La strategia “zero COVID” ha fatto male alla Cina
La crescita dell'economia è molto rallentata, e la colpa è dei continui lockdown voluti dal governo
Nel secondo trimestre dell’anno, tra aprile e giugno, l’economia cinese ha ottenuto il suo peggiore risultato dall’inizio del 2020, quando il paese fu colpito dalla prima ondata di COVID-19, e il secondo peggior risultato da oltre trent’anni. Il PIL cinese è cresciuto dello 0,4 per cento rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso, meno della metà di quanto sperato dagli analisti, ed è calato del 2,6 per cento rispetto al primo trimestre dell’anno.
La ragione è la cosiddetta “strategia zero COVID” adottata dal governo cinese, che ha provocato in questi mesi lunghi lockdown in alcuni dei principali centri economici del paese, causando un rallentamento delle attività economiche che probabilmente porterà al peggior risultato annuale per la crescita cinese da vari decenni.
La bassa crescita cinese è un problema anche per l’economia del resto del mondo, che da molto tempo ormai fa affidamento sulla Cina come principale motore di crescita globale.
Mentre ormai da tempo l’Occidente ha rinunciato all’utilizzo di ampie misure restrittive per contenere il diffondersi dei contagi, in Cina la strategia zero COVID prevede l’adozione di lockdown durissimi e immediati per eliminare del tutto ogni focolaio che si presenti nel paese. Questo piano aveva funzionato a lungo, consentendo ai cinesi di vivere una vita grossomodo normale mentre l’Occidente era colpito da successive ondate pandemiche, ma la comparsa di Omicron e delle sue varianti molto contagiose ha reso il mantenimento della strategia quasi impossibile.
Il regime cinese, tuttavia, si è ostinato a mantenere attiva la strategia: sia per ragioni politiche, perché la “vittoria” contro la pandemia è uno dei principali vanti del presidente Xi Jinping, sia per ragioni più pratiche, legate soprattutto al tasso relativamente basso di persone vulnerabili vaccinate.
I costi economici e sociali, tuttavia, sono molto alti.
Il lunghissimo lockdown di Shanghai, il più importante centro economico della Cina, ne è l’esempio: durato oltre due mesi tra aprile e giugno, ha di fatto bloccato interamente la città, da cui dipende una fetta importante del PIL cinese. E benché il lockdown di Shanghai sia finito, in realtà la Cina non ha mai smesso di scontrarsi con le conseguenze della politica zero COVID. I lockdown di varie città minori (ma comunque abitate da milioni di persone) proseguono da mesi, e anzi sono in crescita.
Secondo una stima della banca giapponese NOMURA, attualmente 31 città cinesi si trovano in lockdown parziale o totale: le misure riguardano 247 milioni di persone e aree del paese da cui dipende il 17,5 per cento del PIL cinese. Questo dato è in crescita netta: a inizio luglio, sempre secondo NOMURA, le città in lockdown erano undici.
Il risultato di queste politiche è stato un rallentamento di vari settori economici importanti, soprattutto ad aprile, quando i lockdown sono stati più duri: in quel mese, le vendite al dettaglio sono calate dell’11,1 per cento, e la produzione industriale del 2,9. Nel corso del secondo trimestre, il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e i 24 anni è passato al 19,3 per cento, rispetto al 18,4 dell’inizio dell’anno.
Il governo cinese prevede che nel 2022 la crescita del PIL sarà del 5,5 per cento, che già di per sé sarebbe il minimo in trent’anni, ma vari analisti ritengono che quest’obiettivo sarà mancato, e che la Cina crescerà in realtà del 4 per cento circa.