L’incontro tra Draghi ed Erdoğan, spiegato
15 mesi dopo averlo definito un «dittatore», il presidente del Consiglio italiano ha dovuto trovare qualche compromesso col presidente turco
Martedì il presidente del Consiglio Mario Draghi e diversi ministri italiani sono andati in visita ufficiale ad Ankara, la capitale della Turchia, per incontrare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e alcuni membri del suo governo. L’incontro, assai importante dal punto di vista politico e diplomatico, non solo era il primo organizzato da leader dei due paesi negli ultimi dieci anni; era anche molto atteso perché più di un anno fa Draghi aveva definito Erdoğan un «dittatore», creando parecchia tensione tra i due paesi, alleati ed entrambi membri della NATO. In quell’occasione Draghi aveva detto che «con questi dittatori, chiamiamoli per quello che sono» bisogna trovare un equilibrio tra la franchezza del dissenso e la necessità di cooperazione: e in effetti è proprio ciò che è successo martedì ad Ankara.
Al termine delle riunioni è stata annunciata la firma di nove accordi per «rafforzare la cooperazione», ha detto Erdoğan nella conferenza stampa congiunta successiva all’incontro. Draghi è sembrato sulla stessa linea: nella stessa conferenza stampa ha iniziato il discorso dicendo: «Italia e Turchia sono partner, amici, alleati. Abbiamo davanti grandi sfide, a partire dalla guerra in Ucraina, e vogliamo lavorare insieme per affrontarle».
Si sono trovati accordi, tra le altre cose, sul riconoscimento delle patenti di guida e sulla protezione delle informazioni del settore della difesa; su una più strutturata cooperazione tra ministeri degli Esteri, ma anche nei campi della ricerca scientifica e della protezione civile.
Il punto su cui è sembrato che i due governi esprimessero maggiore accordo è stata l’opposizione all’invasione russa dell’Ucraina. Russia e Turchia hanno da sempre un rapporto complicato e negli ultimi anni si sono trovate ad aderire o appoggiare schieramenti opposti in diverse guerre, per esempio in Siria e in Libia. Sembra che la necessità di fare fronte comune contro la Russia di Vladimir Putin sia stata una delle ragioni più importanti della ritrovata armonia tra Italia e Turchia, anche se non l’unica.
In particolare è stato citato il ruolo da mediatrice che dovrebbe assumere la Turchia nel trovare un accordo con la Russia per la creazione di “corridoi” nel mar Nero che dovrebbero permettere alle tonnellate di grano bloccate dai russi nei porti ucraini di uscire e raggiungere le proprie destinazioni. È una questione estremamente importante, perché sbloccare le esportazioni potrebbe evitare quella che Draghi ha definito una «catastrofe umanitaria e sociale nei paesi più poveri del mondo», che dipendono moltissimo dalle esportazioni alimentari ucraine (oltre che da quelle russe). Erdoğan ha detto che su questo tema si potrebbe riuscire a trovare un accordo con la Russia nel giro di dieci giorni.
Un altro tema di cui si è parlato nelle varie riunioni è stato quello dell’immigrazione.
Rispondendo alla domanda di un giornalista sulla situazione in Italia, Draghi ha detto: «La gestione dell’immigrazione deve essere umana, equa ed efficace. Noi cerchiamo di salvare vite umane. Ma occorre anche capire che un paese che accoglie non ce la fa più», e ha aggiunto che «noi siamo il paese meno discriminante e aperto, ma anche noi abbiamo limiti e ora ci siamo arrivati». Dal primo gennaio al 5 luglio 2022 sono arrivati in Italia 29.369 migranti via mare, il dato più alto degli ultimi cinque anni, anche se incomparabile rispetto al flusso migratorio del 2016-2017 proveniente dal Nord Africa.
Draghi ha citato gli sforzi della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, e ribadito la necessità di un nuovo sistema di accoglienza europeo che alleggerisca il notevole impegno che oggi è richiesto ai paesi “di primo ingresso”, cioè quelli da cui i migranti entrano in Europa. Allo stesso tempo, però, negli ultimi anni l’Italia non si è distinta in maniera particolare per le politiche di accoglienza: ha reso quasi impossibile la vita alle navi delle ong che pattugliano il Mediterraneo e soccorrono i migranti su imbarcazioni di fortuna con l’obiettivo di raggiungere le coste italiane, e ha finanziato per diverso tempo le ambigue e controverse autorità libiche, le stesse che hanno messo in piedi i centri di detenzione e tortura per i migranti nel territorio libico.
Dato che si parlava di immigrazione, Erdoğan ha colto l’occasione per attaccare la Grecia accusando il governo greco di respingere i migranti nel mar Egeo senza permettere loro di arrivare nel paese e fare richiesta di una qualche forma di protezione internazionale, come prevede il diritto internazionale.
Le accuse di Erdoğan vanno comunque contestualizzate: i rapporti tra Turchia e Grecia sono molto peggiorati negli ultimi due anni, soprattutto (ma non solo) a causa della competizione per le risorse energetiche nel Mediterraneo orientale. C’è poi da considerare che negli ultimi anni l’approccio di Erdoğan nei confronti dei migranti è sempre stato piuttosto interessato: nel 2015 si fece dare molti miliardi di euro dall’Unione Europea per chiudere di fatto la cosiddetta “rotta balcanica” (cioè quella rotta attraverso la quale i migranti dalla Turchia risalivano i Balcani per entrare nell’Unione Europea), e in seguito ha usato più volte la propria capacità di controllare le rotte per ottenere delle contropartite politiche dall’Unione Europea o dalla NATO.
Nel suo discorso in conferenza stampa, Draghi ha fatto riferimento anche a una delle questioni forse più controverse del rapporto tra Italia e Turchia, e in generale tra Unione Europea e Turchia: quella del rispetto dei diritti umani.
Draghi ha detto: «Nella nostra conversazione, abbiamo discusso anche dell’importanza del rispetto dei diritti umani. Ho incoraggiato il presidente Erdoğan a rientrare nella Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne», da cui la Turchia si era ritirata nel marzo 2021, in mezzo a un bel po’ di proteste. La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale promosso dal Consiglio d’Europa ed entrato in vigore nel 2014 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili.
È molto difficile parlare di rispetto di diritti umani nella Turchia di Erdoğan: da molti anni, in particolare dal tentato colpo di stato del 2016, il governo turco ha avviato politiche estremamente repressive contro i dissidenti politici, ha preso il controllo dei tribunali e ha chiuso giornali e altri mezzi di comunicazione, oltre ad aver licenziato decine di migliaia di insegnanti e funzionari pubblici accusati di sovversione. Oggi la Turchia è molto più simile a una dittatura, che a una democrazia.
L’atteggiamento tutto sommato conciliatorio di Draghi verso Erdoğan, più di un anno dopo averlo definito un «dittatore» in una conferenza stampa, non deve comunque sorprendere più di tanto: soprattutto perché oggi è difficile non scendere a patti con la Turchia, un paese sempre più importante nella politica internazionale.
Lo si è visto di recente con le rassicurazioni che Svezia e Finlandia hanno dovuto dare al governo turco per convincerlo a togliere il veto che aveva imposto sul loro ingresso nella NATO. La Turchia contestava il sostegno dato soprattutto dalla Svezia ai curdi del PKK, un’organizzazione che la Turchia considera terroristica, e chiedeva alla Svezia di interrompere i rapporti con la milizia curda Unità di protezione popolare (YPG), che negli anni scorsi aveva ricevuto aiuti militari e partecipato a programmi di addestramento organizzati dalla coalizione internazionale che combatteva l’ISIS, o Stato Islamico.
Con la Turchia il governo italiano ha discusso anche di energia. Come ha sottolineato di recente il Copasir, il Comitato parlamentare che controlla il lavoro dei servizi segreti, la Turchia «in una prospettiva temporale non distante può divenire un grande hub per il gas nel bacino del Mediterraneo, accrescendo la propria influenza come alternativa al gas russo per molti Paesi europei». È una prospettiva interessante per l’Italia, in un momento in cui il governo italiano sta cercando di differenziare il più possibile i propri approvvigionamenti energetici, rendendosi sempre meno dipendente dalla Russia.