Cosa stanno facendo gli agricoltori per la siccità
Al Nord si scavano nuovi canali e pozzi, mentre si inizia a pensare a come adattarsi a una situazione che sarà sempre più frequente
Dalla scorsa settimana a Boretto, in provincia di Reggio Emilia, tre escavatori sono al lavoro per liberare dalla sabbia il canale da cui viene prelevata l’acqua del fiume Po per irrigare i campi. Le idrovore, pompe che servono per spostare grandi masse d’acqua dal Po alla rete idrica, non riuscivano a funzionare per via della siccità che ha fatto abbassare il livello del fiume, inferiore di quattro metri rispetto alla quota normale di riferimento. I lavori sono necessari perché dalla centrale di Boretto dipendono le disponibilità di acqua del consorzio di bonifica dell’Emilia Centrale, che serve un’area di 210mila ettari tra le province di Reggio Emilia, Modena e Mantova, dove lavorano migliaia di agricoltori: senza l’acqua, moltissime coltivazioni come il mais, la soia, il girasole, gli ortaggi e il foraggio per gli animali non crescono.
Gli scavi per liberare i canali dalla sabbia sono un intervento di emergenza per non perdere la poca acqua a disposizione. Gli agricoltori e i consorzi, tuttavia, non possono fare molto altro nel breve periodo: le soluzioni immediate per risolvere una carenza d’acqua eccezionale sono poche, costose e non decisive. Gli effetti della crisi climatica, sempre più evidenti e preoccupanti, imporrebbero invece un ripensamento generale del consumo di acqua in un settore che utilizza circa il 70 per cento di tutta quella proveniente da fiumi, laghi e falde sotterranee. Molti agricoltori ne sono consapevoli e da tempo sollecitano un cambiamento dei metodi di irrigazione, ma anche delle stesse coltivazioni prediligendo varietà che hanno bisogno di meno acqua. Anche per cambiare metodi, però, servono molti soldi.
Già dall’inizio della primavera gli agricoltori speravano nella pioggia, che in effetti negli ultimi giorni è arrivata in diverse regioni, ma non in quantità sufficiente a risolvere la siccità. Anche i fiumi, che in passato avevano garantito una discreta riserva d’acqua, sono a un livello più basso rispetto agli anni finora considerati peggiori. La carenza attuale è dovuta a un inverno particolarmente secco, con scarse precipitazioni nevose che avrebbero garantito una riserva di acqua per la primavera. Con l’aumento delle temperature segnalato a maggio, è stato chiaro che i mesi estivi sarebbero stati difficili per l’agricoltura.
Il report più recente dell’ANBI, l’associazione nazionale bonifiche e irrigazioni, ha rilevato un dimezzamento della portata del Po nell’ultimo mese: nel punto di osservazione di Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara, è scesa fino a 170 metri cubi al secondo. Negli ultimi vent’anni la media è stata di 1.429 metri cubi al secondo. Anche gli altri fiumi e i laghi delle regioni del Nord Italia hanno registrato un calo notevole della loro portata e la carenza di acqua inizia a essere evidente anche nelle regioni del Centro e del Sud.
Le conseguenze per l’agricoltura sono significative, anche se è molto complesso calcolare i danni per l’intero settore. Negli ultimi giorni sono state diffuse diverse stime. Secondo la CIA-agricoltori italiani, un’associazione che rappresenta gli agricoltori, i danni complessivi dovuti alla crisi idrica sono destinati a superare il miliardo di euro se non torneranno piogge più consistenti nelle prossime settimane. Si prevede una riduzione tra il 30 e il 40 per cento della produzione di frutta estiva come i meloni e i cocomeri e del 50 per cento di mais e soia.
La Coldiretti, un’altra associazione di coltivatori, ha stimato danni per 3 miliardi di euro. Alle perdite vanno aggiunti anche i rincari che interessano diversi beni indispensabili per l’agricoltura come i fertilizzanti, il cui prezzo è salito del 170 per cento dopo l’invasione russa in Ucraina, e il gasolio agricolo, che costa tre volte in più rispetto a un anno fa.
Paolo Maccazzola, presidente lombardo della Cia-agricoltori Italiani, dice che nell’immediato non c’è molto da fare. «Forse la danza della pioggia», scherza. In realtà qualcosa è stato fatto: molti agricoltori hanno dovuto scegliere quali coltivazioni irrigare e quali no, perdendo raccolti e investimenti. Altri hanno commissionato lo scavo di nuovi pozzi, un’operazione molto costosa.
Oltre a chiedere agevolazioni al governo per sopperire ai mancati guadagni e alle maggiori spese, le associazioni pensano alle prossime stagioni per non ripetere gli errori fatti negli ultimi anni. La richiesta condivisa tra tutti i rappresentanti degli agricoltori è una migliore gestione dell’acqua che viene da laghi e nei fiumi e che viene rilasciata per diversi usi tra cui l’irrigazione dei campi, ma anche la produzione di energia nelle centrali idroelettriche e termoelettriche. «Migliore gestione significa caricare i laghi di acqua già nel periodo invernale con volumi che consentano di arrivare alla fine della stagione», spiega Maccazzola. «Bisogna evitare di mandare tutta l’acqua a valle nel periodo invernale, quando all’agricoltura ne serve poca. Non aver pensato alla gestione dell’acqua già nei mesi di gennaio e febbraio è stato un grosso errore che non va più fatto. Questo squilibrio dipende dal fatto che oggi in Lombardia la maggior parte della programmazione dei rilasci si basa su indicazioni e tabelle che risalgono a molti anni fa».
Ma anche gli agricoltori hanno delle responsabilità, sia nella scelta delle coltivazioni che dei metodi per farle crescere. Per anni, grazie anche all’abbondanza di acqua, si è cercato di sfruttare terreni per ottenere prodotti più richiesti dal mercato e quindi più redditizi, ma non adatti a certi tipi di suolo. Maccazzola dice che la coltivazione di riso si è diffusa anche in zone che in teoria non sarebbero ideali perché hanno terreni sabbiosi. «E non possiamo pensare che il mais sia l’unica fonte di foraggio per l’alimentazione degli animali», continua. «Dobbiamo iniziare a differenziare con colture che hanno lo stesso ciclo produttivo, ma con fabbisogni idrici inferiori, come il sorgo, un cereale sottovalutato».
Tra gli investimenti che gli agricoltori possono fare per migliorare la gestione dell’acqua c’è anche la cosiddetta agricoltura di precisione, una tecnica di gestione delle aziende agricole che sfrutta tecnologie avanzate per acquisire dati e, analizzandoli, orientare le decisioni da prendere sulle coltivazioni, in particolare sull’irrigazione. Oggi, per esempio, grazie ai dati che mostrano quanto ha piovuto in una certa zona negli ultimi decenni si possono conoscere meglio le caratteristiche dei terreni, e a partire da queste informazioni stabilire in modo puntuale a quali coltivazioni siano più adatti.
Si può prevedere con ragionevole certezza se una stagione sarà più calda o più fredda della media e agire di conseguenza, magari anticipando o posticipando la semina. Si può sapere quanta pioggia è caduta nell’ultimo mese e, in base a quella, quanto azoto è stato perso dal terreno e quanto ne andrà reintegrato. Si possono studiare metodi di irrigazione che consentano di sfruttare tutta l’acqua a disposizione, senza sprecarla.
Il PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, prevede 880 milioni di euro per migliorare le risorse idriche e 500 milioni di euro per innovare i processi produttivi. «Tutti questi interventi, però, devono essere fatti avendo ben presente che il clima è cambiato e che le precipitazioni sono sempre di meno: dobbiamo abbandonare la politica dell’emergenza e considerare l’acqua come un bene finito», dice Paolo Carrà, presidente dell’Ente Nazionale Risi, che si occupa della tutela del settore risicolo. «La gestione dell’acqua è una responsabilità individuale degli agricoltori, ma non è possibile lasciare tutto alla volontà dei singoli. I consorzi di bonifica, le province, le regioni e il governo devono studiare un piano di sviluppo rurale per affrontare i cambiamenti».
Servirebbero anche opere di manutenzione per ridurre le perdite di acqua: in Italia quasi il 40 per cento dell’acqua immessa nella rete viene dispersa a causa delle pessime condizioni di canali e tubature. Carrà dice che le reti idriche dovrebbero avere la stessa considerazione di ponti e autostrade, invece sono spesso vecchie di decenni (in alcuni casi di oltre un secolo): non bastano le manutenzioni ordinarie, servono interventi per riqualificare completamente canali e dighe.
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Da anni inoltre in tutte le regioni del Nord Italia si discute della possibilità di costruire nuovi invasi artificiali per trattenere l’acqua piovana. Il cosiddetto “piano laghetti” studiato dall’ANBI è stato riproposto durante tutte le ultime crisi idriche senza che poi se ne facesse niente. Prevede la costruzione di 10.000 bacini entro il 2030: 6.000 aziendali e 4.000 consortili. In molte regioni, però, la costruzione degli invasi già commissionata negli anni scorsi è stata rallentata dalla burocrazia e dalla difficoltà di trovare aree idonee.
Molte regioni stanno chiedendo al governo lo stato di emergenza, un provvedimento che consente di finanziare interventi nel giro di pochi giorni, in deroga rispetto alle normali procedure. La situazione è molto grave: c’è ancora una certa attenzione per l’agricoltura, ma la priorità è assicurare l’acqua potabile nelle case. L’Emilia-Romagna ha chiesto 36,7 milioni di euro sulla base dell’elenco di proposte fatte dai consorzi di bonifica, dai comuni e dai servizi tecnici regionali. Una parte consistente della spesa, 11 milioni di euro, è destinata a misure di assistenza alla popolazione con fornitura di acqua con autobotti, scavo di pozzi, realizzazione di nuove condotte e di sistemi di pompaggio. Per l’agricoltura, invece, sono state pensate opere per 2,7 milioni di euro di cui un milione per impianti di pompaggio, elettropompe, dragaggi.