«Probabilmente il furto d’arte più grosso della storia»
Un imprenditore britannico fu per anni al centro di un grosso giro illegale di reperti trafugati dalla Cambogia, racconta Bloomberg
È da più di dieci anni che il governo cambogiano collabora con la procura federale di New York, studiosi europei e attivisti statunitensi per cercare di fare chiarezza su un’enorme rete internazionale dedita alla tratta di reperti archeologici sottratti illegalmente in Cambogia: «probabilmente il furto d’arte più grosso della storia», ha detto uno dei consulenti coinvolti nelle indagini. Come ha raccontato un approfondito articolo di Bloomberg, si sospetta che a renderlo possibile fu Douglas Latchford, un imprenditore britannico che viveva in Thailandia morto nel 2020 a 88 anni, prima di poter essere processato.
Si pensa che nella seconda metà del Ventesimo secolo da vari siti archeologici cambogiani siano stati rimossi e trafugati migliaia di oggetti d’arte, in particolare statue e manufatti risalenti al periodo di massima espansione dell’Impero Khmer, il popolo che fino al Quindicesimo secolo governò nei territori dell’attuale Cambogia e in buona parte del Vietnam e Thailandia. La cultura degli Khmer era stata profondamente influenzata dall’induismo, che ispirò sia la sua religione che la sua arte, soprattutto nella realizzazione delle statue degli dei, scolpite in pietra o fatte di bronzo.
Negli ultimi decenni le statue dei personaggi religiosi sottratte dai sontuosi templi degli Khmer, come quello del sito di Koh Ker, nel nord del paese, erano finite in grossi musei occidentali, tra cui il Metropolitan Museum of Art di New York, o erano state vendute a collezionisti privati, nella gran parte dei casi ignari della loro provenienza. Generalmente venivano prelevate dai siti in cui si trovavano da gruppi di predoni, che poi le passavano a rivenditori di opere d’arte che a loro volta li commerciavano all’estero; a volte venivano spaccate in parti più piccole per facilitarne il trasporto.
Alcune persone inserite nel mondo dell’arte conoscevano Latchford col soprannome di “Dynamite Doug”, visto che si diceva che facesse usare la dinamite per recuperare i reperti.
Stando a quanto dicono le indagini, Latchford non andò mai a saccheggiare i siti archeologici cambogiani in prima persona e non è chiaro se avesse contatti diretti con chi lo faceva. Come ha raccontato a Bloomberg Ashley Thompson, esperta di arte del Sud-est asiatico all’Università di Londra, fu però «uno dei principali responsabili del saccheggio di massa della Cambogia nella seconda metà del Ventesimo secolo»: «era una cosa davvero orribile», ma «si sapeva» che dietro c’era un uomo che viveva a Bangkok.
Latchford nacque a Mumbai da una famiglia piuttosto agiata quando l’India era ancora una colonia britannica. Si trasferì in Thailandia negli anni Cinquanta, lavorando per una società che importava cosmetici e prodotti chimici, e cominciò a interessarsi all’arte cambogiana durante una cena, ancora prima di fare il suo primo viaggio nel paese. Nel 1961 visitò per la prima volta il sito di Angkor, l’antica capitale dell’Impero degli Khmer, e negli anni successivi cominciò ad acquisire numerose opere, grazie alle ricchezze che aveva accumulato attraverso la società farmaceutica che aveva fondato e vari investimenti nel settore immobiliare.
Come ha raccontato Bloomberg, la sua residenza in centro a Bangkok era «sostanzialmente un museo di statue Khmer», in cui accoglieva di frequente altri rivenditori di opere d’arte a cui proponeva i reperti su cui era riuscito a mettere le mani.
Nella prima metà degli anni Settanta, Latchford era considerato un collezionista e rivenditore molto influente nell’ambiente. In quegli anni in Cambogia era iniziata una sanguinosa guerra civile che si concluse nel 1975 con l’instaurazione del durissimo regime degli “Khmer Rossi”, terminato quattro anni più tardi. Per gli archeologi e i collezionisti che si erano interessati all’arte degli Khmer continuò a essere particolarmente difficile avventurarsi nella giungla per esaminare i siti antichi anche dopo la fine della dittatura, a causa delle migliaia di mine disposte in ampie zone del paese; per i predoni che conoscevano il territorio fu invece una buona opportunità per guadagnare qualche soldo e riprendersi dalla lunga crisi seguita alla dittatura.
Durante le indagini della procura federale di New York contro Latchford, un uomo cambogiano che aveva partecipato al saccheggio del santuario di Koh Ker nel 1997 disse che il principale compratore delle opere trafugate era «Sia Ford», il nome con cui i predoni conoscevano abitualmente il “signor” Latchford.
Fino a pochi decenni fa c’era poco interesse attorno al modo in cui musei e collezionisti ottenevano le proprie opere d’arte antiche, soprattutto se erano state prese da paesi poveri o precedentemente colonizzati. Le cose però hanno cominciato a cambiare progressivamente dagli anni Novanta, da quando sempre più paesi hanno fatto appello alla Convenzione UNESCO del 1970 sulla circolazione dei beni culturali, che prevede sia possibile chiedere di riavere quelle opere finite all’estero di cui non si può provare la legalità dell’acquisto o trasferimento.
Secondo uno studio di Tess Davis, presidente di un’organizzazione di Washington che si occupa della lotta contro il contrabbando nell’arte, il 71 per cento delle 377 opere di derivazione Khmer che furono proposte dalla casa d’aste Sotheby’s tra il 1988 e il 2010 non aveva indicata alcuna provenienza; per la maggior parte delle altre spesso erano state fornite informazioni frammentarie.
Le principali accuse nei confronti di Latchford da parte della procura di New York sono state infatti quelle di frode e associazione a delinquere, per aver falsificato i documenti relativi alla provenienza delle opere che aveva aiutato a vendere. In base ad alcune email viste da Bloomberg, Latchford aveva venduto opere trafugate fino al 2018, due anni prima della sua morte, in certi casi facendosi pagare decine di milioni di dollari.
– Leggi anche: Il Belgio restituirà al Congo un dente di Patrice Lumumba
Furono due archeologi a segnalare Latchford rispettivamente all’UNESCO e al dipartimento di Sicurezza Nazionale americano, nel 2007 e nel 2011.
Sia il britannico Simon Warrack che il francese Eric Bourdonneau avevano svolto alcuni lavori di ricerca a Koh Ker e si erano accorti che i piedi di una coppia di statue che erano state rimosse dal sito, ancora visibili nel tempio, erano quelli di un’opera che era esposta al Norton Simon Museum di Pasadena e di un’altra che era stata messa all’asta a Sotheby’s a New York.
Nel 2012 la procura federale di New York avviò un’indagine, sostenendo che la statua fosse stata trafugata nei primi anni Settanta (cioè dopo la stipula della Convenzione dell’UNESCO) e che, come l’altra, fosse stata «ottenuta da un collezionista molto conosciuto di opere degli Khmer» che aveva poi «cercato di rivenderla sul mercato internazionale». A chiunque si intendesse dell’arte di quel periodo era chiaro che quella persona fosse Latchford.
Secondo alcuni, Latchford sarebbe stato accusato ingiustamente di attività che lui credeva fossero eticamente accettabili. Secondo Davis il suo ruolo è stato comunque fondamentale per permettere di far arrivare le opere d’arte trafugate dai predoni a musei e collezionisti.
Nel maggio del 2013, durante le indagini della procura di New York, il Metropolitan Museum accettò di restituire una coppia di statue che secondo le ricerche delle autorità cambogiane erano state sottratte illecitamente dal tempio di Koh Ker; negli anni seguenti altri musei e collezionisti fecero lo stesso. Latchford fu incriminato solo nel novembre del 2019; furono indagate anche Emma C. Bunker, una delle sue collaboratrici più strette, e Nancy Wiener, una nota rivenditrice di Manhattan che era stata arrestata nel 2016 con l’accusa di aver comprato e venduto opere rubate.
Dopo l’arresto di Wiener, sapendo che la sua reputazione era a rischio, Latchford propose al ministero della Cultura cambogiano di restituire alcune delle opere della sua collezione privata, chiedendo in cambio di non essere incriminato negli Stati Uniti. Le trattative però non andarono da nessuna parte, e lui morì pochi mesi dopo essere stato accusato formalmente, troppo malato per presentarsi al processo.
Dopo la sua morte, la figlia Julia trovò un accordo extragiudiziale con il governo cambogiano per restituire i reperti di proprietà della famiglia. Bunker morì nel febbraio del 2021; a novembre Wiener si dichiarò colpevole delle accuse a suo carico, pagando la somma forfettaria di 1,2 milioni di dollari in multe e risarcimenti.
– Leggi anche: I grandi quadri che non abbiamo più trovato