Il diritto alla disconnessione
Negli ultimi anni ci sono stati diversi tentativi di definirlo e tutelarlo, difficili per via della sempre minore separazione tra vita lavorativa e privata
Tra gli effetti indiretti delle restrizioni introdotte durante le fasi iniziali della pandemia, uno dei più evidenti fu l’accresciuta familiarità di molte persone con l’esperienza del lavoro da casa. Lo stravolgimento delle routine di milioni di lavoratori e lavoratrici in tutto il mondo favorì, tra le altre cose, una discussione sulle implicazioni profonde di un’adesione di massa e mai tanto estesa come allora al modello del lavoro da remoto. E accelerò un dibattito specifico già avviato prima della pandemia riguardo al cosiddetto diritto alla disconnessione.
Il diritto a disconnettersi è oggi un’espressione utilizzata per indicare un insieme di proposte di legge, discusse in molti paesi del mondo, che dovrebbero tutelare il diritto delle persone per l’appunto a “disconnettersi” dal lavoro e a non utilizzare gli strumenti digitali per ragioni professionali oltre i tempi prestabiliti. Rispondere a un messaggio o a una email di lavoro, per esempio, occupando un tempo non lavorativo della giornata o della settimana. Cosa che in genere può capitare o per timore di apparire non abbastanza solerti, o in ossequio a disposizioni o prassi informali vigenti all’interno del proprio gruppo di lavoro.
È un dibattito che precede la pandemia ed è legato alla progressiva trasformazione dei moderni ambienti di lavoro e all’introduzione di strumenti che da un lato hanno conferito maggiori libertà e flessibilità ai dipendenti, ma dall’altro hanno reso più incerto il confine tra la vita lavorativa e quella privata, e più frequenti le interferenze della prima nella seconda. Per ridurre questo rischio, legislatori, sindacati e associazioni sono da alcuni anni impegnati nel problematico tentativo di definire e introdurre un diritto alla disconnessione nel quadro più ampio delle leggi sul diritto del lavoro.
La Francia, un contesto da tempo noto per le ampie tutele contro i licenziamenti e la legislazione sul tempo pieno a 35 ore settimanali, è spesso citato anche come uno dei primi paesi ad aver ospitato tentativi di tutelare il diritto alla disconnessione. È un dibattito avviato fin dalla fine degli anni Novanta dopo che l’ingiusto licenziamento di un autista di una società di trasporti con ambulanze, che non aveva risposto alle telefonate fuori dal suo orario di lavoro, diventò un caso di giurisprudenza. Oggi, in base a una legge in vigore dall’inizio del 2017, le aziende con almeno 50 dipendenti sono obbligate a negoziare politiche specifiche riguardo alla reperibilità e all’utilizzo della posta elettronica e degli altri strumenti digitali, stabilendo gli orari in cui il personale non dovrebbe utilizzarli.
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I sostenitori della legge – tra i quali l’allora ministra del lavoro Myriam El Khomri, la cui più ampia proposta di riforma del lavoro fu peraltro molto contestata nel 2016 – affermarono che i dipendenti che controllano la posta elettronica o rispondono alle email fuori dall’orario di lavoro non siano adeguatamente pagati per gli straordinari. Soprattutto, affermarono che la legge fosse necessaria per ridurre tra i dipendenti il rischio di stress, difficoltà relazionali e burn-out, la sindrome di esaurimento psicofisico ed emotivo in ambito lavorativo che può portare a demotivazione, delusione e disinteresse cronico.
Secondo un sondaggio della società di consulenza francese sulla salute e la sicurezza sul lavoro Empreinte Humaine, i livelli di stress dei lavoratori francesi sono aumentati dopo la pandemia, e circa un terzo del personale salariato ha sviluppato sintomi da burn-out, un dato tre volte superiore rispetto a prima della pandemia.
In Italia, alcune linee guida contenute nella legge n. 81 del 2017 in riferimento al «lavoro agile» (o smart working) disciplinano, tra le altre cose, l’«esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore». E prevedono che sia stipulato un accordo scritto relativo alle modalità del lavoro agile in cui siano individuati anche «i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro». Come in tanti altri casi simili in Europa, la legge non introdusse tuttavia un esplicito diritto alla disconnessione, osservarono avvocati ed esperti, né sanzioni specifiche per i datori che ne ostacolino la tutela.
Le indicazioni furono aggiornate a dicembre scorso in base a un accordo contenuto in un protocollo (PDF) firmato dal ministero del Lavoro e dai sindacati dopo mesi di contrattazioni. Le regole contenute nell’accordo, destinate al settore privato, potranno servire ad aziende e lavoratori per definire l’accesso allo smart working anche in futuro e non in circostanze di emergenza come la pandemia. E includono il diritto alla disconnessione, cioè l’individuazione di una fascia oraria in cui «il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa».
Nel 2021, il Portogallo ha introdotto una legge che vieta alle aziende di contattare i propri dipendenti fuori dall’orario di lavoro. E il Belgio ha recentemente esteso il diritto alla disconnessione anche ai suoi dipendenti pubblici. Diritto che è da tempo contemplato anche in diverse linee guida e direttive elaborate dall’Unione Europea, seppure in assenza di un quadro giuridico ben definito.
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Le difficoltà legate alla regolamentazione del lavoro riguardo al diritto alla disconnessione sono in genere maggiori in quei contesti in cui, diversamente dal caso dell’autista dell’ambulanza francese, si è progressivamente ridotta in anni recenti la separazione fisica tra la sfera lavorativa e quella non lavorativa. E in cui spesso mancano regole sufficientemente rigide su come i datori di lavoro dovrebbero attuare certe linee guida, tanto più nelle aziende in cui il lavoro fuori orario è una pratica abituale e quelle prive di una forte rappresentanza sindacale, o nei settori sottoposti ad alti livelli di stress come la finanza, ha scritto il Financial Times.
In Francia, in base alla legge sul diritto alla disconnessione in vigore dal 2017, un dipendente non può essere ritenuto responsabile per non essersi collegato fuori orario. E diversi lavoratori hanno anche intentato cause legali affinché il proprio lavoro fuori orario venisse riconosciuto o attraverso una retribuzione aggiuntiva o attraverso la concessione di un periodo di ferie extra. Secondo la legge, le aziende non possono rifiutarsi di applicare le linee guida sul diritto alla disconnessione se richiesto dal personale e dai sindacati. I molti accordi stipulati dal 2017 prevedono tuttavia una certa flessibilità nella richiesta da parte delle aziende ai lavoratori e alle lavoratrici di rimanere collegati nel caso di progetti specifici o questioni urgenti. E tendenzialmente lasciano ai dipendenti l’onere di ricordarsi di disconnettersi.
In generale, c’è inoltre scarsa attenzione al problema dello stigma attribuito alle persone che invocano il proprio diritto a disconnettersi e al problema delle ripercussioni negative sulla carriera professionale. Questione che di fatto riduce l’inclinazione dei lavoratori a disconnettersi, portandoli spesso a lavorare più del dovuto anche in assenza di una richiesta esplicita da parte dell’azienda. Consapevoli di questa situazione, alcune aziende hanno cercato di sviluppare soluzioni più o meno creative per indurre i dipendenti a rispettare i tempi di disconnessione, soprattutto riguardo alla gestione delle email.
Per esempio il gruppo tedesco Daimler, proprietario dei marchi automobilistici Mercedes-Benz e Smart, ha introdotto fin dal 2014 la possibilità di attivare un servizio interno di cancellazione automatica delle email ricevute dai dipendenti durante il periodo di ferie. In questo caso, ai mittenti viene inviato in automatico un avviso e fornito un indirizzo a cui inoltrare l’email non ricevuta dal dipendente in ferie.
Secondo Bruno Mettling, ex capo delle risorse umane del gruppo di telecomunicazioni francese Orange, che ha collaborato alla definizione di alcuni termini della legge entrata in vigore del 2017, determinando uno straordinario aumento del numero di persone che lavorano da casa in modo più flessibile, la pandemia ha mostrato una serie di limiti della legislazione nel risolvere i problemi legati alle interferenze del lavoro nel tempo personale. Oltre a un diritto alla disconnessione, ha detto Mettling, le aziende dovrebbero impegnarsi a promuovere un «dovere» di disconnettersi, attraverso campagne di formazione e sensibilizzazione che aiutino i dipendenti a imparare a stabilire dei limiti.
«Quando sei tentato di inviare un’email perché trovi finalmente cinque minuti durante il fine settimana per rispondere a qualcosa che hai ricevuto venerdì, è in quel momento che hai bisogno di un campanello di allarme che risuoni nella tua testa dicendoti: “Darai soltanto fastidio alla tua collega, puoi aspettare”», ha detto Mettling.
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Sebbene la comunicazione digitale e la proliferazione dei dispositivi mobili aumentino effettivamente le possibilità di prolungare le giornate lavorative, questi fattori non bastano a spiegare il problema dell’eccesso di lavoro tra chi svolge lavori intellettuali (i cosiddetti knowledge worker), secondo Ope Akanbi, esperta di regolamentazione del lavoro digitale e docente di comunicazione professionale all’Università Ryerson a Toronto, in Canada.
Il punto, ha scritto Akanbi sul sito The Conversation, è che gli strumenti necessari per svolgere lavori intellettuali non sono limitati a uno spazio di lavoro, a differenza del lavoro fisico di un operaio, per esempio. E in assenza di questi vincoli fisici ridefinire i ritmi e la durata del lavoro rimane un esercizio in gran parte culturale, cioè legato alle abitudini e alle pratiche diffuse sul proprio luogo di lavoro, che variano da caso a caso. Secondo alcuni commentatori, a fronte dell’incapacità delle strutture istituzionali di proteggere il tempo personale, a quei lavoratori non resterebbe altro modo di prevenire il sovraffaticamento e gli effetti negativi dell’eccesso di lavoro se non gestendo in autonomia i propri orari di lavoro.
Ma chiedere alle persone di gestire in autonomia i propri orari di lavoro presuppone che ne abbiano il controllo. Condizione che può variare moltissimo a seconda del tipo di lavoro svolto, dell’anzianità e delle politiche aziendali, tra le altre cose. A un’estremità dello spettro, afferma Akanbi, ci sono le persone che lavorano nelle catene di assemblaggio, i cui orari e ritmi di lavoro sono scanditi da quelli delle macchine. All’estremità opposta ci sono i lavori intellettuali, sui cui tempi le persone hanno maggiore controllo. «Apertamente o di nascosto, fanno acquisti online, usano i social media, giocano e controllano i propri figli, tutto durante l’orario di lavoro», ha scritto Akanbi.
E questo succede perché, per le persone che fanno lavori intellettuali, «il lavoro e il tempo personale sono intrecciati in modi che la legislazione sulla giornata lavorativa di otto ore non prevedeva». Di conseguenza, eventuali leggi sul diritto alla disconnessione pensate in termini di rigida limitazione degli orari di lavoro, oltre che difficilmente applicabili, potrebbero anche essere poco adatte alle suddivisioni autonome del tempo di lavoro e del tempo personale praticate da chi svolge lavori intellettuali.
Esiste inoltre il rischio di sottovalutare questioni che riguardano altri aspetti legati al contesto sociale e culturale, e che non possono essere affrontati soltanto attraverso una legge sul diritto alla disconnessione. Per esempio, ricorda Akanbi, sebbene le giornate lavorative di otto ore siano in origine state pensate per aiutare le persone a godersi il tempo libero, quel tipo di organizzazione è per molte donne soltanto «un cambio di marcia verso un diverso tipo di lavoro dal quale non esiste diritto a disconnettersi».
Che non significa sminuire l’importanza del dibattito intorno alle leggi sul diritto alla disconnessione, aggiunge Akanbi, bensì segnalare l’importanza di affrontare anche importanti questioni generali sull’organizzazione del lavoro moderno, «sulle nostre aspettative collettive riguardo al tipo di lavoro che apprezziamo come società e sul tempo che quel lavoro dovrebbe assorbire». Tradurre un diritto alla disconnessione nei termini di un’autorizzazione a rifiutarsi di rispondere alle email dopo le 17, secondo Akanbi, sarebbe utile a contrastare una certa cultura del lavoro frenetico ma non sarebbe sufficiente a favorire un cambiamento culturale delle politiche aziendali necessario e molto più ampio, che tenga in conto anche le specifiche preferenze dei dipendenti.
Per evitare i problemi connessi all’eccesso di lavoro e al rischio di burn-out, conclude Akanbi, le aziende dovrebbero piuttosto concentrarsi sulla flessibilità e offrire ai dipendenti maggiore autonomia riguardo alla loro disponibilità. Cosa che richiederebbe ai datori di lavoro di avere in generale più fiducia nei propri lavoratori e nelle proprie lavoratrici, non soltanto riguardo al risultato del lavoro ma anche rispetto alle capacità di controllo autonomo sui confini tra l’attività lavorativa e quella non lavorativa.