Cosa rimane del processo tra Johnny Depp e Amber Heard
Per vari commentatori la vittoria di Depp è un messaggio pericoloso per le vittime di abusi e un passo indietro per i movimenti femministi
Mercoledì si è concluso il processo per diffamazione tra l’attore Johnny Depp e la sua ex moglie, l’attrice Amber Heard: andava avanti da sei settimane ed era stato trasmesso per intero su canali YouTube ed emittenti televisive, suscitando grande attenzione mediatica e un’enorme mobilitazione online a favore di Depp. Per aver fatto un’allusione alle violenze subite da Depp in un articolo sul Washington Post, Heard è stata condannata a risarcire l’ex marito con 10 milioni di dollari e ha subìto un grosso accanimento mediatico online.
Molti articoli usciti dopo la sentenza hanno commentato la vittoria di Depp come una vittoria del sistema – di cui si era parlato molto nel 2018, con il movimento MeToo – che protegge gli uomini violenti e zittisce e sminuisce le donne che li denunciano. Si teme che, per il grande impatto che ha avuto sull’opinione pubblica e per come è stato raccontato, l’esito di questo processo potrebbe contribuire a spingere molte donne meno famose a decidere non solo di non denunciare gli abusi che subiscono, ma di non farne proprio parola per timore di essere accusate di diffamazione e di perdere.
Nel 2016, dopo neanche due anni di matrimonio, Amber Heard aveva chiesto il divorzio da Depp, lo aveva denunciato per violenze e aveva chiesto nei suoi confronti un’ordinanza restrittiva. Successivamente aveva ritirato le accuse e i due avevano firmato un accordo di divorzio. Già allora però l’episodio aveva attirato moltissima attenzione mediatica, creando tra gli interessati una fazione che credeva a Heard e una che sosteneva che avesse architettato tutto per avere soldi e visibilità. Nel 2018 i due erano tornati in tribunale perché Depp aveva denunciato il tabloid Sun, per averlo definito «picchiatore di mogli» ma aveva perso. In quell’occasione il giudice disse che c’erano tutti gli elementi per affermare che Depp avesse picchiato la ex moglie.
Questo terzo e ultimo processo (anche se Heard ha già detto che farà ricorso in appello), che si è svolto a Fairfax, in Virginia, è stato voluto a sua volta da Depp, che nel 2019 aveva fatto causa a Heard per 50 milioni di dollari, accusandola di averlo diffamato all’interno di un suo articolo d’opinione uscito sul Washington Post nel 2018. Nell’articolo Heard si definiva «un personaggio pubblico simbolo di violenza domestica», affermando implicitamente di aver subìto violenze da parte di Depp anche se il suo nome non veniva mai citato; raccontava che dopo il divorzio e la denuncia aveva assistito in prima persona al modo in cui le istituzioni e la società proteggono gli uomini accusati di abusi e alla collera che si scatena contro le donne che parlano.
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Durante il dibattimento delle ultime settimane sono emersi vari episodi di violenze più o meno gravi da entrambe le parti. La sentenza però ha dato ragione a Depp, sostenendo che quei riferimenti nell’articolo fossero effettivamente diffamatori. Il tribunale ha anche, in parte, dato ragione a Heard, che aveva accusato l’avvocato di Depp di diffamazione per aver detto in più occasioni che le sue accuse di abusi erano una montatura: su tre cause intentate, Heard ne ha vinta solo una, per un risarcimento di 2 milioni di dollari.
Su The Cut la giornalista Andrea González-Ramírez ha fatto notare che quello che Heard raccontava nell’articolo sul Washington Post del 2018 è esattamente quello che è successo durante il processo. Anche Jessica Winter, sul New Yorker, ha scritto che «il processo, in breve, ha trasformato l’articolo di opinione [scritto da Heard] in un serpente che si morde la coda: quella che sarebbe dovuta essere una testimonianza da MeToo sulle donne che vengono punite per aver parlato delle loro esperienze è diventato uno strumento di punizione post-MeToo per le donne che parlano delle loro esperienze».
In un articolo sul New York Times si dice che molti avvocati considerano la vittoria di Depp un precedente importante per altre persone accusate di abusi che potrebbero ora decidere di intentare una causa di diffamazione e vincerla. Andrew Miltenberg, un avvocato che si occupa di difendere persone accusate di molestie e aggressioni a sfondo sessuale, ha detto di aver ricevuto una dozzina di mail subito dopo l’uscita della sentenza da clienti che gli chiedevano se ne avrebbero potuto beneficiare. Charles Tobin, un avvocato esperto del Primo emendamento (quello che afferma tra le altre cose la libertà di parola), ha commentato: «Alcune persone guarderanno certamente a quello che è accaduto come a un manuale su come fare causa a chi ti accusa».
Alcune associazioni che si occupano di violenza domestica sostengono che questo potrebbe avere un effetto paralizzante sulle vittime, che potrebbero temere di essere condannate a pagare grossi risarcimenti per aver parlato delle violenze subite. Come ha scritto Constance Grady su Vox, «questa sentenza sembra voler dire che chiunque pronunci la frase “Sono stata abusata” può essere citata in giudizio come bugiarda».
Gli articoli di commento sono critici in ugual modo riguardo agli effetti della mobilitazione online contro Heard e a quelli della decisione della giuria. Sul New Yorker Jessica Winter spiega che in Virginia non accade spesso che i processi vengano ripresi in diretta e che è «decisamente scioccante» che un processo come questo, incentrato su accuse di violenze domestiche, sia stato trasmesso in televisione. Questa decisione della giudice ha trasformato il processo in uno spettacolo di dominio pubblico e chiunque online si è sentito di poter esprimere un’opinione, attingendo dall’infinita disponibilità di immagini, video e meme.
A questo si aggiunge la decisione del tribunale di non sequestrare la giuria, cioè di non tenerla isolata dal mondo esterno per la durata del processo per evitare che venga condizionata nella sua decisione. Il giudice ha dato alla giuria istruzioni di non usare i social network e di evitare fonti di informazione che parlassero del caso ma, considerata la pervasività dell’argomento, è molto probabile che questo non sia avvenuto e che la giuria sia stata in parte condizionata dal movimento a favore di Depp, che ha dettato gran parte della narrazione del caso online.
In particolare, l’algoritmo di TikTok, che propone continuamente agli utenti contenuti che potrebbero piacere sulla base di quelli più visti dagli altri, ha reso difficile evitare molti dei meme e dei video del processo. Come ha scritto Amanda Hess sul New York Times: «Io non ho seguito il processo di diffamazione tra Johnny Depp e Amber Heard, è stato lui a seguire me».
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Una degli avvocati di Heard, Elaine Charlson Bredehoft, ha detto di aver provato, prima del processo, a chiedere di lasciare le telecamere fuori dall’aula, soprattutto per evitare che i racconti delle violenze subite che avrebbe fatto Heard finissero in mano ai gruppi di odiatori online (che esistevano già prima), venissero diffusi e decontestualizzati. In quell’occasione disse anche che una giuria non sequestrata era un grosso rischio per un caso come questo. Le sue richieste però non furono sufficienti a convincere il tribunale.
A questo si aggiunge una complicazione: tra i commenti di odio che si trovano online ce n’è una parte che proviene espressamente da odiatori con un’ideologia misogina, ma ce ne sono anche molti che sembrano volersi convincere che quello che stanno facendo non è contrario al MeToo, ma è un’estensione degli stessi concetti applicata a tutte le vittime. In questo caso la vittima sarebbe Johnny Depp e per questo è perfettamente coerente e giusto per loro che Heard vada sminuita, derisa, insultata.
Come fa notare Grady su Vox, questo ragionamento non tiene conto di una serie di elementi come il fatto che Depp è sempre stato più potente, più ricco, più famoso e più apprezzato di Heard, ma funziona molto bene online. «È un’appropriazione cinica della retorica del MeToo, applicata ora alla sua fine», ha scritto: «Il tanto atteso e tanto temuto contraccolpo al movimento MeToo è arrivato».
Uno degli articoli più duri sulla vicenda l’ha scritto il giornalista A.O. Scott sul New York Times sostenendo che il motivo per cui per la gran parte degli spettatori è stato così facile vedere Depp come un essere umano vulnerabile e Heard come un mostro è che lui è un uomo. «Difendere le loro prerogative [quelle degli uomini famosi] è un modo per proteggere e affermare le nostre. Vogliamo che siano dei cattivi ragazzi, che violino le regole e la facciano franca. Il loro diritto alla gratificazione sessuale è qualcosa che il resto di noi potrebbe risentire, invidiare o disapprovare, ma raramente lo sfidiamo. Questi ragazzi sono fichi. Fanno quello che vogliono, anche alle donne. Chiunque provi a obiettare è colpevole di essere “woke”, o di tradimento di genere, o di vera cattiveria».