I referendum sulla giustizia non hanno raggiunto il quorum
L'affluenza è stata molto inferiore alla maggioranza degli aventi diritto al voto, come era previsto
I cinque referendum sulla giustizia per cui si è votato domenica in Italia non hanno raggiunto il quorum e quindi sono stati bocciati, come era stato previsto nelle scorse settimane: l’affluenza è stata di circa il 21 per cento (il dato non è definitivo perché mancano ancora alcune sezioni). Per tutti e cinque i quesiti hanno vinto i Sì, ma il mancato raggiungimento del quorum ha reso il risultato inutile.
I referendum riguardavano l’ordinamento giudiziario italiano, e alcuni argomenti specifici in materia di processo penale e di contrasto alla corruzione. Erano stati promossi da Lega e Radicali ed erano referendum abrogativi, cioè chiedevano l’abrogazione totale o parziale di leggi o atti con valore di legge esistenti.
Il primo quesito chiedeva di abrogare la legge Severino nella parte in cui prevede la sanzione accessoria dell’incandidabilità e del divieto di ricoprire cariche elettive e di governo dopo una condanna definitiva; il secondo chiedeva di ridurre i casi per cui è consentito il ricorso alle misure cautelari in carcere; il terzo chiedeva la separazione delle carriere dei magistrati, con l’idea di obbligarli a scegliere all’inizio della loro carriera se percorrere la funzione giudicante o requirente; il quarto chiedeva di introdurre la possibilità che negli organi che hanno il compito di valutare l’operato dei magistrati possano votare anche i membri non togati (ovvero avvocati e alcuni professori di materie giuridiche); e il quinto di abolire la raccolta delle firme per presentare la candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura.
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Non è sorprendente che i referendum sulla giustizia non abbiano raggiunto il quorum: innanzitutto perché i partiti politici nelle ultime settimane avevano fatto una campagna per il Sì e per il No piuttosto debole, persino quelli che avevano promosso i quesiti. Ma non sorprende anche alla luce di quanto accaduto in Italia negli ultimi vent’anni, in cui l’affluenza ai referendum abrogativi e l’interesse generale della popolazione sono andati sempre più diminuendo.
A partire dal 2000, su sei volte in cui si è votato per un referendum abrogativo, una sola volta è stato raggiunto il quorum: era il 2011 e gli elettori votarono per quattro quesiti, tra cui quello contro la gestione privata dell’acqua (l’affluenza fu di poco superiore al 50 per cento). L’ultimo referendum abrogativo prima di quelli sulla giustizia fu il cosiddetto “referendum sulle trivelle” del 2016 (l’affluenza fu solo del 31,18 per cento). Per fare un confronto, al primo referendum abrogativo nella storia d’Italia, quello del 1974 sul divorzio, l’affluenza fu dell’87,7 per cento.
È andata un po’ diversamente invece con i referendum costituzionali, in cui l’affluenza è stata quasi sempre superiore al 50 per cento (tre volte su quattro), nonostante in questi casi non fosse necessario raggiungere il quorum. Intorno a questi referendum ci sono state ogni volta grosse discussioni, per via del fatto che le modifiche alla Costituzione sono da sempre fonte di dibattiti molto accesi in politica. L’ultimo è stato quello del settembre del 2020, in cui si era votato per diminuire il numero dei parlamentari.
La bassa affluenza ai referendum sulla giustizia si spiega anche col fatto che i temi su cui gli elettori italiani dovevano esprimersi erano molto tecnici e di scarso interesse per molti. Tre quesiti referendari su cinque inoltre trattavano questioni contenute nella riforma della giustizia della ministra Cartabia che deve ancora essere votata al Senato (quelli che riguardano le modalità di elezione dei membri togati del CSM, le modalità di valutazione della professionalità dei magistrati e la separazione delle funzioni).
Avrebbero quasi certamente aumentato sensibilmente l’affluenza due referendum che erano stati proposti nei mesi scorsi e su cui esiste un interesse e un coinvolgimento pubblico assai maggiore, quello sull’eutanasia attiva e quello sulla cannabis. Avevano entrambi raggiunto il numero necessario di firme, anche grazie alla novità delle firme digitali, ma erano stati giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale.