movimento di restare al di fuori, al di sopra o nei corridoi della politica, per influenzarne il corso. L’anno in cui questo lavoro di scambio con i partiti iniziò fu il 2016.
Nel 2016, spiega Prearo, «durante la campagna per il referendum costituzionale promosso dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi, Gandolfini fondò il Comitato delle “Famiglie per il no al referendum”, lo strumento attraverso cui il polo anti-gender del movimentismo cattolico contestatario fece attivamente campagna elettorale con FdI, Lega e altri partiti come Identità e Azione (IDeA) di Carlo Giovanardi e Gaetano Quagliariello». Queste forze politiche denunciavano l’inizio di un percorso «contro l’uomo e la famiglia» a cui la vittoria del referendum avrebbe secondo loro portato. E che avrebbe introdotto in Italia il matrimonio gay, l’adozione per i single, l’utero in affitto, il divorzio lampo, la liberalizzazione delle droghe, l’eutanasia infantile e l’estensione della procreazione artificiale alle coppie dello stesso sesso.
La campagna del Comitato si chiuse a Verona, a pochi giorni dal voto, con una manifestazione nazionale presieduta da Gandolfini a cui parteciparono i principali leader politici alleati.
Il rosario di Salvini
Dal 2016 in poi, e attraverso le amministrative del 2017, le regionali, le politiche del 2018 e le europee del 2019, diventò sempre più esplicita la capitalizzazione politica di questo nuovo scambio tra partiti e movimento: da una parte permise un agire politico del movimento, dall’altra trasformò il movimento stesso in uno strumento a uso della politica.
Il giorno dopo le elezioni del 2018, quando Simone Pillon entrò in parlamento e Lorenzo Fontana dopo poco divenne ministro della Famiglia nel governo appoggiato da Movimento 5 Stelle e Lega, Gandolfini pubblicò un comunicato stampa sull’avvenuta «fecondazione» delle forze del centrodestra, in cui sostanzialmente annunciava la vittoria del suo campo:
«La nostra azione politica e culturale ha indiscutibilmente aumentato il tasso valoriale del centrodestra. Tutti i leader dello schieramento, con toni e intensità diverse durante la campagna elettorale, hanno riportato al centro del dibattito la lotta al gender, il contrasto all’inverno demografico, la difesa della vita dal concepimento alla morte naturale, la promozione culturale fiscale della famiglia naturale e il primato educativo dei genitori. Particolarmente premiati dal consenso partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, che hanno sposato quasi completamente la nostra agenda».
Un momento molto visibile di questo scambio fu il Congresso Mondiale delle Famiglie, un evento soprattutto politico che venne organizzato in Italia nel 2019, poco prima delle europee. Si svolse a Verona e riunì il movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBT+. Con le reti che lo compongono e con quelle ancora più ampie di cui il Congresso fa parte, ha come obiettivo quello di influenzare le politiche e gli orientamenti dei governi di vari paesi. Al Congresso parteciparono varie associazioni, capi di stato ed esponenti politici della destra radicale, cristiana e integralista da tutto il mondo e tre ministri dell’allora governo italiano (Matteo Salvini, Lorenzo Fontana, Marco Bussetti). Ma anche Giorgia Meloni, Simone Pillon e il presidente della Regione Veneto Luca Zaia.
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Un altro esempio di queste relazioni movimento-partiti furono le elezioni regionali in Umbria dell’ottobre 2019. La candidata del centrodestra Donatella Tesei, esponente della Lega, firmò un “Manifesto valoriale” promosso da sette associazioni antiabortiste. La sua campagna elettorale si concluse con un evento co-organizzato da queste associazioni a cui erano presenti il leader della Lega Matteo Salvini, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia e Silvio Berlusconi di Forza Italia.
La vittoria di Tesei fu anche il risultato del lavoro politico di contaminazione condotto dal movimento e del lavoro di affiliazione movimentista da parte dei partiti della destra e dell’estrema destra che, «proprio intorno alla causa pro-life, anti-gender e pro-family, avevano trovato un collante ideologico», dice Prearo. Qualche settimana fa, quegli stessi movimenti hanno invece ritirato il loro sostegno a Tesei perché la presidente, andando contro il programma condiviso, ha concesso il patrocinio della regione al Pride.
Lo scambio movimento-partiti ha portato alle mozioni antiabortiste praticamente identiche approvate da varie amministrazioni di destra, ai tentativi di limitare l’accesso all’aborto farmacologico, o al sostegno formale di natalità e maternità attraverso precise proposte di legge che contengono, però, implicite finalità antiabortiste.
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Guardando la storia dalla parte dei partiti, dice Prearo, «l’ipotesi più quotata è che questi abbiano individuato nell’area di movimento anti-gender pro-life e pro-family un bacino elettorale che ha permesso di portare questi stessi partiti in prima linea a livello internazionale. Quando Salvini bacia il rosario e invoca la protezione di Maria, o quando Giorgia Meloni, nel famoso discorso di piazza San Giovanni dell’ottobre 2019, dichiara di essere «una donna», «una madre» e una «cristiana» non sta solamente lanciando dei segnali a quel mondo: «Si sta appropriando di uno strumento che è stato loro messo a disposizione».