Nell’industria musicale tutti sognano un “effetto Stranger Things”
Il ritorno in classifica di una vecchia canzone come “Running Up That Hill” è come vincere la lotteria, in un settore che si sta reinventando
Grazie al suo frequente uso nella quarta stagione di Stranger Things, nella quale ha una importanza vitale ai fini della trama, “Running Up That Hill” – singolo della nota cantante britannica Kate Bush uscito nell’estate del 1985 – è stata tra le canzoni più ascoltate delle ultime settimane, e nel Regno Unito è stata addirittura prima in classifica. È tutta una conseguenza del successo della serie e, in parte, di come e quanto la canzone è poi stata ascoltata e utilizzata online, soprattutto su TikTok, dove l’hashtag #runningupthathill è stato usato in milioni di video che hanno accumulato oltre un miliardo di visualizzazioni.
Quel che è successo a “Running Up That Hill” grazie a Stranger Things non è una novità: già in passato, altre canzoni erano tornate di moda e in classifica grazie al loro uso in film o serie. Ma mai come questa volta: il Guardian ha parlato di un «effetto Stranger Things» e Jonathan Palmer, vicepresidente dell’area dell’etichetta discografica BMC che si occupa di canzoni usate in contenuti audiovisivi, ha detto che «è una cosa che succede una volta ogni decennio».
Qualcosa di simile, anche se dalla portata minore, è peraltro risuccesso con l’uso che la seconda parte della quarta stagione di Stranger Things ha fatto di “Master of Puppets” dei Metallica. Anche solo il fatto che una casa discografica abbia un ufficio dedicato alle canzoni usate in film, serie, trailer, pubblicità o videogiochi (un’area che in inglese è chiamata “creative synchronisation”) mostra inoltre quanto sia importante, per chi ne controlla i diritti, che certe canzoni ci finiscano.
Lo è perché permette di guadagnarci due volte: prima grazie alla concessione dei diritti relativi alla canzone e poi, nel caso, grazie agli ascolti di chi la vuole risentire. Di recente, grazie alle piattaforme di streaming e a TikTok, il settore della “creative synchronisation” sta diventando ancora più importante e redditizio di un tempo.
In genere, quantomeno fino a qualche anno fa, era chi faceva film o serie a scegliere certe canzoni e, individuato chi ne deteneva i diritti e stretto un accordo, a usarle in determinate scene. A selezionare le canzoni e trattarne i diritti provando a non sforare il budget sono in genere i supervisori musicali, professionisti il cui ruolo è spesso determinante, ma raramente apprezzato e ancor meno premiato. In breve, il supervisore musicale è la persona che, lavorando insieme ad autori, registi o produttori, ricerca e seleziona le canzoni che andranno a comporre la colonna sonora.
A volte accade che gli autori scrivano una scena attorno a una specifica canzone, come per “Life Is a Highway” nella quinta stagione di The Office. In altri casi, bisogna trovare la canzone giusta a partire da una scena già scritta. Nei casi migliori, i supervisori musicali partono comunque da lontano, creando atmosfere musicali e talvolta vere e proprie playlist legate a contesti o personaggi di un film o di una serie.
In alcune occasioni, per esempio quando una canzone è espressamente legata a una scena (come quando un attore la canta o canticchia), può succedere che ancora non si sia certi di poterla usare e che quindi si girino diverse scene, con diverse canzoni, così da cautelarsi nel caso in cui non si ottengano i diritti desiderati.
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È difficile avere dati su quanto certe canzoni siano state pagate, ma pare che l’uso di “Tomorrow Never Knows” dei Beatles nella serie Mad Men costò 250mila dollari. In linea generale è difficile che il budget per la musica superi il 5 per cento del totale di un progetto cinematografico.
Se da una parte ci sono i supervisori musicali, dall’altra ci sono quelli che controllano i diritti delle canzoni per conto di privati, società o case discografiche. Fino a qualche anno fa succedeva quasi sempre che un supervisore musicale contattasse qualcuno come Palmer per chiedere ed eventualmente avere i diritti delle canzoni.
Negli ultimi tempi, però, capita sempre più spesso che la strada sia percorsa al contrario, e cioè che siano direttamente le case discografiche a proporre le loro canzoni, magari quelle un po’ meno famose, con l’obiettivo di farle tornare in voga. O addirittura, come nel caso di “Running Up That Hill”, farle conoscere per la prima volta a spettatori che ancora non erano nati quando quelle canzoni uscirono (un elemento, questo, che ben si accorda con la tendenza a scrivere storie ambientate qualche decennio fa).
Spesso, comunque, è un’operazione di cui è difficile prevedere gli esiti, perché per una “Running Up That Hill” ce ne sono tante altre che non ce la fanno. Anche in assenza di un più o meno efficace “effetto Stranger Things” restano però i guadagni relativi alla concessione dei diritti.
I motivi per cui ci sono maggiori attenzioni alle canzoni di serie e dei film sono legati al successo dei servizi di streaming. Sono molto semplici e il Guardian li ha sintetizzati così: le piattaforme garantiscono «un enorme pubblico e enormi budget». Oltre a grandi capacità di spesa e a un enorme bacino di spettatori, in buona parte composto da giovani, le compagnie di streaming video offrono i loro contenuti (spesso seriali, e quindi lunghi varie ore, e quindi con spazio per molte canzoni) subito in tutto il mondo. Cosa che permette a canzoni come “Running Up That Hill” di sfruttare la scia globale di una serie come Stranger Things, e che consente di coordinare e pianificare eventuali campagne con l’obiettivo di avere un altrettanto globale successo.
Oltre che per quanto è usato, TikTok è determinante per il nuovo successo di vecchie canzoni perché, come ha scritto il Guardian, gli utenti possono «decontestualizzarle e spezzettarle in una grande varietà di meme che possono diventare virali, accelerandone il successo». In altre parole, è possibile aver sentito e magari persino usato “Running Up That Hill” in un video di TikTok o in una storia su Instagram pur senza sapendo chi o cosa sia Vecna, il supercattivo della serie contro il quale è usata la canzone.
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La presenza delle grandi piattaforme di streaming e la crescente rilevanza di TikTok si incastra poi con la generale tendenza, iniziata ormai più di un anno e mezzo fa, alla vendita a grandi società musicali dei cataloghi di cantanti o musicisti, in certi casi anche con accordi multimilionari.
Le ragioni di queste vendite sono tante e non tutte collegate a quel che riguarda gli usi audiovisivi di vecchie canzoni, ma senz’altro le società che comprano i diritti relativi a queste canzoni sono di solito più attrezzate per fare accordi di questo tipo con le case di produzione cinematografica, oltre che in genere più interessate. Tra le altre cose, queste società riescono a far sì che i supervisori musicali scelgano canzoni un po’ meno famose di altre, così da rivitalizzare l’intero catalogo e non solo sfruttare economicamente le canzoni più celebri (e costose).
Questi nuovi modelli di business sono ormai importantissimi per le case discografiche, alle prese con un settore in crisi da anni e che non si è mai davvero ripreso dal crollo delle vendite delle copie fisiche cominciato negli anni Duemila. L’avvento dello streaming musicale ha cambiato tutto, costringendo major, etichette e artisti a reinventare il modo in cui si fanno i soldi con la musica: i ridottissimi introiti che derivano dagli streaming sono stati compensati con un maggiore ricorso ai concerti, che però non sono così convenienti per tutti gli artisti e le band. Per pochissimi fortunati, avere una canzone in una serie di successo può rappresentare una svolta notevole alle proprie finanze.
Il problema, in tutto questo, è però che per quanto ci si provi spesso è difficile capire in anticipo cosa avrà successo. Perché si verifichi “l’effetto Stranger Things” servono infatti quantomeno tre cose: il successo, quasi mai scontato, di una certa serie; la rilevanza, dentro alla serie, di una specifica canzone; e, infine, la sua efficacia – quasi sempre dettata da logiche indipendenti e poco influenzabili – online, sui social. «Faccio questo lavoro da abbastanza tempo» ha detto Palmer «per aver capito che devo arrendermi al fatto che non si può capire davvero l’alchimia necessaria del tutto».
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