La parità salariale tra uomini e donne nel tennis è ancora molto lontana
Esiste solo nei tornei del Grande Slam: un grande risultato, che però contribuisce a nascondere i molti problemi che ancora ci sono
di Riccardo Congiu
Nel fine settimana si è concluso il torneo di Wimbledon, il più prestigioso del tennis mondiale, con la vittoria in singolare di Elena Rybakina e Novak Djokovic: entrambi hanno vinto 2 milioni di sterline (circa 2 milioni e 350mila euro), nell’edizione con il montepremi più alto di sempre. È da quindici anni che a Wimbledon il montepremi è lo stesso per uomini e donne: nel 2007 era stato l’ultimo dei 4 tornei del Grande Slam (i più importanti della stagione tennistica) a raggiungere la parità salariale. US Open lo aveva già fatto nel 1973, Australian Open nel 2001 e Roland Garros sempre nel 2007.
Quella sulla parità salariale nei tornei del Grande Slam è stata una decisione importante, ma non risolutiva di un problema che continua a persistere nel tennis mondiale. In tutti gli altri tornei, infatti, il divario salariale di genere è ancora molto ampio. Se si escludono gli Slam, la somma dei montepremi di tutti i tornei che si sono giocati finora quest’anno nel circuito maschile è stata il 75 per cento più alta di quella del circuito femminile.
Secondo un’analisi del giornalista esperto di dati John Burn-Murdoch sul Financial Times, è il divario più grande dal 2001.
Per fare qualche esempio concreto tra i tornei più famosi, quest’anno agli Internazionali di Roma la campionessa del torneo femminile, Iga Swiatek, ha vinto 322mila euro, contro gli 836mila euro del campione maschile Novak Djokovic. Anche l’altro finalista maschile Stefanos Tsitsipas, con il suo secondo posto, ha vinto oltre 100mila euro in più di Swiatek. Al torneo di Dubai che si è giocato a febbraio, il vincitore maschile ha guadagnato 523mila dollari, mentre la vincitrice femminile meno di un quinto, 104mila. Entrambi i tornei valgono lo stesso numero di punti in classifica per uomini e donne.
Eppure, tra gli sport più seguiti, il tennis è citato spesso come un esempio virtuoso sulla parità di genere. Ci sono diverse ragioni per cui il problema è molto sottovalutato: la prima è che una grossa parte del pubblico del tennis segue solo i grandi eventi come gli Slam, ed è portata a pensare che oltre a quello ci sia poco, o che tutto il tennis assomigli a quei tornei: ma non è così. La seconda è che le tenniste di vertice, quelle più in vista, sono le sportive più pagate al mondo (ma in ogni caso meno dei loro colleghi uomini), e appaiono ai più come privilegiate, piuttosto che discriminate.
C’è poi una terza motivazione più storica, e riguarda il fatto che il tennis è tra tutti gli sport quello che ha avuto le battaglie più iconiche per la parità di genere, portate avanti da alcune delle atlete più famose di sempre, come Billie Jean King e le sorelle Venus e Serena Williams. Il loro impegno è stato molto raccontato, anche in film assai popolari, contribuendo a creare l’equivoco per cui i problemi fossero stati risolti.
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Nel 1973 fu la stessa King a spingere gli US Open, che si giocano negli Stati Uniti, a diventare il primo torneo ad abolire il divario salariale tra uomini e donne. Nata a Long Beach, in California, King era la tennista americana di punta e amatissima, aveva vinto consecutivamente le edizioni del 1971 e del 1972 del torneo e disse che non si sarebbe presentata l’anno successivo se i montepremi non fossero stati equiparati a quelli previsti per i maschi: riuscì nel suo intento.
Più di quarant’anni dopo furono altre due statunitensi, Venus e Serena Williams, a esporsi con continuità (convincendo altre campionesse a farlo) per ottenere lo stesso risultato nei due tornei dello Slam che ancora non avevano equiparato i montepremi, Wimbledon e Roland Garros.
Nel 2006 Venus Williams, che in carriera ha vinto 7 Slam, inviò una lettera al Times (il principale quotidiano di Londra, dove si gioca Wimbledon) dal titolo: «Wimbledon mi ha mandato un messaggio: sono solo una campionessa di serie b».
Del divario salariale nel tennis si torna a parlare periodicamente, e sta succedendo a più riprese anche quest’anno. L’ultima solo poche settimane fa, quando la tennista ucraina Marta Kostyuk ha fatto notare sul suo profilo Twitter la sproporzione tra i due tornei tedeschi di Halle (solo maschile, 400mila euro al vincitore) e Berlino (solo femminile, 55mila euro alla vincitrice), che assegnano lo stesso numero di punti.
Molti commenti sotto al tweet di Kostyuk sostenevano che non ci fosse troppo da indignarsi, visto che le due organizzazioni mondiali del tennis maschile e femminile, ATP e WTA, sono due entità distinte, che stipulano contratti diversi con gli sponsor e prendono accordi singolarmente con le televisioni per la trasmissione delle partite.
È uno dei principali argomenti per chi sostiene che la disparità salariale del tennis sia giusta: se il circuito femminile genera meno attenzioni mediatiche e ricavi, dicono, è normale che i premi siano più bassi.
È una motivazione razionale e in parte vera, ma secondo molti esperti di storia del tennis ignora una visione di lungo periodo: da quando esiste questo sport, cioè almeno 125 anni a livello professionale, a uomini e donne non sono mai state date le stesse opportunità. Secondo Matthew Willis, analista di tennis che si è occupato molto del tema, storicamente il tennis maschile «è stato infinitamente più accessibile» e «meglio finanziato e pubblicizzato di quello femminile fin dalla sua nascita, con un evidente vantaggio conscio e inconscio che, secondo molti, dovrebbe continuare a essere mitigato quando si promuovono e si finanziano entrambe le parti dello sport».
In alcuni casi questo “vantaggio conscio e inconscio” è stato piuttosto evidente. Durante lo scorso Roland Garros, è stato chiesto alla direttrice del torneo Amélie Mauresmo, ex tennista campionessa di Wimbledon e Australian Open, come mai per 9 giorni su 10 fossero stati programmati incontri maschili nella fascia serale, quella più seguita dal pubblico. Mauresmo ha risposto con un po’ di imbarazzo: «In questo momento… c’è più attrazione, fascino, in generale, nelle partite degli uomini».
Anche negli Slam, le partite femminili sono quasi sempre programmate nella fascia mattutina, quando ci sono meno spettatori sia in TV che dal vivo.
Oltre al progressivo superamento di questo pregiudizio, una possibile soluzione che è stata proposta per affrontare questo problema è stata di unire ATP e WTA in un’unica organizzazione. Il motivo per cui storicamente sono sempre state separate è che entrambe sono nate negli anni Settanta come dei sindacati spontanei, in momenti in cui alcuni tennisti e alcune tenniste hanno sentito l’esigenza di associarsi per avere maggiori tutele come lavoratori e lavoratrici.
Se gli Slam hanno realizzato la parità salariale dall’oggi al domani è stato anche perché fanno parte di un’organizzazione distinta da ATP e WTA, unica per uomini e donne. Nell’ultimo periodo è sembrato che questa possibile fusione sia stata più vicina: lo scorso anno per esempio ATP e WTA hanno unito le proprie operazioni di marketing per alcuni contratti di sponsorizzazione.
L’altro grande argomento molto popolare tra i sostenitori della disparità salariale nel tennis è quello che viene spesso sintetizzato nella formula equal pay for equal play (“stessa paga per lo stesso gioco”). È assai più illogico e meno fondato del primo argomento: si basa sul fatto che negli Slam gli uomini giocano partite al meglio dei 5 set (cioè vince il primo che arriva a 3 set), mentre le donne al meglio dei 3 (vince chi arriva prima a 2 set).
Sarebbe quindi ingiusto pagarli allo stesso modo, almeno negli Slam, perché le partite degli uomini sono generalmente più lunghe e faticose.
In realtà le donne giocarono per diversi anni al meglio dei 5 set, come gli uomini, sia negli Slam che in altri tornei. Nel 1901 il consiglio della United States Lawn Tennis Association, l’organizzazione che governa il tennis americano, tutto composto da maschi, decise senza consultare le tenniste che da quel momento in poi avrebbero giocato al meglio dei 3 set. La ragione data fu che le donne erano meno prestanti fisicamente e si sarebbero stancate troppo.
Nel corso del Novecento, e ancora dopo il Duemila, molte tenniste si sono esposte per reintrodurre i 5 set nel tennis femminile durante gli Slam (gli unici tornei dove sono sopravvissuti anche nel tennis maschile), ma non è mai stato dato seguito alle richieste. Negli anni le donne hanno comunque giocato tornei con 5 set senza che si riscontrassero particolari problemi: in ogni caso non hanno mai deciso loro di non farlo.
L’argomento equal pay for equal play è comunque molto difficile da sostenere: se lo stipendio dei tennisti fosse deciso dalla durata delle partite, allora chi impiega meno tempo (e meno set) per vincere dovrebbe guadagnare di meno. Inoltre è un argomento che si contraddice da solo, perché vorrebbe dire che in tutti i tornei che si giocano su tre set, cioè tutti tranne gli Slam, le donne dovrebbero guadagnare quanto gli uomini (quindi dovrebbe succedere una cosa che non è auspicata da chi sostiene questa tesi). A parte qualche eccezione, infatti, i montepremi non si avvicinano nemmeno lontanamente.
Se si considerano anche gli Slam, però, il tennis è lo sport con il divario salariale di genere minore (per quanto comunque molto ampio, visto che anche con questi calcoli le donne guadagnano il 34 per cento in meno degli uomini). Qualche anno fa Billie Jean King intervenì di nuovo sulla questione, dicendo: «Non si tratta dei soldi, ma del messaggio».
In realtà per moltissime tenniste si tratta anche di soldi: oltre alle tenniste più in alto nella classifica mondiale, ce ne sono centinaia a cui nessuno sponsor paga il materiale per giocare, che non possono permettersi un allenatore a tempo pieno, o un preparatore atletico e un fisioterapista. Dallo scorso ottobre la WTA finanzia un programma per garantire supporto psicologico sportivo, usato principalmente dalle atlete che altrimenti non potrebbero pagarselo da sole.
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