È ancora tutto fermo sull’uccisione di Shireen Abu Akleh
Un mese dopo la morte della giornalista palestinese le indagini continuano a non andare da nessuna parte
È trascorso un mese dall’assassinio di Shireen Abu Akleh, la nota giornalista palestinese-americana di Al Jazeera uccisa l’11 maggio mentre documentava un’operazione dell’esercito israeliano in un campo profughi di Jenin, nella Palestina settentrionale. Le indagini ufficiali sulla sua uccisione sono tuttavia ancora ferme, nonostante diverse inchieste giornalistiche attribuiscano le responsabilità all’esercito israeliano. A livello istituzionale, esattamente come un mese fa, palestinesi e israeliani continuano ad accusarsi a vicenda e nel frattempo, a livello internazionale, l’attenzione su quanto accaduto è progressivamente diminuita, cosa piuttosto inusuale per l’uccisione di una giornalista che, tra le altre cose, aveva cittadinanza americana.
Abu Akleh è stata colpita alla testa da un proiettile, nel corso di una grossa operazione dell’esercito israeliano in cui c’erano stati scontri a fuoco. Insieme a lei c’era un gruppo di altri giornalisti, tra cui uno palestinese, sempre di Al Jazeera: Ali al Samoudi, che era stato ferito alla schiena ma si è salvato. Sia Abu Akleh che al Samoudi erano ben riconoscibili come giornalisti, perché indossavano i gilet blu con la scritta Press, cioè “stampa”, e gli elmetti di protezione.
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Fin da subito, il ministero della Salute palestinese e Al Jazeera avevano incolpato l’esercito israeliano, accusandolo di aver deliberatamente ucciso Abu Akleh, che come altri era lì a documentare le operazioni. Abu Akleh, che aveva 51 anni, si occupava da 25 anni del conflitto israelo-palestinese: Husam Zomlot, ambasciatore dell’Autorità palestinese nel Regno Unito, l’aveva definita «la più importante giornalista palestinese».
Da parte sua, il primo ministro israeliano Naftali Bennett aveva respinto queste accuse e aveva incolpato alcuni non meglio identificati «palestinesi armati» per aver ucciso Abu Akleh, condividendo un video su Twitter che secondo lui dimostrava la fondatezza delle sue accuse. Poco dopo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem le aveva smentite, mostrando che il video condiviso da Bennett non aveva, con tutta probabilità, nulla a che fare con l’uccisione di Abu Akleh.
Le accuse reciproche sono continuate anche nel corso delle settimane successive. L’Autorità palestinese, l’entità parastatale che governa la Cisgiordania, aveva poi condotto un’indagine preliminare che aveva concluso che a uccidere Abu Akleh era stato l’esercito israeliano, il quale aveva però continuato a negare tutto. Il ministro della Difesa israeliano aveva definito i risultati dell’indagine una «sfacciata bugia» e l’esercito aveva sostenuto che fosse impossibile stabilire chi avesse ucciso la giornalista, e che in scontri di quel tipo poteva capitare che venissero colpite anche persone non direttamente coinvolte.
Varie ricostruzioni indipendenti, compresa una molto dettagliata pubblicata a fine maggio da CNN, sembrano mostrare che effettivamente a colpire Abu Akleh sia stato l’esercito israeliano. CNN era arrivata a questa conclusione dopo una lunga verifica incrociata di registrazioni video, racconti di testimoni oculari e con la consulenza specialistica di esperti e criminologi sui materiali raccolti.
Ma per stabilire definitivamente cos’è successo, e per individuare i responsabili, sarebbe necessaria l’apertura di un’indagine formale e indipendente, che tuttavia non è stata ancora avviata.
Israele si è rifiutato di indagare sull’accaduto: il 19 maggio, otto giorni dopo l’uccisione della giornalista, l’esercito israeliano aveva fatto sapere che la polizia militare, cioè il suo organismo interno che si occupa di presunti reati compiuti dal personale dell’esercito, non avrebbe aperto un’indagine al riguardo. L’Autorità palestinese, da parte sua, non ha i mezzi né la credibilità per avviare un’indagine più ampia e completa di quella che aveva pubblicato a pochi giorni dall’uccisione di Abu Akleh, in cui concludeva che la responsabilità era dell’esercito israeliano.
I palestinesi hanno fatto capire in più occasioni di non voler collaborare con le autorità israeliane, di cui non si fidano, perché temono che farebbero di tutto per nascondere le eventuali prove della colpevolezza dell’esercito nell’assassinio di Abu Akleh; in Israele, dice un editoriale del New York Times, c’è poi una grande diffidenza verso indagini condotte da soggetti esterni al governo, che incontrerebbero l’opposizione soprattutto della destra.
Una possibile soluzione allo stallo delle indagini, scrive Yasmeen Serhan sull’Atlantic, sarebbe che gli Stati Uniti – che hanno molta influenza su entrambe le parti, per varie ragioni, politiche ed economiche – prendessero in mano la situazione e avviassero un’indagine, come Blinken ha detto di voler fare. È quello che il governo americano fece nel 2002, per esempio, quando fu ucciso in Pakistan il giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl.
Finora le mosse più concrete da parte americana sono state una lettera firmata da 57 deputati Democratici in cui si chiedeva al governo e all’FBI di avviare un’indagine e la promessa, da parte del segretario di Stato americano Antony Blinken, di farlo presto, anche se finora non si è mosso niente.
Un’altra possibilità è che il caso venga preso in mano dalla Corte penale internazionale, strada che Al Jazeera ha già chiesto che venga intrapresa. Ma non c’è ancora nulla di concreto, e se anche le cose procedessero e si aprisse un’indagine formale, potrebbe servire a poco dato che né gli Stati Uniti né Israele hanno ratificato lo statuto di questo tribunale internazionale (accettandone quindi la giurisdizione).
Nel frattempo, mentre le indagini sono ferme, l’attenzione nei confronti dell’uccisione di Abu Akleh a livello internazionale sembra essere progressivamente scemata.