Cosa vuole fare il Movimento 5 Stelle?
La fazione interna che vuole mollare Draghi sembra maggioritaria, ma ne esiste ancora un'altra e Conte sta provando a tenerle insieme
L’esito della crisi politica innescata dalla decisione del Movimento 5 Stelle di non votare la fiducia al governo sul cosiddetto decreto Aiuti, giovedì, potrebbe dipendere in gran parte proprio dal Movimento 5 Stelle. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni che il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva presentato dopo la decisione del M5S sul decreto Aiuti. Il prossimo passaggio formale della crisi è stato fissato a mercoledì, quando Draghi spiegherà le ragioni delle dimissioni al Senato. «Cinque giorni sono tanti», avrebbe detto il capo del M5S Giuseppe Conte ai suoi collaboratori in queste ore, secondo il Foglio.
In effetti la sensazione di molti commentatori è che le cose potrebbero prendere pieghe molto diverse a seconda di cosa succederà nei prossimi giorni, soprattutto all’interno del Movimento.
La decisione di non votare la fiducia al decreto Aiuti si basa infatti sia su una scommessa politica di Conte – che secondo molti contava sul fatto che Draghi non si sarebbe dimesso, ma avrebbe fatto ulteriori aperture politiche al M5S rispetto a quelle dei giorni scorsi – sia su una esigenza di prendere tempo, come spesso è capitato a Conte nella sua breve carriera politica. Non votare la fiducia sul decreto ma al contempo non votare esplicitamente per far cadere il governo è stato il modo che Conte ha trovato per tenere insieme due fazioni interne al partito, quella più moderata e filogovernativa e quella più radicale. Non a caso giovedì tutti i 61 senatori rimasti nel M5S hanno rispettato l’indicazione del capo di non presentarsi al voto per la fiducia: un fatto assai raro per un partito molto frammentato fin dall’inizio della legislatura come il M5S.
Nei prossimi giorni però Conte dovrà comunque prendere una decisione, in un senso o nell’altro, scontentando una parte e legittimando l’altra. Gli sviluppi degli ultimi giorni fanno pensare che Conte possa accontentare l’ala più radicale, quella con cui ultimamente ha condiviso varie decisioni e prese di posizione. Anche perché ad oggi è rimasta la componente più rilevante all’interno dei gruppi parlamentari.
Il Movimento 5 Stelle ha avuto una legislatura molto movimentata, in cui ha governato ininterrottamente con tre diversi governi ma al contempo ha perso circa la metà dei suoi parlamentari per via di dissidi interni e di idee diverse fra le varie fazioni sulla direzione che dovrebbe prendere il partito. L’ultima scissione rilevante è avvenuta a fine giugno, quando il ministro degli Esteri ed ex capo politico del Movimento Luigi Di Maio è uscito dal partito in dissenso con la linea di Conte (con cui aveva sostanzialmente perso la battaglia politica per la leadership del partito).
Assieme a Di Maio ha lasciato il Movimento gran parte dei deputati e senatori favorevoli a sostenere il governo Draghi fino alla fine della legislatura, mentre nel Movimento 5 Stelle sono rimasti vari ex storici attivisti, molti dei quali legati a una primissima fase radicale e populista del partito, o persone che hanno deciso di legare il proprio destino politico a quello di Conte, e che si accoderanno a qualsiasi decisione che prenderà.
Alla prima categoria appartengono per esempio Paola Taverna e due ex sottosegretari ai Rapporti per il Parlamento, Vincenzo Santangelo e Gianluca Castaldi, rispettivamente in carica nel primo e nel secondo governo Conte. Fra le persone più legate a Conte c’è invece il senatore Ettore Licheri, avvocato sardo, ex presidente della commissione Affari europei, che qualche mese fa Conte aveva provato a imporre come capogruppo (senza successo).
Proprio dietro la spinta dei parlamentari dell’ala più radicale – che siedono soprattutto in Senato – da settimane Conte sta cercando di far riguadagnare una qualche centralità al Movimento avanzando al governo Draghi una serie di proposte politiche vagamente identitarie: su tutte il rinnovo del Superbonus edilizio, un rafforzamento del reddito di cittadinanza, lo stralcio dal decreto Aiuti di una norma che consentirebbe la costruzione di un termovalorizzatore per rifiuti a Roma (a cui il M5S si oppone molto duramente).
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«Rispetto a ieri molti si sono sentiti liberati, e la base ci chiede di rompere, anzi dovremmo tornare a consultarla», ha detto al Fatto Quotidiano una fonte vicina a Conte. Sembra che sempre più persone intorno a Conte, insomma, si siano convinte che l’unico modo per riguadagnare qualche consenso perduto è proprio quello di assumersi la responsabilità di avere fatto cadere il governo Draghi.
Ne ha scritto venerdì sul Fatto Quotidiano anche Domenico De Masi, ascoltatissimo consigliere sia di Conte sia del fondatore del M5S Beppe Grillo. In un lungo articolo di opinione ha ipotizzato per esempio che «oggi i sondaggi danno i 5 Stelle al 12%. Se escono dal governo, Di Battista torna all’ovile portando con sé un 3% e il partito si piazza al terzo posto nello scacchiere elettorale italiano».
Non è chiarissimo chi si opponga a questo scenario, dentro al partito. Il Fatto parla soprattutto dei tre ministri espressione del partito: Federico D’Incà, Stefano Patuanelli e Fabiana Dadone. Il Foglio cita Davide Crippa, il capogruppo alla Camera che qualche mese fa Conte aveva provato a rimuovere, anche in questo caso senza successo. L’ex ministro Riccardo Fraccaro, leader di fatto del M5S in Trentino e un tempo vicinissimo a Di Maio, sul suo status di WhatsApp ha pubblicato un fotomontaggio con la faccia di Conte e il corpo di Matteo Salvini mentre si trova in spiaggia al Papeete, lo stabilimento balneare di Milano Marittima dove si trovava nei giorni in cui faceva cadere il primo governo Conte.
Ci sono alcuni segnali però che fanno pensare che i parlamentari disposti a rimanere nella maggioranza possano essere più di quelli che sembrano. «Subito dopo che Draghi ha formalizzato le dimissioni salendo al Quirinale, nelle chat grilline è sceso il gelo», ha scritto il Corriere della Sera: «commenti con il contagocce, perché solo in quel momento tanti hanno capito che le elezioni a settembre sono una possibilità concreta e che, quindi, il loro posto in parlamento potrebbe saltare da un momento all’altro».
Per venerdì è prevista un’altra riunione del consiglio nazionale del M5S, il principale organo di governo del partito, in cui sono rappresentate tutte le principali fazioni. Non è chiaro se basterà questa riunione per definire la linea politica da tenere nei prossimi giorni. Giovedì sera il consiglio nazionale era terminato con molte tensioni fra i componenti favorevoli e quelli contrari all’uscita dalla maggioranza. «Meglio dormirci su, sennò finiva male», aveva commentato ad Adnkronos uno dei partecipanti.