Il lavoro degli stagionali va ripensato
Le pessime condizioni di lavoro, non più tollerate come in passato, spiegano una carenza di personale estesa e ormai strutturale
di Isaia Invernizzi
Dall’inizio di maggio, come era già successo più volte negli ultimi anni, le lamentele di ristoratori e gestori di alberghi hanno suscitato l’interesse dei media che hanno dedicato molti titoli alla mancanza di lavoratori e lavoratrici stagionali, secondo molti un problema più grave rispetto al passato. Non si trovano più persone disposte a lavorare nei bar e nei ristoranti durante i mesi estivi, dicono gli imprenditori, che in molti casi individuano nel reddito di cittadinanza la principale causa di questa carenza. La tesi, sostenuta tra gli altri dal ministro del Turismo Massimo Garavaglia, è che sia più conveniente ricevere soldi dallo Stato senza fare nulla invece che impegnarsi in un lavoro stagionale.
Ma la mancanza di cuochi e cuoche, lavapiatti, camerieri, commessi e addetti alle pulizie non riguarda soltanto l’Italia: in molti altri paesi del mondo, dove non esiste il reddito di cittadinanza, gli imprenditori non riescono più a trovare personale, al punto che molte aziende hanno iniziato a proporre offerte economiche considerate irrinunciabili. Non sempre, però, la mancanza di lavoratori si può risolvere con un aumento degli stipendi. La “emergenza stagionali”, come viene definita, suggerisce piuttosto la necessità di ripensare questo tipo di lavoro che oltre a essere poco remunerativo è soprattutto faticoso e precario: il problema, più esteso e radicato di quanto si racconti in Italia, è il segnale di alcuni significativi cambiamenti che riguardano i diritti e le esigenze dei lavoratori, e in definitiva il ruolo del lavoro nella vita delle persone.
Da decenni, nella ristorazione e nelle aziende dell’ospitalità come gli alberghi, gli stagionali lavorano per lo più in condizioni che in molti altri settori sarebbero considerate intollerabili: i turni sono spesso lunghissimi, oltre le dieci ore, senza straordinari o notturni pagati, ferie o permessi, con contratti approssimativi e una parte dei soldi retribuiti in nero per pagare meno tasse e contributi previdenziali. I turni cosiddetti “spezzati”, cioè l’orario di lavoro distribuito in diversi turni nell’arco di una giornata, costringono le persone a essere disponibili per la maggior parte delle 24 ore. Una volta conclusa la stagione, poi, il lavoro finisce e così anche il contratto: in questo settore la precarietà è strutturale.
A Lipari, nelle isole Eolie, in occasione della festa del primo maggio sono stati appesi dei manifesti provocatori che spiegano con efficacia il trattamento riservato agli stagionali. Dicevano: “cercasi schiavo per la stagione estiva, 800 euro al mese, no TFR, contratto irregolare o stipendio a nero, giorno libero? Ahahahaha”.
«Lavoro dalle 12 alle 17 ore al giorno, ma il mio contratto dice che ne lavoro 3 e il resto mi viene dato fuori dalla busta paga, in nero», dice un panettiere che preferisce rimanere anonimo, e che chiameremo Luca. Luca ha una quarantina d’anni, è panettiere dal 2001, e lavora in un chiosco sul mare in provincia di Messina, sette giorni su sette, senza giorni di riposo. Vive in una stanza messa a disposizione dal suo datore di lavoro e che condivide con altri quattro stagionali. «Purtroppo moltissime altre persone sono nelle stesse condizioni: i casi virtuosi sono pochi», dice. «Non si può lavorare così tanto per così poco. Quest’anno mi sono accorto di non farcela e ho deciso che presto lascerò questo posto e questo settore. Non so bene cosa farò, per ora non mi interessa, ma non vale la pena farsi sfruttare in questo modo».
Luca preferisce non esporsi direttamente perché non vuole avere problemi quando cercherà un nuovo posto. La fama di lavoratore che denuncia le irregolarità è rischiosa. I sindacati conoscono bene queste ripercussioni: lavoratrici e lavoratori si rivolgono a loro soltanto in casi particolarmente critici, mentre la maggior parte delle controversie si risolve con le dimissioni. I casi in cui i lavoratori denunciano poi la situazione di irregolarità all’Ispettorato del Lavoro, l’ente che vigila sulle condizioni di lavoro, sono ancora più rari.
Qualcosa sta cambiando, però: in Sicilia, per esempio, le segnalazioni di irregolarità sono in aumento e gli stessi sindacati hanno iniziato ad aprire sedi più piccole per essere vicini ai lavoratori. «Gli stagionali sono lavoratori a consumo, da spremere bene durante i mesi in cui servono. Tutto questo non è una novità di questi ultimi due anni, come sanno bene gli addetti del settore e chi li tutela», spiega Giselda Campolo, segretaria generale della Cgil Filcams di Messina. «Se l’imprenditore si rendesse conto che risparmiare sui lavoratori alla lunga diventa improduttivo, probabilmente capirebbe il peso di investire nelle risorse umane».
Secondo Campolo, gli ultimi dati diffusi dall’Ispettorato nazionale del lavoro dimostrano la necessità di aumentare i controlli. Nel rapporto annuale relativo al 2020, l’ultimo disponibile, si legge che ci sono state 9.408 ispezioni nelle aziende della ristorazione e nei servizi di alloggio: da 6.937 ispezioni, il 73,4 per cento del totale, sono emerse irregolarità. «Mi sembra che questi dati diano una rappresentazione plastica della realtà, molto diversa dalla retorica aziendale», dice Campolo. «È una realtà in cui i contratti collettivi, le leggi e perfino la costituzione con la sua retribuzione proporzionata e sufficiente sono violate. Spesso inoltre si sottovaluta che in questo settore non esiste la contrattazione di secondo livello, che riguarda le politiche di welfare per rendere questo tipo di lavoro più vicino alle esigenze della vita delle persone».
Il collegamento tra l’introduzione del reddito di cittadinanza e la difficoltà di assumere stagionali non è lineare come viene spesso presentato. Finora, infatti, non ci sono dati chiari che dimostrino l’impatto del sostegno economico sulle assunzioni degli stagionali. L’importo medio assegnato con il reddito di cittadinanza è di 581 euro al mese, circa la metà rispetto a uno stipendio medio base nella ristorazione.
È plausibile che una parte anche significativa di chi riceve il reddito di cittadinanza preferisca rinunciare ad alcune centinaia di euro al mese per evitare i duri turni di lavoro del settore dell’accoglienza e della ristorazione, specialmente per quelle mansioni meno specializzate che offrono meno gratificazione. Ma le assunzioni degli stagionali sono state comunque in crescita negli ultimi anni, anche con il reddito di cittadinanza.
In questi mesi di dibattito, in molti hanno sottolineato come la questione della mancanza degli stagionali e del reddito di cittadinanza si presti facilmente a una lettura diversa da quella che fa la maggior parte degli imprenditori. Se molte persone preferiscono vivere con la metà dei soldi al mese pur di non sottoporsi alle condizioni di lavoro esistenti nel settore, a dover migliorare sono evidentemente quelle condizioni di lavoro. O in alternativa, nei casi in cui quelle condizioni non siano migliorabili oltre una certa misura per via della natura particolare del lavoro degli stagionali, la legge della domanda e dell’offerta suggerisce che dovrebbero essere proposti stipendi sensibilmente più alti per tornare ad attrarre i lavoratori.
Senza contare che, come è stato più volte raccontato dai media, molte persone percepiscono il reddito di cittadinanza e lavorano in nero, spesso proprio come stagionali, accumulando così due diverse entrate mensili. Il governo sta valutando di modificare le regole del reddito di cittadinanza consentendo alle persone che lavorano di mantenere almeno la metà del sostegno economico, una possibilità che era già stata sollecitata nei mesi scorsi dal comitato scientifico per la valutazione della misura. L’obiettivo di queste correzioni è risolvere alcune storture di uno strumento che si è dimostrato un’efficace misura di sostegno per le fasce più povere della popolazione, ma ha in larga parte fallito come strumento di attivazione del mercato del lavoro.
«Il reddito di cittadinanza c’entra poco con questa crisi» dice Giovanni Cafagna, presidente dell’associazione nazionale lavoratori stagionali (ANLS), che conta circa seimila iscritti. Il vero problema che ha portato molti a cambiare lavoro, dice Cafagna, è piuttosto la riforma della NASPI, l’indennità mensile di disoccupazione. Dal 2015 la NASPI viene concessa al massimo per la metà delle settimane lavorate negli ultimi quattro anni, e la legge prevede che non si possano considerare i «periodi contributivi che hanno già dato luogo ad erogazione delle prestazioni di disoccupazione». Significa cioè che per gli stagionali è stata dimezzata l’indennità di disoccupazione, da sei a tre mesi. Per avere un guadagno dignitoso non basta più lavorare sei mesi all’anno e per questo molte persone hanno deciso di cambiare settore in cerca di una soluzione più stabile.
Cafagna ha organizzato un sondaggio tra gli iscritti della sua associazione per rilevare alcune tendenze nel mercato del lavoro stagionale. I risultati, pur nei limiti di una consultazione non predisposta secondo criteri scientifici, sono utili per indicazioni e spunti: un quarto delle mille persone che hanno risposto ha detto di aver provato a chiedere un aumento di stipendio e la cosa interessante, sottolinea Cafagna, è che circa la metà di loro è riuscita a ottenerlo. Il 70 per cento delle persone che hanno risposto al sondaggio, inoltre, ha detto di aver ottenuto almeno un giorno di riposo.
Sia in Italia sia in altri paesi c’è una percezione abbastanza condivisa del fatto che la pandemia abbia accelerato processi che erano iniziati da tempo. L’equilibrio tra datori di lavoro e stagionali si è modificato perché in parte sono cambiate le priorità: c’è più attenzione nei confronti del tempo da dedicare al riposo e allo svago, alla necessità di conciliare in modo più sereno e soddisfacente la propria vita privata con il lavoro. Ristoratori e albergatori che non sono disponibili a organizzare il lavoro in modo diverso hanno quindi più probabilità di ricevere un rifiuto, con conseguenze per la loro attività: senza gli stagionali è molto difficile garantire i servizi ai clienti. «Il problema non è che mancano gli stagionali, è che mancano persone disponibili a fare gli schiavi per sei mesi», dice Valerio Beltrami, presidente nazionale dell’AMIRA, l’associazione maîtres italiani di ristoranti e alberghi.
Beltrami ha 54 anni e una lunga esperienza, maturata in diversi ristoranti anche all’estero. Non accusa i giovani di scarsa passione, come hanno fatto molti altri professionisti del settore prima di lui, ma sostiene invece che l’emergenza abbia diverse cause, soprattutto la scarsa lungimiranza da parte degli imprenditori: mentre in molti altri settori c’è stato un miglioramento delle condizioni di lavoro, nella ristorazione si sono visti pochi progressi.
«Non tutti i giovani hanno voglia di lavorare, è vero, però le colpe vanno cercate altrove», spiega. «Ogni giorno ricevo molte chiamate di colleghi che sono costretti a scappare da situazioni al limite. Professionisti che parlano quattro lingue e che si ritrovano con contratti precari e spesso ospitati in sottoscala umidi. Più in generale, credo che sia davvero arrivato il tempo di cambiare l’organizzazione di questo lavoro». Beltrami fa riferimento soprattutto ai giorni di riposo e ai turni, che sempre più lavoratori del settore considerano insostenibili. «La maggior parte della popolazione italiana è abituata a stare a casa il sabato e la domenica per godersi la famiglia e il riposo», dice. «Perché chi lavora nel settore turistico non deve avere almeno un sabato o una domenica liberi a rotazione? Se non cambierà qualcosa, è normale che un giovane scelga di fare un altro lavoro con orari più umani, più certezze e spesso con uno stipendio migliore».
Nei mesi scorsi l’Unione provinciale albergatori di Savona ha raccomandato ai suoi 312 iscritti di provare a cambiare il modello organizzativo proprio per prevenire la probabile mancanza di lavoratori stagionali, che era già stata un grosso limite negli anni scorsi. Anche in Liguria, come in tutte le altre regioni italiane, mancano soprattutto cuochi, aiuto cuochi e camerieri. «Bisogna dire chiaramente che il modello dei turni spezzati ha fatto il suo tempo», spiega Carlo Scrivano, il presidente dell’associazione. «Oggettivamente sono cambiate le condizioni sociali per cui una persona si approccia al lavoro. Non è soltanto una questione economica: con turni normali, da otto ore, e un giorno di riposo si lavora meglio e con più soddisfazione».
Scrivano, che considera comunque il reddito di cittadinanza come parte del problema, ammette che molti albergatori si sono approfittati della disponibilità dei dipendenti. «Dovevamo capire prima che a queste condizioni ci sarebbero stati dei problemi», dice.
La riorganizzazione dei turni e del modello di lavoro può essere un’occasione anche per sperimentare nuovi servizi per i clienti, che hanno esigenze e richieste diverse rispetto al passato. Scrivano, per esempio, nel suo albergo ha eliminato la pensione completa: non propone più la cena, ma una colazione allungata fino alle 10.30 e la possibilità di chiedere alla cucina piccoli pasti anche durante la giornata. In questo modo, oltre a eliminare il turno spezzato per i suoi dipendenti, si è assicurato nuova clientela.
«Qui ormai il 75 per cento delle prenotazioni riguardano tedeschi. Mangiano, prendono tre cappuccini e noi glieli diamo molto volentieri. Ci siamo aperti di più rispetto a prima», dice. «La flessibilità è essenziale se vogliamo rispondere all’offerta di piattaforme come Airbnb che oltre ad avere prezzi solitamente più bassi lasciano al cliente completa autonomia. Anche gli altri alberghi che hanno iniziato a ripensare il loro modello storico sembra che facciano molta meno fatica a trovare personale».