Chi fa le newsletter inizia a essere stanco
Scrivere con cadenza regolare per un pubblico affezionato è appagante ma faticoso, e sono sempre di più gli autori che decidono di mollare o di prendersi una pausa
di Riccardo Congiu
Negli ultimi anni tanti giornalisti nel mondo hanno lasciato le proprie redazioni per dedicarsi a tempo pieno a newsletter personali, con una maggiore autonomia nell’organizzazione del tempo e nella scelta dei contenuti. Altri lavoravano già come giornalisti autonomi – i cosiddetti freelance – e hanno trovato nelle newsletter una nuova possibilità lavorativa, in tempi di grande crisi per le aziende giornalistiche, che fanno sempre più fatica ad assumere nuove persone con contratti stabili. Altri ancora hanno aperto una newsletter perché interessati a parlare di un certo argomento, senza necessariamente volerne fare un lavoro.
Le newsletter sono state insieme ai podcast il nuovo formato di informazione di maggiore successo degli ultimi anni, e come per tutte le cose nuove è servito un po’ di tempo per comprenderne il reale impatto sul mondo dei media, al di là degli entusiasmi iniziali: la scorsa settimana per esempio Substack, il più popolare servizio per distribuire newsletter a pagamento, ha licenziato 13 persone su 90, ridimensionando degli investimenti iniziali che probabilmente erano stati troppo ottimistici.
Allo stesso modo anche gli autori di newsletter hanno avuto bisogno di tempo per capire bene vantaggi e limiti del loro nuovo lavoro, e ultimamente sono sempre di più quelli che dichiarano di accusarne le fatiche, che si manifestano anche in modalità che non si aspettavano quando avevano iniziato. Ci sono sempre più esempi di autori che chiudono la propria newsletter o che si prendono delle pause.
Come ha scritto Andrew Fedorov su The Fine Print, il successo recente delle newsletter «era stato costruito su una promessa di emancipazione»: gli autori si erano rivolti a un mezzo emergente per liberarsi dall’ossessione dei giornali verso gli obiettivi numerici e le pagine viste, potendosi dedicare senza vincoli a ciò che genuinamente ritenevano più interessante. Ma in maniera un po’ inattesa, si sono riscoperti molto più stanchi e sotto pressione di quando dovevano rendere conto a un editor o a un capo.
Alex Kantrowitz, un ex giornalista di BuzzFeed che nel 2018 lasciò la redazione per dedicarsi esclusivamente a una sua newsletter sulle Big Tech (le grandi aziende tecnologiche come Facebook e Amazon, tra le altre), ha spiegato efficacemente a Fedorov come ha vissuto questo nuovo tipo di pressioni e scadenze: «Quando passi dall’essere una persona in una redazione all’essere l’unico responsabile di una testata indipendente, devi essere efficiente oppure morirai». E ancora: «Devo far uscire la mia newsletter il giovedì, punto, fine della storia».
Il settore ha attirato grandi attenzioni e investimenti anche da parte di media e aziende giornalistiche, che hanno aperto molte newsletter affidandole spesso a singoli giornalisti: anche questi generalmente hanno detto di lavorare molto più di prima e di avere meno tempo libero.
Sono nati diversi servizi attraverso cui chiunque può creare in pochi minuti una newsletter e iniziare a inviarla: Substack è quello che ha avuto maggiore successo perché ha offerto da subito la possibilità di chiedere dei soldi ai lettori per finanziarla su base mensile o annuale. In questo mercato si sono poi inseriti social network come Twitter e Facebook, che hanno lanciato i loro servizi di newsletter per sfidare il primato di Substack: per competere tra loro, queste aziende hanno cominciato a pagare gli autori più noti affinché pubblicassero tramite la loro piattaforma. Per i giornalisti che volevano mettersi in proprio, è stato come tornare ad avere un datore di lavoro.
Ma l’ansia di inviare la newsletter con cadenza regolare non esiste solo per chi ne ha fatto la propria fonte di sostentamento principale: molti sentono a prescindere una certa responsabilità verso i lettori, che spesso instaurano con l’autore un rapporto personale, gli scrivono per ringraziarlo del suo lavoro, lo seguono sui profili social privati. Secondo Vincenzo Marino, che da due anni e mezzo invia gratuitamente la newsletter Zio, oltre a questo nell’autore si insinua anche un meccanismo di stimolo continuo legato «al grafico degli iscritti che cresce, o alla gente che vedi che si disiscrive».
Zio è una newsletter che spiega a chi non ne fa parte il mondo della generazione Z (quella di chi è nato tra il 1997 e il 2012), che Marino finora ha scritto per hobby, ma con una certa cura: sono sempre articoli di approfondimento che per la fase di stesura richiedono più o meno un giorno e mezzo di lavoro a tempo pieno, spiega Marino, spesso ricavato nei ritagli di tempo, dopo cena e scrivendo fino a tardi.
All’inizio usciva con una cadenza settimanale, ma dopo qualche tempo aveva dovuto abbassare la frequenza a una newsletter ogni due settimane, poi a una sola al mese (ora ne invia spesso due al mese). La preoccupazione di “far uscire qualcosa” però è sempre rimasta: «Se non scrivo niente nessuno si accorge che c’è la newsletter: non è un sito, devo per forza inviare per farla conoscere», dice.
In questi anni le newsletter sono entrate nelle routine di moltissime persone, che si aspettano di riceverle sempre lo stesso giorno e alla solita ora: a volte hanno associato a quell’appuntamento rituali e abitudini, e quando non le trovano nella casella di posta non si fanno problemi a scrivere all’autore per sapere se sia successo qualcosa.
Chi ha una newsletter, soprattutto chi ne ha fatto un lavoro, in molti casi deve gestirne anche i profili social e dedicarsi alla promozione dei suoi contenuti. Deve provvedere da solo a una parte del lavoro per cui non ha una formazione specifica, e di cui in un’azienda editoriale si occuperebbero altri: come pensare a strategie di marketing e di monetizzazione, o stipulare accordi con eventuali inserzionisti.
Deve rispondere ai dubbi dei lettori ma anche risolvere eventuali inconvenienti tecnici di chi paga l’abbonamento. Molti dicono di avere la sensazione di non staccare mai.
Fedorov, che ha intervistato diversi autori americani, è arrivato a dire che il cosiddetto “burnout”, cioè quello che in italiano chiameremmo un esaurimento nervoso, «è diventato endemico tra gli autori di newsletter». È un discorso che è stato fatto in generale per la categoria dei creator, cioè chi produce contenuti online di qualsiasi genere in grado di ottenere un grosso seguito.
Carola Frediani, che dal 2018 ha aperto la newsletter Guerre di Rete, su temi legati all’ambiente digitale e alla sicurezza informatica, quando arriva l’estate decide di staccare nettamente: «Scrivo ai lettori: mi prendo due mesi, ragazzi». Anche perché per scrivere dei buoni contenuti «c’è bisogno di aggiornarsi, leggere, scoprire, e quindi anche fare altro», dice Frediani. Il vantaggio è che proprio quel rapporto stretto con gli iscritti fa in modo che gli si possa spiegare con franchezza queste esigenze, e che quelli capiscano: «Moltissimi mi scrivono cose come “mi raccomando riposati, durante le vacanze!”».
Lo scorso anno Emily Atkin ha inviato un messaggio ai suoi lettori per comunicare che la sua newsletter Heated, sul cambiamento climatico, non sarebbe più uscita quotidianamente, ma una volta a settimana: «Non tutti hanno la possibilità di combattere il burnout sul posto di lavoro. Ma io ho il privilegio unico di provare a farlo qui». In quel momento Atkin aveva circa 40mila iscritti (con un tasso di abbonati paganti molto alto, tra l’8 e il 12 per cento), ma si era resa conto che a quei ritmi era difficile seguirla anche per i lettori più fedeli.
Non è l’unica ad aver sperimentato che ridurre la frequenza di invio può aiutare anche ad aumentare la percentuale di lettori che aprono e leggono ogni singola newsletter, senza che a loro volta si stanchino di riceverne troppe e vengano sopraffatti dalla quantità di cose da leggere.
In questi anni si sono dimostrate di maggiore successo le newsletter che si occupano di temi molto specifici, ma trovare sempre qualcosa di interessante da approfondire richiede tempo, e può diventare molto stressante. Non è raro trovare autori che, quando sono in crisi di argomenti da trattare, fanno uscire newsletter con titoli tipo “chiedetemi qualsiasi cosa”.
Pietro Minto con Link Molto Belli ha trovato una formula che ha funzionato senza occupare nessuna nicchia: ogni sabato dal 2014 (è una delle prime e più longeve newsletter italiane di successo) invia una raccolta di articoli e contenuti che ha trovato su internet e che gli sono piaciuti. Più o meno due anni fa aveva aggiunto alla normale offerta gratuita un’opzione in abbonamento con un contenuto in più alla settimana, che si chiamava Meraviglie: «Da un lato mi ha dato soddisfazioni, ma dopo un annetto ho cominciato a sentire una certa pesantezza, ero stressato», racconta.
Da aprile di quest’anno Meraviglie non esiste più: Minto lo ha comunicato in un messaggio molto sincero e personale – che è uno degli aspetti più apprezzati delle newsletter – ai suoi iscritti, a cui ha restituito i soldi degli abbonamenti. «Pensare che ti stai facendo pagare è una bella responsabilità, io lo avevo fatto sull’onda dell’entusiasmo in un periodo in cui ero freelance e poteva essere una cosa in più tra altre collaborazioni», ma spiega che poi aveva perso il piacere di farlo.
Federica Salto ha una delle newsletter di maggiore successo in Italia: si chiama La moda, il sabato mattina e ha circa 20mila iscritti, di cui 1.100 abbonati paganti che ricevono due newsletter in più al mese in ragione del loro impegno economico. «La maggior parte delle persone si abbona soprattutto per sostenere il mio lavoro. Poi, certo, gli fa piacere avere anche contenuti in più da leggere», dice. Perciò ha sempre trovato grande comprensione quando per qualche ragione si è dovuta fermare per un periodo (qualche tempo fa per esempio è andata in maternità).
Solitamente la sua newsletter è divisa in due parti: la prima è un approfondimento su un tema specifico scritto dalla stessa Salto, la seconda una selezione di contenuti usciti in settimana. Per non abbassare la qualità degli approfondimenti, negli ultimi mesi le è capitato di far uscire versioni ridotte, con la sola selezione dei contenuti, ma non ha ricevuto lamentele.
Diversi autori sentiti dal Post concordano sul fatto che la parte di scrittura sia la più faticosa, mentre quella più lunga e costante di aggiornamento sui temi non pesa a nessuno, perché chi ha una newsletter è generalmente molto interessato all’argomento di cui si occupa.
Da qualche tempo Salto ha cominciato a farsi aiutare da un’altra persona nella gestione organizzativa e tecnica della sua newsletter, che altrimenti le toglierebbe troppo tempo. È molto difficile però delegare parti di lavoro più editoriali in progetti personali come le newsletter, e sono pochissime quelle che ospitano articoli scritti da persone diverse dall’autore.
Nonostante i ritmi descritti generalmente come stressanti, quasi tutti gli autori di newsletter dicono di ricavare grande soddisfazione dal loro nuovo lavoro, e maggiore che nei precedenti. Molti raccontano che lavorare a una newsletter ha migliorato le loro abitudini lavorative.
La soddisfazione che ne deriva però rende più difficile capire quando è il momento di mollare, soprattutto per chi cerca di farne un lavoro e ci investe gran parte del suo tempo, rinunciando ad altro. Un mese fa la giornalista britannica Anna Codrea-Rado ha annunciato ai suoi 16mila iscritti che avrebbe chiuso definitivamente la sua newsletter. Aveva passato 5 anni a parlare di media e modelli di business, spiegando ai lettori su cosa convenisse “investire”: un’espressione che in inglese viene resa come pivot to.
L’ultima newsletter l’ha chiamata quindi emblematicamente «Pivot to goodbye», “investire nell’addio”. «Non sta funzionando. Soprattutto, i conti non tornano più», ha scritto. La fatica di cercare informazioni e idee aveva superato quella per la stesura della newsletter: «di recente mi sono anche resa conto che sto spendendo più energie creative per trovare il modo di risolvere il problema di quante non ne usi per scrivere. È ora di impiegare le mie energie in qualcosa di nuovo».