I referendum abrogativi vanno cambiati?

Negli ultimi 25 anni il quorum è stato raggiunto una sola volta, e ci si chiede se abbiano ancora senso così come sono

ANSA/ALESSANDRO DI MEO
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I referendum sulla giustizia di domenica sono stati i meno partecipati della storia repubblicana: solo il 20,8 per cento degli aventi diritto è andato a votare, molto meno della metà del quorum necessario a rendere valido l’esito (più del 50 per cento). A livello di partecipazione, il risultato deludente di domenica era stato ampiamente previsto ed è l’ultimo di una lunga serie: dal 1997 a oggi soltanto un referendum abrogativo ha raggiunto il quorum, quello del 2011 che comprendeva quesiti sul nucleare e sull’acqua pubblica, due temi molto sentiti dagli elettori e sui quali ci fu un’intensa discussione pubblica.

L’affluenza in generale è in calo sia in Italia che nelle altre democrazie europee, ma questo non basta a spiegare i numeri così bassi della partecipazione ai referendum. Nei giorni successivi al voto è nata una discussione sull’istituto referendario stesso e sulla sua forma attuale, e su come possa aver contribuito in questi anni alla scarsa affluenza. Commentatori ed esponenti politici si sono chiesti se non sia il caso di intervenire e modificare alcune parti della legge costituzionale che regola in particolare i referendum abrogativi, per aumentarne l’efficacia come strumento di democrazia diretta.

Il referendum è un istituto attraverso cui gli elettori e le elettrici possono esprimersi su una materia che è stata o che potrebbe essere oggetto di decisioni politiche. Esiste più o meno da quando esistono i regimi liberali, ma declinato in forme molto diverse tra loro, a seconda dei contesti e delle epoche. In Svizzera, per esempio, tra Ottocento e Novecento l’istituto referendario si affermò sempre di più arrivando a una frequenza media di dieci consultazioni all’anno nell’ultima parte del secolo scorso (e molte altre consultazioni avvengono anche a livello locale).

In Italia i primi referendum ci furono nelle repubbliche italiane ottocentesche: Cisalpina, Cispadana e Ligure. Poi, nel periodo dell’unificazione, ce ne furono alcuni per l’annessione al Regno d’Italia che si andava formando, mentre a inizio Novecento se ne fecero altri a livello comunale sull’istituzione di aziende municipalizzate.

Quelli per l’annessione al Regno d’Italia erano detti più comunemente plebisciti, una sorta di certificazione popolare dell’assetto di governo in vigore. Ce ne furono due anche in epoca fascista – in cui il voto non fu segreto né libero – per approvare le liste dei candidati scelti dal partito con un semplice “sì”, mentre quello del 2 giugno 1946 fu un referendum a tutti gli effetti visto che le elettrici e gli elettori furono chiamati a scegliere attivamente tra due alternative istituzionali (repubblica o monarchia), e non a pronunciarsi a posteriori su un assetto già in vigore.

La Costituzione repubblicana regola le forme dei referendum attraverso quattro articoli, relativi a quattro diversi ambiti: il 75 ammette i referendum abrogativi sulle leggi ordinarie; il 123 sulle leggi amministrative delle regioni; il 132 sulla fusione di due regioni e sulla creazione di una nuova; e il 138 sulle leggi costituzionali. Gran parte dell’esperienza referendaria italiana ha riguardato il primo di questi ambiti, ossia le leggi ordinarie. Sia il referendum di domenica che molti altri del passato erano abrogativi, e in quanto tali necessitavano del quorum della maggioranza degli aventi diritto, a differenza per esempio dei referendum costituzionali, come quello del 2016 sulla riforma promossa dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi.

I referendum in generale e in particolare quelli abrogativi furono pensati da chi scrisse la Costituzione per inserire elementi di democrazia diretta in una democrazia rappresentativa, come la nostra, basata cioè sulla rappresentanza degli elettori attraverso i parlamentari; ma secondo diversi esponenti politici e alcuni giuristi, il contesto politico e sociale è cambiato, e dunque lo strumento del referendum andrebbe adattato e reso più attuale.

«Questa tipologia di referendum non anima particolarmente gli elettori» dice Alfonso Celotto, giurista e docente di diritto costituzionale all’Università di Roma Tre. «Bisogna dare un nuovo incentivo all’istituto modificando la Costituzione». Quando fu pensato il quorum della maggioranza degli aventi diritto, l’affluenza alle elezioni superava con facilità il 90 per cento. Oggi non è più così, e secondo Celotto quella soglia è anacronistica: «Il quorum andrebbe calcolato sulla base dell’affluenza delle elezioni politiche precedenti, cioè la maggioranza di chi aveva votato in quell’occasione, in questo modo si rende più paritario il confronto elettorale».

Poi c’è anche la questione dei temi oggetto dei referendum. I due quesiti giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale sulla cannabis e sull’eutanasia, che sarebbero dovuti rientrare tra quelli di domenica scorsa, con ogni probabilità avrebbero alzato l’affluenza. Sui quesiti rimasti, quelli sulla giustizia, era invece assai complicato formarsi un’opinione ed erano giudicati troppo tecnici persino dai giuristi stessi. «Ovviamente c’è anche il problema di come scegliere i temi, però su alcuni non si possono fare referendum abrogativi, quindi si potrebbe pensare di introdurre i referendum propositivi, sarebbe un altro modo per rivitalizzarli» continua Celotto.

Riccardo Magi, presidente di +Europa, è tra i promotori del referendum per la legalizzazione della cannabis e ha fatto campagna per il “sì” ai referendum di domenica. Anche lui è convinto che l’istituto dei referendum andrebbe riformato, ma con un’altra proposta: «Sui referendum l’astensionismo ha un peso particolare, perché chi è contrario ha gioco facile a farli fallire semplicemente non andando a votare. Si potrebbe quindi incentivare l’affluenza fissando il quorum ai “sì”, e non agli aventi diritto: se il 25 per cento degli aventi diritto vota “sì” allora il referendum è considerato valido, così chi è per il “no” è costretto a fare campagna e andare a votare».

Preparazione delle schede per il voto di domenica (LaPresse)

Magi poi aggiunge un altro elemento, relativo al ruolo della Corte Costituzionale sull’inammissibilità dei quesiti. In teoria la Costituzione vieta di indire referendum sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. A questi tre ambiti si sono poi aggiunti i cosiddetti “limiti impliciti”, che non sono presenti nella Costituzione ma che si sono venuti a creare con la giurisprudenza e le decisioni della Corte nel passato. Magi sostiene però che questi limiti siano confusi e contraddittori: «Ormai abbiamo raggiunto una situazione paradossale, perché la Corte si rifà a dei precedenti che a volte si contraddicono» dice Magi. «Pensiamo al quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati, che nel 1987 fu ammesso e ora no».

Secondo Magi, diventa un problema per la democrazia quando si raccolgono oltre mezzo milione di firme che poi non portano a nessun esito per via di una decisione della Corte. A questo problema, dice, si possono trovare due soluzioni: o si delimitano in maniera più precisa i limiti oltre i quali i quesiti referendari non possono andare, o si attribuisce alla Corte un ruolo attivo nella formulazione dei quesiti, aiutando il comitato promotore a modificare il quesito per renderlo ammissibile.

Per quanto riguarda la modifica del quorum, c’è anche chi non è d’accordo con queste proposte. Nello Rossi, ex pubblico ministero ed ex giudice della Corte di Cassazione, in un’intervista a Repubblica di martedì scorso ha sottolineato il peso che hanno i temi dei quesiti, piuttosto che la forma e le regole dell’istituto referendario: «I referendum, lo dice la Carta, sono validi solo se vivificati da una genuina e ampia partecipazione popolare al voto» ha detto Rossi. «È questo il significato e il valore del quorum. E se i quesiti sono astrusi, mal posti, ingannevoli, un elettore razionale è libero di “partecipare” al referendum semplicemente non recandosi alle urne».

Secondo Rossi, abbassare il quorum vorrebbe dire «che una legge approvata dalla maggioranza dei rappresentanti del popolo potrebbe essere cancellata da una minoranza di elettori», cosa che si tradurrebbe in «un rilancio dettato da pura protervia. Teniamoci stretto l’equilibrio tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta voluto dal Costituente».

La questione della scarsa affluenza va comunque contestualizzata in un paese, l’Italia, che ha sì visto scendere la partecipazione popolare rispetto a trenta o quarant’anni fa, ma in misura minore rispetto ad altri paesi. «In termini generali la partecipazione in Italia, soprattutto alle politiche, è comunque mediamente più alta di altri paesi europei» dice Barbara Pisciotta, docente di politica internazionale e di processi di democratizzazione all’Università di Roma Tre. «Questo vuol dire che per quanto riguarda i referendum non è semplicemente un problema fisiologico».

Secondo Pisciotta, il problema è più specifico e riguarda tre aspetti delle campagne referendarie: anche lei ribadisce l’importanza degli argomenti oggetto dei referendum, perché «quando i quesiti assumono un valore eccessivamente tecnico, diventa difficile renderli comprensibili e avvicinare la questione ai cittadini». Non è un caso che in passato gli argomenti che suscitarono più interesse siano state grosse questioni sociali come il divorzio, l’aborto o l’acqua pubblica. Un altro fattore è il modo in cui vengono pubblicizzati, specialmente in televisione: se manca un’informazione adeguata è più probabile che il quorum non venga raggiunto. Infine, secondo Pisciotta anche la misura in cui vengono «politicizzati» i quesiti – cioè quanto i partiti li usano come argomento di scontro, cosa avvenuta molto spesso nelle campagne recenti – può avere un ruolo nel determinare la scarsa affluenza.

– Ascolta l’ultima puntata di Politics: Dobbiamo votare in un altro modo