La “medicina dei disastri” è ancora sottovalutata
Alcuni centri di ricerca fanno esercitazioni realistiche per insegnare al personale sanitario come rispondere ad alluvioni, pandemie o incidenti su vasta scala, ma sono pochi
di Mario Macchioni
Bellinzago Novarese è un piccolo comune a venti minuti da Novara, circondato da ampie distese pianeggianti e risaie, come tutta la zona. In una di queste distese, accanto a un centro sportivo, a fine maggio l’esercito italiano ha allestito un ospedale da campo, con circa una dozzina di ambienti climatizzati e protetti, tra cui un laboratorio di analisi, uno di radiologia, una sala operatoria e un deposito di farmaci. Sono gli stessi ospedali che vengono installati in contesti assai diversi da Bellinzago, come per esempio l’Iraq (dove l’Italia partecipa a una missione militare) e fino a poco tempo fa l’Afghanistan.
L’ospedale e l’area sono serviti per ambientare una delle simulazioni di intervento sanitario più grandi in Italia. L’ha organizzata CRIMEDIM, un centro di ricerca dell’Università del Piemonte Orientale che fa formazione in un ambito ancora poco noto: la medicina dei disastri, di cui si parla da circa quarant’anni ma che di fatto non viene insegnata nelle università né negli ospedali, e che solo di recente sta cominciando a ottenere più attenzione e riconoscimento.
L’esercitazione era la parte pratica di un master in medicina dei disastri che l’università organizza assieme alla Vrije Universiteit di Bruxelles: è un corso molto rispettato, a cui ogni anno partecipa personale sanitario proveniente da tutto il mondo (su 32 iscritti quest’anno c’erano solo 4 italiani). Durante la simulazione, che è stata molto realistica, gli studenti si sono dovuti confrontare con uno scenario di disastro di cui non sapevano nulla, un incidente stradale con più mezzi, tra cui un camion che trasportava profughi.
Un’esplosione, una guerra, o un’alluvione sono forse le prime cose a cui si pensa quando si parla di disastri. Tendiamo a pensare che un disastro, che sia naturale o causato dall’uomo, sia qualcosa che porta devastazione su una scala relativamente vasta, il cui presupposto è la violenza intensa e improvvisa, ma non è necessariamente così.
Gli esperti di CRIMEDIM definiscono un disastro come un evento straordinario che provoca da una parte un aumento considerevole e repentino di pazienti da curare, e dall’altra una riduzione o un cambiamento forzato delle risorse con cui curarli. È una definizione che allarga il campo e che può essere applicata a molti più contesti: la pandemia da coronavirus è un esempio perfetto in questo senso, e infatti ha avvicinato moltissime persone a concetti etici (“scegliere” chi curare) che chi si occupa di medicina dei disastri conosce e insegna da tempo.
«C’è un gap generalizzato nella formazione in medicina dei disastri», racconta Luca Ragazzoni, coordinatore scientifico di CRIMEDIM. Ragazzoni è anestesista ma non fa più il clinico e da anni si occupa di formazione e sviluppo di progetti, dopo aver avuto varie esperienze per esempio ad Haiti, quando ci fu il terremoto, o in Sierra Leone per contribuire a organizzare la risposta all’epidemia di Ebola. «In Italia siamo gli unici come centro accademico che cerca di colmare questo gap, in Europa ce ne sono pochi e siamo tra i sette in tutto il mondo designati come centro collaborativo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità».
«Ci occupiamo di disastri naturali ma anche di quelli causati dall’uomo, come il crollo di un ponte, un incidente aereo o il terrorismo» continua Ragazzoni. «Il nostro compito è aumentare le competenze dei sistemi sanitari e la loro capacità di adattamento, formando sia il personale sanitario già esperto, sia gli specializzandi e gli studenti universitari».
Il centro interviene anche in maniera più mirata: Ragazzoni fa un esempio legato alla guerra in Ucraina, a seguito della quale in Italia è stato attivato il Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari. «La Regione Piemonte ci ha chiamati e ci ha chiesto di scrivere il piano a livello locale, e adesso lo attueremo acquistando equipaggiamenti come tende di decontaminazione e contatori Geiger-Müller, ma anche formando il personale per questo specifico rischio».
Il punto è che il personale sanitario è abituato a lavorare in tempo “di pace”, ossia ordinario, dedicandosi a un paziente per volta. Nessuno insegna loro ad adattare le competenze che hanno a una situazione straordinaria, in cui il carico di pazienti aumenta tutto insieme. «Ma non è solo questo», aggiunge Ragazzoni. «È anche l’ambiente che li circonda che può cambiare, lavorare in una tenda è una cosa molto diversa rispetto a farlo in un ospedale. E gli stessi ospedali cambiano durante un disastro, una parte può crollare, ci possono essere cali di tensione. Senza contare che bisogna istituire una catena di comando e controllo di tipo militare, a cui medici e infermieri non sono abituati».
Un altro esempio è il cosiddetto “triage di maxi emergenza”, che si dovette applicare nelle fasi più critiche della pandemia in Nord Italia. Gestire l’accettazione dei pazienti durante un disastro non è una procedura standard che si insegna nelle università, comporta una serie di scelte etiche che variano a seconda delle risorse e del tempo a disposizione. Scelte che peraltro sono umanamente pesanti da prendere, ed è per questo che si consiglia di condividerle, di parlarne in gruppo «anche per avere un parere tecnico a cui magari non avevi pensato», dice Ragazzoni.
O ancora, più banalmente, prima della pandemia molta parte del personale sanitario non aveva idea di come maneggiare i dispositivi di protezione individuale, che sono complessi da indossare e richiedono una quantità di procedure accessorie per evitare la contaminazione e le infezioni.
Dato che le competenze che il personale sanitario deve avere durante un disastro possono variare moltissimo, la preparazione passa anche attraverso una valutazione del rischio, per scegliere su cosa prepararsi e quali specifiche competenze sviluppare. Ragazzoni fa l’esempio del novarese, che non è una zona di terremoti e quindi non ha senso che gli ospedali si attrezzino per rispondere a quel disastro; è però una zona ad alta concentrazione di industrie chimiche e a rischio di alluvione, di conseguenza gli ospedali della zona devono concentrarsi su queste eventualità.
Marta Caviglia, medica anestesista e ricercatrice presso il CRIMEDIM, racconta che c’è un aspetto molto puntuale che durante un disastro una persona non esperta non si immagina di dover affrontare: imparare a usare le radio per comunicare. Sono fondamentali in molti contesti di disastri, quando c’è assenza di campo o intasamento delle linee, ma il personale ospedaliero non ha motivo di usarle in tempi di pace. Tuttavia imparare a farlo in poco tempo non è banale perciò, tra le molte altre cose, agli studenti del master si insegna anche questo.
Un altro elemento perlopiù nuovo per gli studenti – anche per i molti con tanta esperienza alle spalle – è la catena di comando e controllo che citava anche Ragazzoni. «Le persone in situazioni di stress reagiscono in modo diverso, a qualcuno può capitare di andare in tilt e immobilizzarsi» racconta Caviglia. «Soltanto in un confronto diretto con un disastro ci si rende conto di come si reagisce, bisogna imparare a capire le persone e capire se stessi per sapere quale ruolo assumere all’interno della catena. È anche a questo che servono le esercitazioni, è un modo per prepararsi psicologicamente».
Le persone iscritte al master compongono un insieme molto eterogeneo, sono tendenzialmente adulte ed esperte e accomunate dalla volontà di migliorare la loro formazione sulla questione. Ciascuna è interessata alla medicina dei disastri per motivi diversi, ma quelle con cui ha parlato il Post concordano sul fatto che si tratta di una materia assai importante che però non viene insegnata da nessuna parte e a nessun livello.
C’è per esempio Nikolaos Markou-Pappas, un aspirante chirurgo di guerra greco, che si è laureato in Italia ma non ha ancora scelto la specialistica. «Se uno vuole fare il chirurgo di guerra è costretto a prendere chirurgia generale, ma è un percorso diverso, non è la cosa che vorrei fare io» racconta. Markou-Pappas è uno dei pochi iscritti relativamente giovani, ha 30 anni. «Il percorso che sto facendo qui mi piace perché si parla anche di idee, di progetti per cambiare il modo in cui le cose vengono fatte, ma è un processo lungo».
Oppure c’è Cristina Castellano, un’anestesista rianimatrice pugliese che attualmente lavora in ospedale, ma ha avuto esperienza all’estero con Medici senza frontiere ed Emergency. «Nel mio ruolo mi sento un soldato, un ingranaggio» dice Castellano, che invece vorrebbe assumere un ruolo dirigenziale all’interno di missioni in luoghi di disastri. «Dalla mia posizione non ho idea di come si prendono le decisioni, come si decidono le risorse. Nessuno ti insegna queste cose».