Il movimento contro i prati

Diversi studiosi e attivisti segnalano da tempo il loro impatto ambientale, suggerendo di anteporre le scelte sostenibili a quelle estetiche

anti-pratisti
Una scena del film del 1990 “Edward mani di forbice”
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Negli ultimi anni, insieme alla pubblicazione sempre più frequente di articoli e riflessioni sull’emergenza climatica, lo straordinario aumento di informazioni, ricerche e analisi disponibili sugli effetti delle attività umane sull’ambiente ha accresciuto sensibilità, attenzioni e consapevolezze di molte persone riguardo all’impatto delle proprie abitudini e dei propri comportamenti individuali. Un dibattito presente in particolare sui media anglosassoni e sviluppato anche in ambito accademico interessa da qualche tempo le ragioni storiche e culturali dei prati erbosi presenti all’esterno delle abitazioni e nelle aree urbane, da molti considerati oggi una forma anacronistica e poco sostenibile di utilizzo di spazi che potrebbero – e secondo alcuni dovrebbero – essere abitati, coltivati o curati diversamente.

Un insieme molto eterogeneo di critiche alla radicata cultura dei prati è alla base di un crescente movimento “anti-pratista”, che mette insieme ricercatori, studiosi e attivisti che da diversi anni segnalano l’esistenza di un notevole squilibrio tra i benefici ambientali dei prati erbosi e le conseguenze negative della manutenzione, dell’irrigazione e delle altre pratiche abituali necessarie per mantenerli sempre verdi e curati, e adattarli al contesto urbano e al gusto estetico prevalente.

La principale considerazione condivisa da questi gruppi è che la straordinaria diffusione dei prati in zone del mondo anche molto distanti e diverse tra loro – favorita da ragioni culturali più che da fattori naturali – contribuisca a ridurre la biodiversità. A questo popolare e apprezzato utilizzo delle aree verdi nelle zone urbane e nei centri abitati è inoltre associata una riduzione della vegetazione disponibile per gli insetti impollinatori, la cui presenza è invece considerata un bene sia per le specie vegetali che per altre specie animali. La frequente falciatura dei prati, che interrompe la crescita dell’erba, impedisce infine che la quantità di benefici derivanti dal naturale assorbimento di anidride carbonica da parte delle piante si mantenga superiore alla quantità di danni ambientali causati dalle attività umane connesse alla cura dei prati.

Nelle aree residenziali di alcuni stati americani il dibattito sui prati è ancora più presente e vivace, collegato a una riflessione parallela sulle azioni politiche da intraprendere per contrastare la siccità. Da alcuni anni, per esempio, il Dipartimento delle risorse idriche della California offre una serie di sconti – del valore di circa 20 dollari al metro quadrato – ai residenti che decidono di rimuovere i prati erbosi all’esterno delle proprietà residenziali e di sostituirli con differenti tipi di cortile o di coltivazioni.

California prato

Irrigatori in azione sul prato tra due abitazioni a Hesperia, California, il 28 luglio 2005 (David McNew/Getty Images)

Allo stesso tempo, in altre aree, i tentativi di rimuovere e sostituire i prati erbosi oppure di lasciarli crescere per ridurre l’impatto ambientale legato alle frequenti manutenzioni sono stati ostacolati da direttive comunali che in alcuni casi, per ragioni di omogeneità del paesaggio urbano, limitano le scelte nelle aree residenziali imponendo a tutti i residenti un’altezza massima del prato, per esempio.

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Secondo uno studio del 2015 dell’Università svedese di scienze agrarie a Uppsala, che descrive il prato come «uno dei simboli più potenti dei paesaggi urbani moderni» in diverse parti del mondo, i prati rappresentano tra il 70 e il 75 per cento degli spazi verdi all’aperto nelle città. E anche in paesi del mondo privi di una lunga tradizione di prati negli ecosistemi urbani, come la Cina, la coltivazione di prati erbosi negli spazi all’aperto è descritta come un fenomeno ecologico e sociale in rapida espansione.

In Svezia, il 52 per cento delle aree verdi urbane è occupato da prati. Negli Stati Uniti, è coperto da prati il 23 per cento di tutta l’area urbana: quasi il 2 per cento di tutta la superficie terrestre del paese, un dato che fa dell’erba dei prati la più estesa coltura irrigua non alimentare in America. I proprietari di case americani utilizzano complessivamente 62 mila tonnellate di pesticidi all’anno per curare i prati e 1,5 milioni di metri cubi d’acqua al giorno, in estate, per annaffiarli.

Supponendo, come fa uno studio del 2018 pubblicato sulla rivista Science, che sulla base dei dati di Svezia e Stati Uniti i prati occupino il 23 per cento delle città in tutto il mondo, i prati potrebbero arrivare a occupare 0,80 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre: un’area più grande di Inghilterra e Spagna messe insieme.

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Un irrigatore all’esterno di un’abitazione a Walnut Creek, in California, il 7 aprile 2015 (Justin Sullivan/Getty Images)

In generale, come vale per altri contesti in cui scelte più sostenibili faticano a diventare prevalenti, l’impressione condivisa da molti analisti è che le abitudini della popolazione in fatto di utilizzo degli spazi all’esterno delle abitazioni siano molto radicate e difficili da cambiare. Queste abitudini – sostenute da un’industria dei prati che esercita una pressione a mantenere lo status quo – sembrano inoltre coesistere con una certa consapevolezza diffusa tra gli amanti dei prati riguardo alla dannosità dei propri comportamenti per l’ambiente.

Secondo uno studio del 2001 di Paul Robbins, direttore dell’istituto di ricerca Nelson Institute for Environmental Studies alla University of Wisconsin-Madison e autore del libro Lawn People, le persone che utilizzano pesticidi per curare i propri prati sono tendenzialmente le più istruite e quelle con il reddito più alto, e sono più propense dei non utilizzatori di pesticidi a riconoscere il danno ambientale delle proprie azioni.

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«I prati sono un riflesso del fatto che siamo abituati a mantenere le apparenze, a essere coesi con la comunità», ha detto Robbins a BBC, citando anche altre dimensioni della questione. Secondo lui, i prati sono in molti casi un simbolo di ordine e un esempio di condivisione di comportamenti che contribuiscono a mantenere alto il valore delle singole proprietà in determinate aree.

Per lungo tempo i prati furono associati a una condizione di agiatezza, considerato il lavoro e la manodopera necessari a mantenerli sempre verdi e ben curati prima dell’invenzione del tosaerba, nel XVIII secolo. Come sostenuto da Kristoffer Whitney, docente di scienza, tecnologia e società al Rochester Institute of Technology, a New York, l’estetica culturale del prato sempre in ordine favorita dall’invenzione del tosaerba e diffusa oggi in molte parti del mondo è il risultato dell’affermazione ed esportazione di un ideale bucolico della nobiltà britannica del XVII secolo.

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Un complesso di case a Celebration, in Florida, il 9 aprile 2002 (Preston C. Mack/Getty Images)

La progressiva espansione suburbana delle città creò condizioni adatte a permettere anche al ceto medio di possedere un prato, sempre più spesso associato nell’immaginario collettivo al comfort e al benessere, anche per effetto della pubblicità, della letteratura e del cinema. Dopo la Seconda guerra mondiale, la domanda crescente di prati indusse il governo americano a rimettere in funzione le fabbriche di ammoniaca, a lungo utilizzate per la produzione di esplosivi ma che potevano a quel punto essere utilizzate per la produzione di fertilizzanti in grado di aumentare il contenuto di azoto nel suolo.

Fertilizzanti e pesticidi che vengono trasportati dal deflusso dell’acqua piovana in corsi d’acqua, fiumi, laghi e oceani, attraversi i sistemi fognari, sono soltanto uno dei problemi principali dei prati erbosi. Un altro sono le emissioni di gas serra e le altre forme di inquinamento legate alle attività di falciatura. E un altro ancora è che i prati non forniscono una vegetazione adatta agli insetti impollinatori né offrono spazio utile per altre specie animali o vegetali che contribuirebbero a rendere gli ecosistemi più vari ed equilibrati.

Una parte degli spazi occupati dai prati ornamentali, osservano ecologisti e altri studiosi, potrebbe per esempio essere destinata alle coltivazioni alimentari, ottimizzando l’utilizzo complessivo delle risorse. Oppure potrebbe essere destinata alla crescita di alberi o di una flora tipica delle praterie, che oltre alle graminacee – la specie più utilizzata per i prati erbosi – includa piante leguminose e composite (o asteracee), che crescono facilmente nelle zone temperate di molte parti del mondo e comprendono oltre 20 mila specie diverse.

Altre analisi si concentrano invece sugli effetti positivi dei prati legati alla capacità di traspirazione ed evaporazione dell’acqua, essenziale per mitigare il caldo nelle città e creare microclimi più freschi. Rispetto alle superfici urbane prive di vegetazione, il terreno sotto i prati è inoltre responsabile di un maggiore drenaggio e di una conseguente riduzione del deflusso superficiale dell’acqua piovana, che infiltrandosi contribuisce a mantenere umido il suolo.

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È inoltre nota e studiata da alcuni anni la capacità dei prati di assorbire anidride carbonica, sottraendola all’atmosfera, sebbene una frequente fertilizzazione del terreno sia in grado di produrre più emissioni di quanto il prato sia in grado di assorbirne. Un citato studio del 2018 di Maria Ignatieva, ricercatrice russa e docente di architettura del paesaggio ed ecologia urbana alla University of Western Australia, a Perth, descrive i vantaggi ambientali dei prati come di gran lunga inferiori al loro impatto ambientale.

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Un tratto del fiume Sprea, a Berlino, il 13 agosto 2016 (Sean Gallup/Getty Images)

Sebbene le ricerche sui prati come ecosistema siano ancora poche, Ignatieva sostiene che la coltivazione dovrebbe essere meno intensiva e che nei terreni delle aree urbane bisognerebbe preferire scelte più sostenibili, piantando e coltivando un maggior numero di specie vegetali autoctone resistenti alla siccità e piante, come la festuca, che richiedono meno manutenzione rispetto ai prati tradizionali.

In queste attività di cosiddetto rewilding – una forma di tutela dell’ambiente che tenta di ripristinare o difendere i processi naturali in aree selvatiche – rientrano anche i tentativi di coltivare specie in grado di attirare gli insetti impollinatori nelle aree attualmente occupate dai prati. «Quello che abbiamo ora è un ambiente creato artificialmente che non è mai esistito in natura», ha detto Ignatieva.

Un’altra delle soluzioni proposte è lasciare che l’erba cresca liberamente per migliorare la capacità del prato di assorbire le emissioni. Uno studio del 2018 della University of California Davis descriveva la resilienza e i benefici ambientali associati alle praterie selvagge della California come superiori a quelli delle foreste, tenendo in considerazione l’incrementata mortalità degli alberi dovuta alla siccità, alle ondate di caldo, agli incendi e ai cambiamenti climatici del XXI secolo.

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È tuttavia ritenuto molto improbabile che gli approcci favorevoli alle coltivazioni alternative a quella dei prati risultino graditi alla maggior parte della popolazione. Secondo il biochimico statunitense e appassionato di giardinaggio Robert Pavlis, autore del libro Garden Myths, le alternative proposte «proprio non funzionano in termini pratici», perché richiedono una certa esperienza di manutenzione e perché la crescita incontrollata della vegetazione ridurrebbe lo spazio a disposizione per il gioco e per il tempo libero, che è la ragione per cui molte persone hanno un prato erboso.

Inoltre, secondo Pavlis, la maggior parte delle persone non apprezzerebbe il risultato finale delle coltivazioni alternative anche per questioni di gusti, perché le persone preferiscono «fare una scelta estetica con i propri prati piuttosto che una scelta ambientale».

Sebbene sia un mercato in forte espansione, non sembra infine sostenibile nemmeno la scelta dell’erba artificiale, ha detto a BBC Janet Manning, una scienziata della Royal Horticultural Society, una delle più antiche organizzazioni britanniche che si occupano di orticultura. I prati di erba sintetica sono anzi associati a un elenco ancora più ampio di problemi, «dalle sostanze utilizzate per la produzione all’inquinamento legato alle microplastiche all’utilizzo di acqua necessaria per mantenerli puliti, fino al fatto che non sembrano adatti a durare a lungo, e nel giro di circa 15 anni le discariche ne saranno stracolme».

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