Il più grosso processo contro le ong che soccorrono i migranti in mare
È iniziato sabato a Trapani e riassume tutte le accuse rivolte alle ong in questi anni, anche se non sembra avere basi troppo solide
di Luca Misculin
Sabato a Trapani, in Sicilia, è iniziata la fase preliminare del più grosso processo che si è tenuto fin qui in Italia contro le ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo. Il processo è stato avviato dopo un’indagine lunga quattro anni che ha prodotto 24 indagati fra persone fisiche e associazioni, centinaia di pagine di spunti di indagine e intercettazioni, alcune delle quali pubblicate sui giornali, e la sospensione delle attività di una ong, la tedesca Jugend Rettet, che fra il 2016 e il 2017 soccorse circa 14mila persone nel Mediterraneo. È inoltre il primo processo di questo tipo ad arrivare alla fase dell’udienza preliminare: tutte le altre inchieste sulle ong si erano chiuse con un’archiviazione.
L’indagine non riguarda soltanto Jugend Rettet, ma coinvolge anche due note organizzazioni internazionali come Medici Senza Frontiere (MSF) e Save the Children, e contiene accuse molto dure su una loro potenziale collusione con i trafficanti di esseri umani in Libia, oltre che su presunti secondi fini di natura promozionale ed economica.
Anche per questo gli addetti ai lavori considerano questo processo come uno dei più importanti mai tenuti in Italia riguardo al soccorso in mare. «Il processo riguarda in sostanza il tentativo di criminalizzare la mobilitazione della società civile» nel soccorso dei migranti, dice Allison West, esperta di diritti umani che sta seguendo il processo per lo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR).
In estrema sintesi un giudice dovrà decidere se soccorrere persone nel Mediterraneo con le modalità seguite finora delle ong coinvolte sia legittimo, oppure sia sbagliato e contrario alle leggi italiane, come sostenuto negli ultimi anni da diversi partiti politici italiani.
Nelle 653 pagine dell’informativa finale consegnata alla Procura di Trapani dalla polizia giudiziaria, nelle migliaia di pagine di intercettazioni telefoniche di attivisti e giornalisti, e dai documenti presentati dai magistrati al giudice per l’udienza preliminare, la tesi che emerge è che le tre ong siano colpevoli di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, un reato che punisce chi «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato», nel caso in cui queste persone non abbiano titolo per entrarci.
Secondo la procura, le ong si accordavano segretamente con i trafficanti di esseri umani in Libia e concordavano orario e luogo in cui farsi trovare per raccogliere i migranti che partivano dalle coste libiche a bordo delle proprie navi, sapendo che le persone in questione non avevano un regolare permesso per entrare in Italia.
Le 21 persone coinvolte fanno parte degli equipaggi delle navi approntate da Medici Senza Frontiere, Save the Children e Jugend Rettet attive nel Mediterraneo fra l’estate del 2016 e l’estate del 2017, cioè il periodo in cui si concentra l’indagine: sono persone che hanno guidato la nave o organizzato la missione, oppure che semplicemente si trovavano a bordo delle navi nei giorni di alcuni episodi giudicati particolarmente sospetti dalla procura.
Una fonte di Medici Senza Frontiere che ha preferito rimanere anonima ha detto al Post che chiunque dei moltissimi dipendenti di MSF coinvolti nelle operazione di soccorso sarebbe potuto finire fra gli incriminati, dato che il metodo seguito per queste operazioni è rimasto sostanzialmente lo stesso.
La pena massima per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale sarebbe di cinque anni, ma può anche essere triplicata fino a raggiungere i 15 anni in caso di ulteriori irregolarità, come trasportare più di cinque persone o mettere in pericolo la loro salute. Secondo i calcoli degli avvocati difensori di Jugend Rettet, le quattro persone dell’associazione coinvolte nel processo rischiano fino a venti anni di carcere.
Alcuni degli episodi presentati come sospetti dalla procura sono già noti perché negli anni scorsi erano stati fatti trapelare ai giornali dalle persone che stavano lavorando all’indagine. Il più famoso riguarda la presunta riconsegna di alcune imbarcazioni usate per trasportare migranti ai trafficanti libici.
Nel decreto di sequestro preventivo della nave Iuventa di Jugend Rettet (PDF) emesso dalla Procura di Trapani il 2 agosto 2017 (sequestro peraltro ancora in vigore, dopo cinque anni) si legge che il 18 giugno 2017 alcuni membri dell’equipaggio della Iuventa «riconsegnavano, dopo averle legate fra loro», tre imbarcazioni «ai trafficanti libici, una delle quali – quella contrassegnata con le lettere KK – veniva poi riutilizzata in un altro fenomeno migratorio in data 26.6.2017». Le foto della presunta riconsegna di questa imbarcazione furono pubblicate dai principali giornali italiani e sono online ancora oggi.
A Medici Senza Frontiere sono state invece contestate tre operazioni in cui l’organizzazione si sarebbe messa d’accordo con i trafficanti libici, mentre non è chiaro quali siano le accuse rivolte a Save the Children (le carte dell’inchiesta non sono ancora pubbliche).
A tutte e tre le ong l’informativa finale della polizia giudiziaria rivolge accuse molto pesanti, riprese anche dalla procura: nel documento, pubblicato in parte da Repubblica, si legge che secondo gli ufficiali di polizia giudiziaria le ong «erano mosse nelle loro condotte criminose da aspetti economici», e che il loro fine, oltre che soccorrere le persone in mare, era la «raccolta e conduzione in Italia di un numero sempre maggiore di migranti, per mantenere alta visibilità mediatica e avere più donazioni».
West dice inoltre che nelle carte della procura compaiono alcuni riferimenti alla teoria, già da tempo confutata, del cosiddetto “pull factor”. La teoria sostiene che la sola presenza delle navi delle ong nel Mediterraneo centrale incoraggi la partenza di migranti dalle coste libiche.
– Leggi anche: Le ONG non attirano i migranti in Europa
Sentito dal Guardian, il procuratore capo di Trapani Gabriele Paci ha detto che la tesi della procura «non mette in discussione il lavoro che queste organizzazioni fanno per salvare le persone», ma che si limita a sostenere che in alcuni casi ci siano stati degli «accordi con i trafficanti, tali per cui le ong sapevano quando e dove» recuperare i migranti. «Questa è una cosa che non si può fare».
La tesi della procura si basa comunque su presupposti che in parte sono già stati smentiti. Già nel 2018 una dettagliatissima inchiesta di Forensic Architecture, un gruppo di lavoro dell’università di Londra, mostrò che durante le operazioni di soccorso di un barchino di migranti compiute dalla Iuventa il 18 giugno 2017 l’equipaggio della nave non riconsegnò le barche ai trafficanti, come sembrava da alcune foto diffuse dalla polizia italiana.
In base a un’analisi dei movimenti delle onde dei video disponibili, Forensic Architecture dimostrò che l’equipaggio della Iuventa stava allontanando l’imbarcazione KK verso nord, quindi lontano dalle coste libiche, mentre non c’era alcuna imbarcazione di trafficanti in vista. Durante un’operazione di salvataggio, le imbarcazioni vuote vengono normalmente allontanate perché non intralcino il trasbordo delle persone soccorse. Nella stessa inchiesta, Forensic Architecture metteva anche in dubbio il fatto che nelle altre due operazioni contestate alla Iuventa, poi finite nelle carte del processo, ci fossero prove di una collusione coi trafficanti.
Nel 2018 Lorenzo Pezzani, un membro di Forensic Architecture, disse a Internazionale che le accuse rivolte alla Iuventa si basano sulla «decontestualizzazione e l’omissione di alcuni elementi». «Se si estrapolano degli elementi fattuali dal contesto e si combinano con informazioni che non c’entrano nulla, si fa una ricostruzione falsa che porta a conclusioni sbagliate», aggiungeva Pezzani parlando con la giornalista Annalisa Camilli.
Anche il fatto che nelle carte si trovi citata la teoria del cosiddetto “pull factor” fa pensare che non tutte le tesi sostenute dall’accusa siano basate su fatti reali.
Già nel 2019 uno studio di due esperti di immigrazione, Matteo Villa (ricercatore dell’ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale) e Eugenio Cusumano (assistant professor in International relations and European Union studies all’Università di Leida, nei Paesi Bassi), non aveva trovato alcune correlazione fra l’attività delle ong nel Mediterraneo e le partenze di imbarcazioni di migranti dalle coste libiche.
Durante una recente conferenza stampa, uno degli avvocati che difende Jugend Rettet, Nicola Canestrini, ha respinto tutte le accuse portate avanti dalla Procura di Trapani e aggiunto che nelle carte processuali non ha trovato «nessun contatto» fra l’equipaggio della Iuventa e «persone coinvolte nelle tratte degli esseri umani in Libia, nonostante siano stati analizzati a fondo computer e cellulari».
La tesi della difesa, insomma, è che le ong non possano essere accusate di avere trasportato sul territorio italiano persone che non avevano diritto di entrarci perché non hanno avuto alcun ruolo nell’organizzazione delle partenze: si limitavano a stazionare in una fascia di mare in cui sapevano che le imbarcazioni avrebbero potuto trovarsi in difficoltà.
Gli avvocati delle persone incriminate – che sono diversi, ma coordinano da tempo le proprie posizioni – sostengono che le ong avessero l’obbligo di soccorrere quelle persone, citando diverse norme del diritto internazionale che obbligano qualunque imbarcazione a soccorrerne un’altra che si trova in pericolo. L’articolo 98 della Convenzione dell’ONU sul diritto del mare (PDF), entrata in vigore nel 1994, obbliga per esempio a «procedere con la massima rapidità possibile a soccorrere le persone in pericolo».
Canestrini, avvocato che difende la Jugend Rettet, sostiene che la natura del processo sia «politica», e che il suo obiettivo sia quello di dare una forma concreta alle accuse che diversi partiti politici negli anni hanno rivolto alle ong che soccorrono le persone nel Mediterraneo, accusate di alimentare il traffico di esseri umani e chiamate a più riprese «taxi del mare» o «vice-scafisti».
Ci vorranno verosimilmente alcuni mesi affinché il giudice dell’udienza preliminare prenda una decisione sul caso. Al momento non ci sono indicazioni su quale decisione possa prendere: se prosciogliere di fatto le persone incriminate con una sentenza di non luogo a procedere, oppure rinviarle a giudizio. In quel caso inizierebbe il processo vero e proprio, che potrebbe durare molti anni.
«È molto difficile capire cosa succederà», conclude West: «in Italia casi simili come l’inchiesta su Carola Rackete si sono risolte nella fase preliminare del processo, ma in questo caso data la portata del caso e la mole di prove portata dalla procura», cioè di elementi emersi dall’indagine, dato che la prova viene formata solo nel corso del processo, «non è facile fare previsioni».