Il Movimento 5 Stelle minaccia una crisi di governo
Non vuole votare la fiducia al governo Draghi sul decreto Aiuti, ma al contempo non sembra volerlo fare cadere davvero
Lunedì il Movimento 5 Stelle non ha partecipato al voto finale alla Camera del cosiddetto “decreto legge Aiuti”, e giovedì potrebbe fare lo stesso al Senato, dove fra l’altro il governo ha deciso di vincolare il decreto a un voto di fiducia. È una decisione che il Movimento ha giustificato con alcune ragioni concrete – su tutte, il mancato rinnovo del cosiddetto Superbonus edilizio, ideato proprio dal M5S – e che molti interpretano come il primo passaggio politico di una potenziale crisi per il governo guidato da Mario Draghi, di cui il M5S è uno dei principali sostenitori.
Di fatto però la crisi di governo non è iniziata e forse non inizierà nemmeno: come succede ciclicamente nella politica recente italiana siamo ancora nella fase delle minacce e delle rassicurazioni, delle dichiarazioni battagliere seguite da quelle concilianti, e potrebbe risolversi tutto nel giro di pochi giorni.
Il M5S è molto diviso al suo interno riguardo il sostegno al governo Draghi, e diversi parlamentari stanno cercando di convincere il presidente Giuseppe Conte a fare uscire il partito dalla maggioranza per cercare di riacquistare consensi in vista delle elezioni politiche, che si terranno nella primavera del 2023.
Ma Draghi ha detto più volte che senza il sostegno del M5S il suo governo non avrebbe più senso di esistere, in quanto espressione di compromesso di tutte le principali forze politiche parlamentari. Lo ha ripetuto anche martedì nel corso di una conferenza stampa per presentare alcune manovre del governo sul costo della vita: «Non c’è un governo senza Movimento 5 Stelle». Nel caso uscissero dalla maggioranza, insomma, Conte e il M5S dovrebbero con ogni probabilità assumersi la responsabilità politica di far cadere il governo: col rischio ulteriore di andare subito a elezioni e magari prendere ancora meno voti di quelli stimati dai sondaggi.
«La crisi non c’è perché è il M5S che non la vuole, nonostante la stia provocando», ha scritto martedì sul Corriere della Sera l’esperto cronista politico Francesco Verderami, provando a sintetizzare la situazione un po’ paradossale in cui si trova il dibattito politico.
Il voto di giovedì al Senato potrebbe comunque provocare ulteriori sommovimenti. Il Corriere della Sera scrive che fra i senatori del M5S «c’è un clima da rivolta: alcuni — tra i dieci e i dodici senatori su 62, quindi uno su sei — potrebbero scegliere di non votare la fiducia a prescindere, andando anche contro eventuali ordini di partito».
Uno dei principali problemi incontrati da Conte dall’inizio del suo incarico di presidente del partito è lo scarso controllo che esercita sui gruppi parlamentari: nel 2018, quando furono compilate le liste elettorali del partito, Conte era un semi-sconosciuto professore universitario legato solo informalmente al M5S. Nel frattempo diversi parlamentari insofferenti alla leadership di Conte hanno lasciato il partito. Una quota di loro però è rimasta, e potrebbe quindi mettere in difficoltà Conte convincendo tutto il gruppo parlamentare del Senato a non partecipare al voto sul decreto Aiuti.
Repubblica scrive che Draghi non ha intenzione di accogliere le richieste che Conte e il M5S hanno consegnato in una lista qualche giorno fa – le urgenze «che non richiedono una pronta risposta», come le aveva definite Conte – anche per evitare che altri partiti possano avanzarne di simili. Al tempo stesso però «il governo ha in pista alcune misure che certo non possono dispiacere al M5S, come il salario minimo su cui è pronta la proposta del ministro del Lavoro Andrea Orlando e che oggi [martedì] sarà al centro dell’incontro con Cgil, Cisl e Uil». Anche Domani scrive che il governo potrebbe accelerare l’iter legislativo del salario minimo, a cui sta lavorando da circa un anno, per disinnescare una potenziale crisi politica avviata dal M5S.
Il Movimento 5 Stelle non è l’unico partito ad essersi agitato, negli ultimi giorni. Lunedì pomeriggio il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha chiesto a Draghi con un comunicato stampa di convocare una riunione di maggioranza nel caso il M5S non voti il decreto Aiuti. Alla richiesta si è accodata anche la Lega. Alcuni giornali riportano l’ipotesi che in entrambi i partiti si stia valutando se lasciare la maggioranza che sostiene Draghi. Nel caso la colpa verrebbe addossata, si legge, alla litigiosità del M5S e ad alcune proposte parlamentari del centrosinistra, come lo “ius scholae” e la legalizzazione della cannabis.
La posizione di Draghi in queste ore sembra piuttosto indecifrabile. Alcuni giornali lo descrivono come sereno e assai poco turbato dalle tensioni politiche interne alla maggioranza. Il Corriere della Sera invece riporta una telefonata in cui avrebbe detto ad Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, di avere le «tasche piene» dell’incertezza che sembra avvolgere il suo governo. «Non permetterò che questa situazione si trascini a lungo. E se non si comporrà, sarò io a salire al Quirinale», avrebbe detto sempre a Tajani riguardo al sostegno del Movimento 5 Stelle. Lunedì sera intanto Draghi è andato al Quirinale per parlare con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma secondo i cronisti non hanno parlato della possibile crisi.
La sensazione di diversi cronisti politici e retroscenisti è che prima o poi una crisi di governo avverrà: magari in autunno, mentre si discuterà la legge di Bilancio in piena campagna elettorale per le elezioni politiche. Oppure a settembre, subito dopo la ripresa dei lavori parlamentari. Su Domani, Giulia Merlo scrive che il governo ha quasi completato la bozza della legge di Bilancio per fare in modo che possa essere approvata anche da un governo dimissionario, in carica soltanto per gli affari correnti.