Cosa è cambiato nel business dell’abbigliamento con la pandemia
Si sono affermati l’e-commerce, il lusso (in parte) e la comodità
di Margherita Cogoi
Nei due anni di pandemia il settore dell’abbigliamento è stato uno dei più penalizzati dalle restrizioni anti Covid. Le aziende della moda hanno dovuto far fronte non solo alla chiusura delle frontiere e quindi all’interruzione della filiera produttiva, ma anche a un cambiamento della domanda da parte dei consumatori. Una porzione importante della popolazione mondiale non ha potuto muoversi da casa per periodi più o meno lunghi, in molti casi lavorando a distanza, e ha quindi preferito comprare abiti comodi o sportivi piuttosto che eleganti. Le aziende del settore si sono trovate perciò di fronte alla sfida di ideare strategie di adattamento, e in alcuni casi di sopravvivenza, in un contesto cambiato e caratterizzato da una grande incertezza soprattutto nelle prime fasi della pandemia.
A dicembre del 2021 è stato pubblicato il rapporto The state of fashion 2022, realizzato dalla società di consulenza McKinsey insieme a Business of Fashion, una delle più autorevoli testate sull’industria della moda. Dopo un 2020 in cui le vendite di moda si erano ridotte, rispetto al 2019, del 20% in Europa e del 30% in Italia, nel 2021 sono stati registrati segnali di ripresa che hanno interessato soprattutto Cina e Stati Uniti. Il rapporto segnala che l’Europa dovrebbe arrivare a una ripresa completa del settore solo alla fine del 2022 – niente di sicuro, però, visto che il documento è uscito prima della guerra in Ucraina e dell’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime.
Le limitazioni anti Covid hanno riguardato in maniera diseguale non solo le persone – Oxfam, organizzazione che si dedica alla riduzione della povertà, nel suo ultimo rapporto ha parlato proprio di “pandemia delle disuguaglianze” – ma anche le diverse aziende dell’abbigliamento. I brand che ci hanno perso meno, in qualche caso riuscendo a guadagnarci e addirittura superando i livelli di ricavo pre Covid, sono quelli che hanno sviluppato o rinforzato l’e-commerce e che si sono rivolti a segmenti di consumatori più ricchi. Un’altra strategia di successo è stata sviluppare o rinforzare nelle collezioni il settore del loungewear (abiti comodi) e dell’athleisure (abiti sportivi).
I lockdown, con la chiusura di buona parte dei negozi, hanno favorito lo shopping online, per lunghi periodi l’unica modalità possibile per fare acquisti. Tra il 2020 e il 2021 le quotazioni di mercato delle aziende di abbigliamento online sono aumentate complessivamente del 112% rispetto al 2019, mentre per il resto del settore la crescita è stata del 28%. Al di là delle aziende che vendono abiti solo su Internet, hanno avuto buoni risultati anche i rivenditori più tradizionali che sono riusciti ad aprire o ampliare il loro settore e-commerce, offrendo ai clienti la possibilità di comprare in modalità virtuale oltre che fisica.
L’esperienza recente di Inditex, il gruppo di fast fashion proprietario di Zara, è un buon esempio di quanto i corposi investimenti fatti per rinforzare le vendite online abbiano ripagato. Il gruppo ancora prima della pandemia aveva avviato investimenti per 2,7 miliardi di euro per l’integrazione tecnologica delle vendite online e fisiche, riuscendo a ottimizzare la quantità di merce nei magazzini anche quando chiusure e riaperture dei negozi si alternavano a seconda della situazione epidemiologica.
In un contesto generale di diffidenza nei confronti dei luoghi molto frequentati, sembra che i clienti abbiano gradito in particolare il sistema dell’in-store pickup, nel quale si usa una app per prenotare online e poi si ritira la merce nei negozi fisici. Anche grazie a questo sistema, il gruppo Inditex è riuscito a recuperare pienamente il calo di vendite del 2020, tornando già nel 2021 ai livelli del 2019.
La pandemia di Covid ha accentuato le differenze di reddito tra le persone e tra i Paesi. In parte, questa dinamica è visibile anche nella distribuzione delle vendite nel settore dell’abbigliamento. Globalmente, negli ultimi due anni il mercato del lusso ha sofferto meno rispetto a quello degli abiti economici e di media fascia. Il rapporto McKinsey ha calcolato una riduzione dei ricavi che nella prima parte del 2020 era stata del 36% per gli abiti economici, del 35% per gli abiti di media fascia, e del 30% per l’abbigliamento più di lusso. Nel primo anno di pandemia, inoltre, solo il lusso era riuscito a mantenere livelli di ricavo quasi in linea con i 10 anni precedenti, nonostante all’inizio l’impossibilità di viaggiare sembrasse ostacolare questo tipo di acquisti tradizionalmente legati al turismo all’estero.
Le aziende di abbigliamento si sono anche dovute adattare a una nuova domanda che rifletteva un cambiamento di gusti e necessità delle persone chiuse in casa. I lockdown, il lavoro da casa, lo stile di vita da divano e serie tv avevano portato molte persone ad apprezzare le virtù degli abiti comodi, mentre per lunghi periodi si erano ridotti obblighi o opportunità della normale vita sociale e professionale.
In generale, la pandemia ha accelerato l’affermarsi di tendenze che nella moda erano già in atto: la popolarità degli abiti comodi e larghi, per esempio, era in crescita da prima grazie alla maggiore diffusione dello street wear, così come si è solo accentuata una preesistente preferenza per gli abiti sportivi, cresciuta in parallelo alla popolarità degli stili di vita sani e attivi.
Al di là di necessità di ordine pratico (stare comodi), il loungewear e gli abiti larghi hanno acquisito in qualche caso un’implicazione simbolica o identitaria. Un risvolto della diffusione della body positivity (accettazione del proprio corpo) è stato di portare le persone a vedere negli abiti comodi e nelle tute da ginnastica dei mezzi per emanciparsi dall’estetica tradizionale. In un’intervista pubblicata ad aprile sul New York Times, la coreografa Jody Sperling paragona gli abiti comodi e larghi alle power suits anni ‘80 – i completi femminili eleganti che riprendevano il taglio maschile e che rappresentavano la partecipazione delle donne alla vita politica ed economica nella società americana. Come sostiene anche la stessa Sperling, difficilmente l’abbigliamento comodo verrà abbandonato alla fine della pandemia, anzi si può prevedere che la comodità avrà un ruolo importante anche nelle collezioni di abiti eleganti (occasion wear). A febbraio 2021 la rivista Forbes scriveva che anche i brand più sofisticati nell’ultimo anno avevano aggiunto o rafforzato le sezioni di abiti comodi e prevedeva un’espansione significativa del mercato delle tute da ginnastica tra il 2020 e il 2026.
Rispetto alla crescita del 2020, quando negli Stati Uniti e in Cina la domanda di loungewear era raddoppiata rispetto all’anno precedente, è probabile comunque che la sua crescita subisca un naturale ridimensionamento: è già successo in parte nel 2021.
Uno degli elementi alla base della forte ripresa di Inditex, rispetto per esempio al gruppo concorrente H&M, è stato l’aver compreso che col graduale ritorno alla vita fuori casa, almeno in Europa e negli Stati Uniti, i clienti avrebbero ripreso a comprare anche abiti eleganti e alla moda.
Esiste un’espressione specifica per descrivere il comportamento dei consumatori dopo eventi traumatici, epidemie e guerre: revenge spending (spesa di riscatto). Da qui deriva il termine revenge shopping, per il quale dopo i periodi di lockdown molte persone hanno comprato vestiti più costosi o in quantità maggiore per premiarsi e riscattare sé stesse, simbolicamente, dallo stress e dalla sofferenza accumulati. Questa tendenza, comunque, di solito ha una durata limitata nel tempo e riguarda naturalmente solo le persone che possono permetterselo.
L’ultimo rapporto McKinsey sull’industria globale della moda dedica la sua parte finale alle prospettive per l’anno in corso, prevedendo un aumento generale dei prezzi dell’abbigliamento dovuto a possibili interruzioni della filiera produttiva, costi delle materie prime più alti e difficoltà nella movimentazione delle merci.
Il rapporto prevede inoltre che le aziende dell’abbigliamento continuino a puntare sul commercio online, consolidando o rinforzando la propria posizione in questo mercato, e si aspetta che facciano di più per soddisfare una mutata sensibilità di una parte dei consumatori in termini di sostenibilità ambientale del prodotto e di trattamento economico della forza lavoro.
Questo e gli altri articoli della sezione Tra cultura e pandemia sono un progetto del workshop di giornalismo 2022 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.