La versione dei giocatori
I podcast e le trasmissioni in cui gli atleti raccontano e commentano lo sport in prima persona sono sempre più popolari e influenti
Durante le ultime finali del basket NBA uno dei giocatori principali e più famosi della squadra vincitrice del titolo, Draymond Green dei Golden State Warriors, ha continuato a registrare il suo podcast e ha analizzato le partite e le sue prestazioni, anche quelle peggiori. Il Draymond Green Show è stato uno degli eventi laterali più discussi delle finali e in quei giorni è arrivato in testa alle varie classifiche dei podcast più ascoltati. È stato inoltre uno dei migliori esempi di una tendenza iniziata qualche anno fa e sempre più diffusa, quella di far parlare del gioco chi sta dentro il gioco, senza intermediari.
Il Draymond Green Show esiste in varie forme da alcuni anni e sta continuando in queste settimane. Fin qui conta cinquanta puntate e si propone di fornire «una piattaforma a uno dei giocatori più carismatici e spesso polarizzanti della NBA, per parlare delle cose che lo interessano di più». Oltre alle analisi delle partite — le sue e quelle dagli altri — Green, famoso per essere particolarmente emotivo e carismatico in campo, parla anche di attualità e conversa con vari ospiti, non solo giocatori di basket. Gli episodi escono ogni mercoledì, durano circa un’ora e sono prodotti dalla piattaforma iHeartRadio.
Ma è quando parla di basket che Green attira più attenzioni, perché le opinioni personali di un giocatore in attività che ha voglia di raccontarle si collocano a metà strada tra la visione delle partite e le analisi degli esperti che iniziano subito dopo la loro conclusione, e continuano per giorni, tra giornali e televisioni. Questo processo è diventato nel corso degli anni una parte integrante dell’esperienza sportiva di ognuno, e ancora non si sa bene dove e come collocare i contenuti prodotti dagli stessi giocatori, peraltro in modo indipendente.
Nel caso di Green non era mai successo prima che un giocatore NBA parlasse a ruota libera per mezzora commentando in lungo e in largo le finali che lui stesso stava disputando. Questa novità ha avuto diverse conseguenze. Un assistente di una squadra NBA, per esempio, ha spiegato a Bleacher Report che gli staff tecnici avversari hanno preso l’abitudine di ascoltare Green alla ricerca di ogni minimo vantaggio possibile, contro lui e la sua squadra. Lo hanno fatto i Dallas Mavericks durante i playoff e i Boston Celtics nelle finali, apparentemente senza grandi risultati, anche perché Green sostiene di non rivelare nulla di compromettente. Ma c’è chi spera prima o poi lo faccia.
Nel corso delle finali, specialmente nelle prime gare, le sue prestazioni erano state piuttosto deludenti e questo aveva attirato inevitabilmente critiche nei suoi confronti e nei confronti del podcast, ritenuto una distrazione in un momento così cruciale, peraltro soggetto a grandi pressioni dall’esterno. Dopo che in una puntata registrata al termine di una gara delle finali Green aveva parlato di un avversario dei Boston Celtics, Jaylen Brown, quest’ultimo aveva risposto commentando: «Si è fatto un podcast ed è uscito di testa». Le parole di Brown avevano ricordato una famosa battuta del rapper Drake, che a una cerimonia di premiazione del campionato disse: «Draymond Green ha smesso di prendere a calci le persone — riferendosi al suo stile di gioco difensivo, spesso rude — e si è spostato su qualcosa di molto peggio, il suo podcast».
Negli sport professionistici più popolari e seguiti dai media gli atleti sono sempre stati “protetti” dalle squadre per quanto riguarda le pressioni e le richieste della stampa: tuttora vengono concessi soltanto in spazi e tempi prestabiliti, per interviste approvate. È un modo per tenerli al riparo da possibili distrazioni e per evitare che possano mettersi, o mettere le loro società, in situazioni scomode. Con la diffusione di piattaforme che hanno facilitato la diffusione di contenuti audio, però, ad alcuni atleti di norma piuttosto esperti è venuta voglia di raccontare in prima persona, senza forzature altrui, la loro versione delle cose.
Questa tendenza era iniziata all’incirca nel 2014 con The Players’ Tribune, una società editoriale fondata dall’ex capitano dei New York Yankees, Derek Jeter. Fu una novità perché si basava interamente su contenuti scritti in prima persona da atleti e allenatori professionisti di alto livello, seppur con l’aiuto più o meno evidente di altri autori e ghostwriter. Lo scopo di Jeter e dei suoi soci era proprio quello di dare un mezzo agli atleti per offrire una visione più diretta delle loro vite.
Il podcast di Draymond Green è nato seguendo la stessa linea ed è un caso unico per coinvolgimento e profondità dei contenuti, ma ci sono anche altri casi. Restando nel basket NBA, per esempio, durante il primo periodo della pandemia Nicolò Melli, allora ai New Orleans Pelicans, fece un podcast di cinque puntate — N il podcast di Nicolò Melli — registrato nella “bolla” di Orlando, il luogo in cui tutta la NBA era stata rinchiusa per portare a termine la stagione. In ciascuna puntata Melli ospitava un italiano del campionato, da Danilo Gallinari a Sergio Scariolo, assistente allenatore dei Toronto Raptors, e parlava della vita in quella “bolla” e delle rispettive esperienze in NBA. Venne fuori un prodotto con molti contenuti e conversazioni interessanti, aiutato dalla sua corta durata.
Un altro caso che riguarda l’Italia è la BoboTV, il format in cui gli ex calciatori Christian Vieri, Antonio Cassano, Nicola Ventola e Daniele Adani discutono di calcio, passato e presente, tra varie iniziative e talvolta in presenza di ospiti. Il format nacque quasi involontariamente durante la pandemia, quando calciatori ed ex calciatori avevano preso l’abitudine di trovarsi a chiacchierare nelle dirette di Instagram, seguite da decine di migliaia di persone. Da lì, con l’aiuto di collaboratori e agenzie di comunicazione, il format è diventato più strutturato ed è passato su Twitch, anche se molti dei suoi contenuti diventano spesso virali in altri social network.
Nella BoboTV non ci sono calciatori in attività, ma le varie figure coinvolte condividono lunghe esperienze sul campo, sono stati e sono tuttora commentatori televisivi e grazie ai loro trascorsi riescono a coinvolgere persone che è raro vedere anche nei programmi televisivi più conosciuti. È il caso di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, che a maggio del 2021 fu ospite della trasmissione e chiacchierò e scherzò per quaranta minuti come non aveva mai fatto in nessun altro programma, almeno in Italia.
Un format fatto soltanto da giocatori o ex giocatori in attività che parlano dello sport che conoscono come pochi altri può sembrare imbattibile e capace di rendere obsoleti i programmi televisivi e i contenitori più tradizionali. Col tempo però sembra che questo nuovo formato si sia posizionato parallelamente all’informazione tradizionale, e talvolta può generare l’effetto opposto, come ha scritto Jeremy Gordon sul New York Times dopo una puntata del Draymond Green Show: «In fin dei conti non è stata molto interessante. Green è un tattico brillante e la sua capacità di descrivere il gioco è acuta, ma nel podcast la sua performance è sembrata stanca. Si è preso lunghe pause e ha fatto spesso osservazioni scontate sui suoi compagni di squadra (“Steph Curry e Klay Thompson hanno tirato bene”) o su come poteva migliorare il proprio gioco (“Per me, il cambiamento più grande è solo riuscire ed essere Draymond Green”)».
Per Gordon, al netto della conoscenza del gioco e delle piccole rivelazioni che ciascun professionista può fare sul mondo che frequenta dall’interno, manca la profondità e la capacità esplicativa e divulgativa che gli esperti in genere hanno e i giocatori no, in quanto occupati in un ambito diverso da quello dell’informazione, o che non hanno ancora avuto modo di sviluppare. Lo stesso si può notare nella BoboTV, il cui successo sembra sia più legato alla forma di intrattenimento che offre — come testimonia il tour in corso nei teatri italiani — più che a una qualità informativa o alla capacità di analisi su temi più complessi.
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