Questa elefantessa dello zoo del Bronx non sarà considerata una “persona” per la legge
Se un tribunale dello stato di New York avesse deciso altrimenti, sarebbe stato un precedente importante per altri animali in cattività
Il 14 giugno la Corte di Appello dello stato di New York si è espressa sul caso di un’elefantessa che da 45 anni vive nello zoo del Bronx e che l’organizzazione animalista Nonhuman Rights Project avrebbe voluto far trasferire in un rifugio per animali selvatici. La Corte ha stabilito che, contrariamente a quanto richiesto da NhRP, l’elefantessa non possa essere considerata una “persona”, cioè un individuo con diritti morali e legali di fronte alla legge americana. Continuerà quindi a essere riconosciuta come una proprietà dello zoo del Bronx, che da parte sua manterrà il diritto di decidere sulla sorte dell’animale (e quindi di farlo vivere da solo nell’area recintata di 4mila metri quadrati dove sta ora).
Significa che l’elefantessa, conosciuta col nome di Happy, rimarrà nello zoo e non sarà trasferita in un rifugio. E significa anche l’ennesima sconfitta in tribunale per le persone che vorrebbero che fossero riconosciuti più diritti agli animali in cattività.
Le leggi degli Stati Uniti – così come quelle della maggior parte dei paesi del mondo – distinguono sostanzialmente tra due entità giuridiche, “persone” e “cose”, senza la possibilità di avere definizioni intermedie: sono persone in senso giuridico gli esseri umani, ma anche le società. Le persone hanno dei diritti, compreso quello dell’habeas corpus, che nel diritto anglosassone tutela dall’essere reclusi senza una giusta motivazione legale, mentre le cose no. Se la Corte di Appello dello Stato di New York avesse deciso diversamente sul caso di Happy, sarebbe stato un precedente rilevante per tanti altri animali che secondo le organizzazioni che ne difendono i diritti non vivono in buone condizioni. Ma solo due dei sette giudici che si sono espressi sul caso si sono detti a favore del riconoscimento dello status di “persona” per l’animale.
Happy proviene dalla Thailandia, ha 52 anni ed è una delle tre elefantesse che nel 2005 dimostrarono per la prima volta che gli elefanti sono in grado di riconoscere la propria immagine in uno specchio: solo i primati e i delfini riescono a fare altrettanto, per quanto ne sappiamo.
NhRP ha cercato di sfruttare questa capacità di Happy per convincere i giudici che dovrebbe avere gli stessi diritti delle persone e delle società, ma non è riuscita a persuaderli. «Nessuno mette in dubbio le notevoli capacità degli elefanti», ha detto la giudice Janet DiFiore, che però ha aggiunto: «Ma non accogliamo l’argomentazione della parte secondo cui avrebbe diritto di chiedere l’habeas corpus per conto di Happy». Questo strumento giuridico infatti serve per «garantire i diritti di esseri umani imprigionati illegalmente, non i diritti di animali non umani».
Secondo NhRP lo spazio in cui Happy vive è troppo piccolo per le sue necessità e il fatto di non essere a contatto con altri elefanti peggiora la sua qualità della vita. Invece secondo la Wildlife Conservation Society, che gestisce lo zoo, la cosa migliore per il benessere di Happy è che continui a restare isolata: è vero che gli elefanti in natura vivono in branco, ma Happy ha una sua personalità e una sua storia – piuttosto traumatica – a causa delle quali la situazione attuale sarebbe la migliore possibile. La WCS ha comunque già fatto sapere che quando Happy e l’altra elefantessa dello zoo (Patty) moriranno non saranno rimpiazzate da altri elefanti.
Dopo la sentenza della Corte di Appello, NhRP si è detta soddisfatta del fatto che almeno due giudici si sono espressi a favore del riconoscimento dell’habeas corpus a Happy: l’organizzazione cercherà di usare le loro posizioni in un altro caso sui diritti di un elefante, in California.
La giudice Jenny Rivera, che si era espressa in favore dello status di “persona” per Happy, ha detto: «La sua cattività è intrinsecamente ingiusta e disumana. È un affronto alla società civile e per ogni giorno in cui resta prigioniera anche noi perdiamo qualcosa».