Le traduzioni a 42 caratteri per riga
Sono il massimo consentito per i sottotitoli di Netflix, di cui si occupa un settore in forte crescita e pieno di regole
di Gabriele Gargantini
Affinché un film o una serie possano avere successo in più paesi serve localizzarli, provvedere cioè a renderli disponibili in lingue diverse. Perché questo avvenga serve fare almeno due versioni per ogni lingua: quella per il doppiaggio e quella per i sottotitoli (a cui spesso si aggiungono le audiodescrizioni per ciechi o ipovedenti e i sottotitoli per spettatori sordi o con difficoltà uditive). Ciascuna di queste traduzioni segue logiche e percorsi diversi, che spesso procedono su binari paralleli ma che quasi mai finiscono per sovrapporsi.
Da qualche anno, con l’aumentare dei contenuti disponibili sulle sempre più grandi piattaforme di streaming, sono cresciute, molto e molto in fretta, anche le richieste di traduzione.
Da un lato è senz’altro un bene, perché permette agli spettatori di fruire con modalità diverse contenuti da tutto il mondo. Dall’altro esiste però un problema di domanda che supera l’offerta, visto che le piattaforme di streaming sono per ora cresciute più rapidamente rispetto alle società che offrono servizi di traduzione e localizzazione. Peraltro, queste società devono avere a che fare con un contesto in cui spesso si tende a voler rendere disponibili i titoli subito e in tutto il mondo, e quindi già tradotti in quante più lingue possibile, per esempio, tutti gli episodi di una certa serie. Queste società devono insomma lavorare di più e più velocemente; e in genere, viste le sempre maggiori attenzioni del pubblico a questo aspetto, con cure e attenzioni sempre maggiori.
Il tutto, come è sempre stato, cercando di bilanciare le esigenze di accuratezza e le limitazioni di tempo e spazio legate alle dimensioni dello schermo, nel caso dei sottotitoli, oppure al movimento delle labbra, nel caso del doppiaggio, al fine di limitare il cosiddetto lip-flapping, lo straniante effetto che si verifica quando le labbra si muovono in una lingua ma le parole arrivano in un’altra.
Nonostante la costante presenza che le traduzioni audiovisive rappresentano nella vita di molti spettatori, e nonostante il loro essere praticamente imprescindibili per il modello di business di servizi come Netflix, Prime Video o Disney+, se ne parla poco. Spesso peraltro per criticarle; senza pensare invece a quanto siano, come ha scritto Vulture, «un campo minato di sfide logistiche e sensibilità culturali».
Per restare sui servizi di streaming – che per tempi e modi rappresentano i casi più estremi delle esigenze di localizzazione – inizia ovviamente tutto con un contenuto. Nel caso di una serie importante e attesa, come per esempio Stranger Things, c’è modo di pianificare tutto con relativa calma. Nel caso di successi inattesi e improvvisi, ci si trova invece a dover inseguire: Squid Game, per esempio, in Italia fu da subito disponibile sottotitolata (altrimenti avrebbe avuto vita difficile, essendo in coreano) ma ci vollero invece 74 giorni perché, grazie al doppiaggio, i suoi personaggi parlassero anche italiano.
Per il futuro, c’è chi ipotizza che le grandi piattaforme di streaming possano decidere di gestire internamente le traduzioni dei loro contenuti. Tra l’altro, è una cosa che Netflix tentò già nel 2017 attraverso “HERMES”, definito «il primo sistema online di sottotitolazione, test di traduzione e indicizzazione mai realizzato da una società leader nella creazione di contenuti». Il sistema però non partì mai e Netflix continuò, così come fa e fanno tuttora anche altre piattaforme, a delegare ad altri le sue traduzioni.
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In genere, ogni servizio, canale o piattaforma ha quindi una o più società con cui collabora più spesso e una serie di linee guida per chi si trova a dover tradurre i suoi contenuti. Nel caso di Netflix sono molto dettagliate e sono queste. Ce ne sono inoltre di specifiche per i sottotitoli in Italia: dicono per esempio come maneggiare abbreviazioni, acronimi e traslitterazioni; o ancora, qual è il limite di caratteri per riga (42), come vanno (o quando invece non vanno) tradotti nomi o soprannomi (per esempio “Eleven” di Stranger Things), come gestire la punteggiatura, numeri, corsivi, citazioni o ripetizioni. Tra le altre cose, dice di usare “beh” anziché “be’” e “ok” al posto di “okay”.
Il documento dice inoltre che la velocità di lettura per gli adulti è di 17 caratteri al secondo (più o meno quelli delle parole “caratteri al secondo”), 13 per i bambini.
Poi, però, un contenuto va tradotto. Una delle società che se ne occupano a livello internazionale è LinQ Media, che ha sede a Stoccolma, in Svezia, e offre servizi di doppiaggio in 25 lingue e sottotitoli in oltre 80 lingue, e che tra le altre cose realizza “closed captioning” (quelli con informazioni scritte su suoni, musiche e rumori, contraddistinti dalla sigla “CC”) e sottotitoli SDH (parziale acronimo di “subtitles for the deaf and hard of hearing”, sottotitoli per persone sorde e ipoudenti).
Sophia Klippvik, marketing manager di LinQ Media, spiega che le società di produzione o le piattaforme di streaming in genere chiedono “il pacchetto completo”, cioè la traduzione in più lingue. Di norma, quale che sia la lingua originale in cui un contenuto è stato scritto e girato, si tende a cercare di averne una traduzione inglese. Significa, per fare un esempio, che quasi sempre un contenuto in coreano, turco o bulgaro non viene tradotto direttamente da quelle lingue all’italiano, ma prima in inglese.
Nella localizzazione di contenuti audiovisivi non esistono standard e procedure immutabili, ma Klippvik spiega che nei casi migliori LinQ Media riceve due cose: il contenuto audiovisivo vero e proprio (nel caso di una serie, tutti i suoi episodi già disponibili) e, nel caso di contenuti originalmente non in inglese, una traduzione template in inglese di quel che va tradotto, cioè una traduzione che fa da “ponte” tra l’originale e quelle richieste.
Ci sono casi in cui il testo template arriva già diviso a blocchi e righe a seconda dei caratteri disponibili negli spazi per i sottotitoli, e talvolta anche con qualche nota a margine per aiutare la traduzione di determinati nomi o termini, magari perché rilevanti ai fini della trama. In altri, bisogna invece arrangiarsi con quel che c’è e, se necessario, farsi da zero anche la traduzione template e la divisione a blocchi dei testi da tradurre.
Nel caso dei sottotitoli, le traduzioni in italiano affidate a LinQ Media passano poi da Aura Benigni, il cui ruolo è “team leader” e che tra le altre cose gestisce una serie di traduttori e traduttrici freelance. Non ci sono tempi standard per la traduzione dei sottotitoli audiovisivi, dice Benigni: «a volte riceviamo richieste spot ad hoc, e dobbiamo tradurre 45 minuti, in quattro lingue, entro cinque giorni; poi ci sono clienti fissi che ci mandano decine di ore al mese». In questi ultimi casi è ovviamente più semplice pianificare, e può capitare che i tempi di consegna diventino pari a due o tre mesi.
Una volta ricevuto l’ordine, Benigni decide, caso per caso, a chi assegnarlo. Lo fa, spiega, a seconda di gusti, competenze e inclinazioni di ognuno, perché è evidentemente più facile affidare le traduzioni di un film sulle corse automobilistiche a qualcuno che ne sia almeno un po’ appassionato e intenditore.
Il traduttore scelto ottiene quindi il video e il template e, attraverso un apposito programma (che permette di tradurre blocco per blocco e vedere cosa poi gli spettatori vedranno sullo schermo) inizia la traduzione. In genere, anzitutto si guardano per intero i contenuti audiovisivi da tradurre, così da farsi un’idea del contesto e della storia (come quando si legge un libro per intero prima di mettersi a tradurlo). Non sempre, però, perché c’è anche chi preferisce tradurre alla prima lettura, magari poi tornando indietro per sistemare e ricontrollare.
Può anche succedere che qualcuno debba trovarsi a tradurre la terza stagione di una serie senza averne mai visto le prime due, e in quel caso deve ovviamente andare a recuperarle, anche senza poi doverle tradurre.
Un altro caso particolare per chi fa traduzioni audiovisive si verifica quando c’è da ritradurre in una certa lingua un contenuto che è già stato tradotto, un po’ come succede con certi romanzi. Succede perché piattaforme diverse hanno parametri diversi per i loro sottotitoli, ma anche perché spesso i diritti relativi ai sottotitoli sono slegati da quelli relativi al contenuto e quindi, semplicemente, si fa prima a rifarli che a cercarli e comprarli.
In caso di dubbi, ogni traduttore ha accesso a un file Excel relativo alla lingua in cui sta traducendo, così da controllare eventuali accortezze terminologiche. Capita inoltre che ci si confronti su determinate questioni o specifici ostacoli perché, dice Benigni, «un buon traduttore capisce sempre quando non è a suo agio con un testo».
Benigni dice che nel caso dei sottotitoli tradotti in italiano dall’inglese la sfida è partire da una lingua concisa e diretta, quindi adattissima ai limiti di spazio dei sottotitoli, per arrivare a una lingua che è spesso più articolata e prolissa. «Tante volte» spiega «in italiano non c’è spazio per tradurre un concetto che in inglese è reso con un semplice phrasal verb» (come sono per esempio i verbi “get up”, svegliarsi, o “put off”, rimandare).
Un problema a cui magari non tutti pensano è che poi in inglese non si usa il genere, e quindi qualcuno può parlare di qualche altra persona come di un “best friend” senza che si capisca se è un amico o un’amica. In italiano, invece, è difficile far dire a qualcuno la stessa cosa senza usare un genere, ma a volte bisogna farlo, perché altrimenti si creano fraintendimenti, errori e – forse peggio ancora – spoiler che in originale non c’erano.
Altri problemi comuni riguardano parole come “yo” o “dude”, la cui traduzione italiana deve essere sia giusta e accordata al contesto, sia sintetica, e che deve provare a non essere goffa e artificiosa. A volte l’espressione più giusta non è abbastanza sintetica, e se ne sceglie perciò una compatibile con lo spazio a disposizione, anche se magari non è la migliore in termini assoluti e non è quella che si sceglierebbe se non ci fossero limiti.
Anche nell’audiovisivo, dice Benigni, spesso «l’abilità del traduttore sta nel non farsi disturbare dal fatto che spesso ci si allontana molto da una traduzione letterale». Nessuno è perfetto, comunque: «a volte capisco da dove proviene il traduttore a seconda di certi termini più regionali che gli capita di usare», confida Benigni.
Sempre in termini generali, è poi infrequente che chi lavora ai sottotitoli contatti o perfino sappia chi invece si sta occupando della traduzione per il doppiaggio, perché spesso le due cose vengono affidate a società diverse. Nel caso di traduzioni per sottotitoli e traduzioni per doppiaggi fatte nella stessa società, dice Benigni, «se il traduttore è bravo si tratta semplicemente di due progetti diversi». Da una parte c’è qualcuno che deve lavorare pensando allo spazio occupato su schermo, e di conseguenza tenere a mente che in genere la prima riga è più corta della seconda e che c’è un determinato numero di CPS (caratteri per secondo) da rispettare. Dall’altra parte c’è qualcuno che deve pensare invece al labiale, peraltro sapendo che in fase di doppiaggio certe traduzioni saranno comunque cambiate.
Talvolta, nemmeno i sottotitoli standard e quelli CC e SDH sono fatti dalla stessa persona o nello stesso momento. Se ne parlò per esempio ai tempi di Squid Game, quando qualcuno – critico nei confronti dei sottotitoli della serie – fece notare come i sottotitoli-non-CC fossero migliori (in effetti, non dovendo dedicare spazio testuale ai suoni hanno quantomeno più spazio da dedicare alla traduzione delle parole).
A complicare ulteriormente l’intricato labirinto di traduzioni da cui passano certi contenuti, c’è poi il fatto che in certi casi i sottotitoli-CC sono fatti a partire dalla versione doppiata (e quindi già tradotta per il doppiaggio).
Così come per molte altre questioni che riguardano i contenuti dei servizi di streaming, è difficile fare previsioni su cosa potrà succedere e cambiare. Nonostante HERMES non sia mai davvero partito, c’è chi continua a ritenere che i grandi servizi possano pensare, almeno per una parte dei milioni di minuti di contenuti all’anno da doppiare o sottotitolare, a una soluzione interna, che prevede grandi costi d’avvio ma che può rivelarsi molto utile nel medio e lungo termine. Intanto, però, spiega Klippvik, si sta senz’altro verificando un generale consolidamento nel settore della localizzazione, con società che si fondono tra loro così da unire le forze e rappresentare intermediari più solidi e credibili agli occhi delle piattaforme.
Dato che il settore è così in crescita – e visto che le traduzioni automatiche sembrano ancora piuttosto lontane dall’essere competitive con quelle umane – è poi un contesto che potrebbe interessare a chi le traduzioni vorrebbe farle di lavoro. Per farlo, dice Benigni, «c’è bisogno di attitudine» e della consapevolezza che è «un tipo di traduzione dinamico, che richiede l’abilità di andare sempre avanti».
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