Si riparla del diritto alla sessualità in carcere
Uno studio di fattibilità su una proposta arrivata dalla regione Toscana ha provocato un nuovo giro di polemiche su un tema spesso sminuito
Uno studio di fattibilità richiesto dal commissione Bilancio del Senato, riguardo alla possibilità di costruire una serie di strutture nelle carceri italiane per garantire ai detenuti uno spazio privato in cui esercitare il proprio diritto all’affettività e alla sessualità, ha provocato una serie di polemiche, specialmente su alcuni giornali di destra. A originare lo studio è stata una proposta di legge del Consiglio regionale della Toscana del 2020, a cui non sono seguite decisioni concrete né stanziamenti di fondi, per ora: ciononostante in questi giorni sono circolate ricostruzioni errate che parlano di 28 milioni di euro spesi dal governo per costruire quelle che vengono definite “casette dell’amore” o “casette del sesso”, o addirittura «casini» all’interno delle carceri.
Il diritto alla sessualità negli istituti penitenziari è una questione di cui si discute da anni, anche per via delle sollecitazioni arrivate a livello nazionale ed europeo, sotto forma di iniziative e appelli ma anche di giurisprudenza. Nonostante sia spesso sminuito e trattato come una questione frivola o poco importante, il suo riconoscimento si ispira ai principi costituzionali e ai regolamenti europei e italiani sulle carceri, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare dei detenuti.
Le polemiche di questi giorni, che hanno coinvolto anche la politica, nascono dalla presentazione di una proposta di legge del Consiglio regionale della Toscana, al quale se ne è aggiunta una del consiglio regionale del Lazio, che però è tuttora bloccata nella commissione Giustizia del Senato. La proposta verrà discussa probabilmente in autunno perché prima sono previste le discussioni delle proposte di legge sul fine vita e sull’ergastolo ostativo, sollecitate dalla Corte Costituzionale.
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In sostanza nelle scorse settimane il Dipartimento affari penitenziari ha realizzato una sorta di studio di fattibilità richiesto dalla commissione Bilancio del Senato in merito alla proposta, stimando che il preventivo di costo della realizzazione di quelle che tecnicamente sono state chiamate «unità abitative», qualora la legge dovesse essere approvata, sarebbe di 28 milioni di euro circa di cui, sempre nel caso di approvazione della legge, 3,6 milioni costituirebbero lo stanziamento iniziale. Il ministero della Giustizia stesso ha chiarito cosa sia stato fatto finora con un comunicato pubblicato anche sul giornale online del ministero, gNews, dal titolo già esplicativo: Affettività, nessuna iniziativa ministeriale.
In merito a notizie di stampa relative all’ipotesi di costruzione di spazi da dedicare alle relazioni familiari e affettive negli istituti penitenziari, si precisa che si tratta di una iniziativa di legge promossa dal Consiglio della Regione Toscana e risalente al 2020. Nello scorso mese di marzo, la V Commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al Ministero della Giustizia – tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento – una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione. I tecnici di via Arenula, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento; hanno rappresentato la necessità di differire la realizzazione nel tempo e, in ogni caso, di non intaccare i fondi già stanziati per l’edilizia penitenziaria, destinataria di plurimi interventi. Il Ministero non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare. Allo stesso tempo, già dalla lettura della proposta di legge si evince come l’accesso a tali strutture sia incompatibile con il regime del 41bis, che presuppone rigidi controlli anche durante i colloqui.
Le proposte di legge presentate dalle regioni Lazio e Toscana – una al Senato e una alla Camera – sono articolate e non riguardano solo la questione della sessualità: quella del Lazio è composta da cinque articoli che modificherebbero le norme della legge 354 del 26 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario. Tra le modifiche auspicate ci sono quelle studiate per garantire ai detenuti relazioni affettive intime e riservate, stabilendo che, come si legge all’articolo 1, «i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di 24 ore, delle persone autorizzate ai colloqui».
A questo scopo, la proposta di legge propone «la creazione di unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari, con percorsi dedicati ed esterni alle sezioni, senza controlli visivi e auditivi. In questi spazi i detenuti potranno coltivare il loro diritto all’affettività e alla sessualità come avviene già in molti altri paesi europei come Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda, Francia, Spagna, Croazia e Albania». Verrebbe data la precedenza a chi non può coltivare la relazione affettiva in ambiente esterno e potrebbero essere autorizzati incontri con frequenza ravvicinata per coloro che, a causa della distanza, non possono fruirne con cadenza regolare. Sarebbe negata invece l’autorizzazione a chi «ha tenuto una condotta tale da far temere comportamenti prevaricatori o violenti» e anche quando si ritiene «che la richiesta abbia finalità diverse da quella di coltivare la relazione affettiva».
La proposta di legge parla di unità abitative pensate «come luoghi adatti alle relazioni personali e familiari e non solo all’incontro fisico: un tempo troppo breve rischia infatti di tramutare la visita in un’esperienza umiliante e artificiale». Il ministero della Giustizia ha chiarito che in ogni caso la proposta di legge non può per forza di cose riguardare i detenuti soggetti al regime del 41 bis, come invece riportato da alcune ricostruzioni: perché in quel caso i colloqui con i parenti sono previsti solo attraverso un vetro divisorio.
La proposta non riguarda solo la sessualità. L’articolo 2 prevede che per i detenuti con figli minori di 14 anni i colloqui si svolgano in locali distinti, con spazi preferibilmente all’aperto e con possibilità di attività ludiche e ricreative. Un altro aspetto preso in considerazione dalla proposta di legge è quello dell’istituto del cosiddetto permesso di necessità che consente ai detenuti, nel caso di pericolo di vita di un familiare, di un convivente e in altri non meglio specificati «eventi di particolare gravità» di avere, con l’assenso del magistrato di sorveglianza, il permesso di visitare il congiunto.
Secondo la proposta di legge, l’applicazione di questa norma ha margini sempre più ristretti «a causa di una giurisprudenza dominante che attribuisce all’aggettivo grave il significato di circostanza oltremodo drammatica e luttuosa». La proposta di legge chiede quindi di eliminare il requisito dell’eccezionalità e di sostituire quello della gravità con quello della «particolare rilevanza».
Infine, la proposta chiede di modificare le norme che regolano le telefonate dei detenuti, aumentando la durata della singola telefonata da dieci a venti minuti con frequenza non inferiore a tre volte alla settimana senza differenziazioni tra detenuti comuni e quelli con reati ostativi. L’articolo 5 della proposta punta anche a rendere stabile l’utilizzo dei collegamenti audiovisivi, utilizzati durante il periodo di sospensione dei colloqui dovuto al coronavirus, utile soprattutto per i detenuti con familiari fuori regione o in altre nazioni.
La proposta, pur se bloccata in commissione, ha provocato già molte polemiche. Il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia, l’ha definita «un’iniziativa ideologica» dicendo che i soldi dei cittadini andrebbero spesi per aumentare il personale e le dotazioni del corpo di polizia penitenziaria, «costretto a lavorare sotto organico e, come dimostrano le ripetute aggressioni, in condizioni di grave insicurezza». Monica Cirinnà, membro della commissione Giustizia del Senato, ha risposto dicendo che garantire l’affettività delle persone detenute è «uno strumento fondamentale per tutelare la loro dignità, rafforzare i percorsi di reinserimento sociale e anche per sostenere le loro famiglie che scontano una pena nella pena: non dobbiamo dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione parla di umanità della pena stessa».
Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di polizia Coisp, ha parlato invece di «allarmante stato di smobilitazione» domandando anche se qualcuno si fosse chiesto «quanti ordini verranno impartiti in questo modo e quanti omicidi commissionati». È lo stesso argomento sostenuto dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervenuto alla trasmissione Otto e mezzo di La7. Gratteri ha parlato di «costruzione di case dell’amore dove si consentirà ai detenuti ad alta sicurezza di incontrare la moglie, la fidanzata, l’amante per 24 ore al mese». «Immaginate», ha detto Gratteri, «in quelle 24 ore quanti messaggi si possono mandare all’esterno».
Sul Foglio Adriano Sofri ha sottolineato che l’alta sicurezza a cui si riferisce Gratteri «non è il 41 bis, la cui principale ratio dichiarata è di impedire le comunicazioni fra i boss e le organizzazioni di provenienza. I detenuti in alta sicurezza, che sono infatti molti, quasi diecimila, non hanno, salvi casi specifici fissati dalle autorità competenti, i magistrati o il Dap, restrizioni alle comunicazioni tali da dover contare sul giorno mensile nella “casa dell’amore” (il casino, correggono quelli di cui sopra) per mandare messaggi all’esterno». Sofri scrive anche che «la mutilazione della sessualità contraddice ogni bella parola sulla restituzione dei detenuti alla società».
Sulla questione è intervenuto anche un altro sindacato di polizia, il Sappe, che ha definito «il sesso in carcere una proposta inutile e demagogica che offende anche chi ha subito un reato molto grave». Per il Sappe «i penitenziari devono assicurare il mandato costituzionale dell’esecuzione della pena e i nostri agenti di polizia penitenziaria non devono essere “guardoni di Stato”».
È da molti anni che il tema della sessualità in carcere crea divisioni e polemiche. Già nel 1999 Alessandro Margara, magistrato ispiratore della riforma penitenziaria conosciuta come legge Gozzini, allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, propose l’introduzione di apposite unità abitative all’interno degli istituti perché i detenuti potessero trascorrere fino a 24 ore con i propri familiari. Quella proposta però rimase inascoltata. Margara è tra l’altro figura di riferimento dell’attuale direttore del Dap, Carlo Renoldi, la cui nomina aveva suscitato opposizioni e polemiche proprio perché gli viene attribuita un’inclinazione al garantismo sgradita alla componente più giustizialista della magistratura.
Nel 2012 anche la Corte Costituzionale parlò dell’affettività in carcere come di «esigenza reale e fortemente avvertita». Nel 2018 l’associazione Antigone per le garanzie e i diritti dei detenuti presentò una proposta di legge in cui venivano previste «visite in appositi locali separati dallo sguardo esterno e dotati di bagno con doccia, cucinotto, letti e altro arredamento, dove i detenuti possano trascorrere del tempo continuato con i propri cari senza sorveglianza se non esterna».
Anche quella proposta non ebbe seguito. Da parte di molti giuristi arrivano da tempo richiami sia all’articolo 2 della Costituzione italiana, che riguarda i diritti inviolabili della persona, sia agli articoli 3 e 8 della Convenzione nazionale dei diritti dell’uomo, che vietano i trattamenti inumani e degradanti e tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare. L’articolo 24 delle Regole penitenziarie europee prevede poi che «le modalità delle visite permettano ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali».