Perché Berlinguer fu così importante
Cent'anni fa nacque uno dei politici più ricordati e amati della sinistra italiana, che da segretario provò a cambiare il PCI
In uno dei suoi libri della serie Visti da vicino, Giulio Andreotti – leader democristiano e più volte presidente del Consiglio – dedica un capitolo anche a Enrico Berlinguer, storico segretario del Partito Comunista. Nel suo ritratto, Andreotti include osservazioni ammirate sul temperamento di Berlinguer («Enrico aveva lo stesso tono calmo e dall’apparenza distaccata quando vi preannunciava un voto favorevole o quando considerava esaurito un esperimento») e alla fine, dopo averne ricordato brevemente la morte improvvisa, lo definisce un «duro avversario ma uomo corretto e responsabile».
Andreotti scrisse queste righe rispettose circa un anno dopo la morte di Berlinguer, avvenuta a seguito di un ictus che lo colpì mentre era sul palco per un comizio a Padova. Oggi che sono passati quasi 38 anni da quella morte spesso definita «eroica», ed esattamente un secolo dopo la sua nascita – il 25 maggio 1922 a Sassari – Berlinguer è ancora uno dei personaggi politici della cosiddetta Prima Repubblica più rispettati e ricordati, oggetto di un mito forse meno trasversale di quello di Sandro Pertini ma altrettanto radicato.
In parte questo è dovuto proprio al modo in cui morì e al ricordo dei funerali che seguirono, enormemente partecipati. Ma soprattutto è dovuto alle innovazioni che Berlinguer cercò di introdurre nella politica italiana e all’interno del suo stesso partito, cosa che gli fece guadagnare la stima e la fiducia di un gran numero di elettori: il PCI durante la sua segreteria raggiunse il massimo storico di consensi.
Nei ricordi del Berlinguer uomo, descritto spesso come generoso e dal carattere mite e moralmente ineccepibile, passa a volte in secondo piano l’azione del Berlinguer politico. Si possono distinguere almeno due importanti concetti che introdusse nel dibattito pubblico quando fu segretario: il cosiddetto “compromesso storico”, cioè un tentativo di avvicinamento tra PCI e Democrazia Cristiana dopo quasi trent’anni di esclusione dei comunisti dal governo; e la “questione morale”, che metteva l’accento su una deriva dei partiti che li aveva fatti diventare, a suo dire, «macchine di potere e di clientela».
– Leggi anche: Il giorno in cui nacque “la questione morale”
Berlinguer nacque in una famiglia liberale non aristocratica ma comunque assai importante in città, imparentata con altre famiglie di nobili e notabili come i Satta Branca, i Delitala e i Cossiga, da cui proveniva Francesco Cossiga che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica. Berlinguer crebbe in un ambiente antifascista e in generale molto connotato politicamente – suo nonno Mario era mazziniano – ma la sua adolescenza venne profondamente segnata da un evento che poco aveva a che fare con la politica: la morte prematura di sua madre, Mariuccia Loriga.
«Da ragazzo c’era in me un sentimento di ribellione. Contestavo tutto. La religione, lo stato, le frasi fatte e le usanze sociali. Avevo letto Bakunin e mi sentivo un anarchico» raccontò molti anni dopo lo stesso Berlinguer. Influenzato da suo zio Ettore, cominciò a frequentare gli ambienti antifascisti di Sassari e si avvicinò al comunismo, una scelta non scontata dato l’ambiente borghese – anche se progressista – da cui proveniva.
A metà degli anni Quaranta la sua famiglia si trasferì prima a Roma e poi a Milano. Nel 1948, a 26 anni, entrò nella direzione del PCI e iniziò la sua lunga carriera politica, diventando segretario generale della federazione giovanile comunista, la FGCI. La scalata di Berlinguer dentro al partito fu agevolata dalla benevolenza dell’allora segretario e storico leader Palmiro Togliatti, che nel 1960 lo nominò responsabile dell’organizzazione del partito. In questo decennio Berlinguer dimostrò buone doti di mediazione, in particolare durante la lunga fase di scontro tra l’ala “rigorista” di Pietro Ingrao, che cercava un’alleanza con i movimenti alla sinistra del PCI, e l’ala più moderata di Giorgio Amendola, che auspicava un’apertura verso i socialisti e una federazione con tutta la sinistra italiana.
Probabilmente proprio a causa della sua posizione mediatrice, Berlinguer venne eletto prima vicesegretario e poi, nel 1972, segretario del partito.
Il momento storico che stava passando l’Italia era assai complicato. Dalla fine degli anni Sessanta era iniziata una lunga fase di contestazioni da parte degli studenti e dei lavoratori, e allo stesso tempo si erano andati formando movimenti politici extraparlamentari che avevano fatto della violenza armata il loro strumento di lotta. Nel 1969 c’era stata la strage fascista di piazza Fontana, a Milano, mentre proprio nell’anno in cui fu eletto Berlinguer ci fu il primo sequestro delle Brigate Rosse, a danno del dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini, sempre a Milano.
Il contesto internazionale era altrettanto complicato. Berlinguer rimase impressionato in particolare da quanto avvenne in Cile al presidente socialista Salvador Allende, destituito da un colpo di stato militare nel settembre 1973, dopo che era stato eletto democraticamente tre anni prima. Dati i molti punti di contatto, tra cui la forte presenza della Chiesa cattolica e di una classe imprenditoriale borghese conservatrice, l’esperimento di Allende era guardato con attenzione dall’Italia.
Gli avvenimenti in Cile stimolarono Berlinguer, che poche settimane dopo la morte di Allende mise le sue riflessioni in tre articoli pubblicati su Rinascita, il mensile politico-culturale del PCI. L’ultimo di questi è considerato l’atto con cui nacque l’idea del compromesso storico, anche se in realtà la proposta di Berlinguer raccoglieva alcuni segnali di avvicinamento che già si stavano vedendo da parte democristiana.
Partendo dal tragico esito dell’esperimento politico cileno, Berlinguer ragionò sulla strada da intraprendere in Italia, e nell’articolo del 12 ottobre scrive: «è chiaro che il compito di un partito come il nostro non può essere che quello di isolare e sconfiggere drasticamente le tendenze che puntano o che possono essere tentate di puntare sulla contrapposizione e sulla spaccatura verticale del paese, o che comunque si ostinano in una posizione di pregiudiziale preclusione ideologica anti-comunista, la quale rappresenta di per sé, in Italia, un incombente pericolo di scissione della nazione».
Avvertiva poi che anche se un percorso di dialogo costruttivo con la parte avversa «non è facile né può essere frettoloso», il tempo a disposizione non era infinito:
La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.
L’idea di Berlinguer non piacque alla base del partito né alla dirigenza. Ma come scrisse lo storico Aurelio Lepre, il compromesso storico fu comunque un tentativo di «rispondere ai processi di trasformazione che erano in corso nel partito stesso, nella società italiana e anche in Europa».
Del resto in quel momento le persone iscritte al PCI o che comunque lo votavano non erano più quelle dell’immediato dopoguerra: c’era stata l’ascesa di nuovi gruppi sociali, piccoli e medi imprenditori con nuove istanze ma con le stesse idee politiche di quando erano artigiani o operai. Questo significava che il PCI non poteva più rappresentare rigidamente solo la classe operaia, ma doveva aprirsi alla società nel suo complesso.
Eppure, sempre secondo Lepre, da una parte il tentativo di Berlinguer aveva una «forma rigida», non adeguata alla velocità delle trasformazioni sociali in corso; dall’altra, allo stesso tempo, era un cambio di rotta «troppo radicale» per una parte del partito e anche della società. È quello che Lepre definisce uno «scarto» tra gli ideali del partito, ancora basati sull’uguaglianza e su una società socialista, e gli interessi economici che si erano formati nei decenni.
Il compromesso storico aveva anche una componente che mirava a impedire una svolta a destra nel paese, e a spostare la DC verso sinistra. Tuttavia questo non basta a spiegare il picco di popolarità che attraversò il PCI pochi anni dopo i tre articoli di Berlinguer, in particolare alle regionali del 1975. Le ragioni di questa popolarità risiedono in parte proprio nella figura di Berlinguer, vista come il simbolo di una «rivolta contro una politica che aveva stancato e irritato e che molti attribuivano alla mancanza di alternativa», scrive Lepre.
In quest’ottica si può inquadrare la questione morale sollevata da Berlinguer anni dopo, nel 1980, dopo che il tentativo di avvicinamento tra DC e PCI aveva portato ai governi della cosiddetta “solidarietà nazionale” in cui – per la prima volta nella storia – il PCI non aveva votato contro, prima astenendosi e poi dando il suo appoggio senza esprimere ministri.
Tra il 1975 e il 1979 i rapporti tra le dirigenze dei due partiti si erano però deteriorati, sfibrati da continue trattative e da un clima pesantissimo nel paese (il governo a cui il PCI diede l’appoggio esterno giurò nel giorno in cui Aldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse). E quindi, durante l’emergenza per il terremoto in Irpinia del 1980, Berlinguer decise di rompere definitivamente con i democristiani.
Gli aiuti per i terremotati non furono tempestivi – negli anni successivi ci furono diversi scandali a riguardo – e Berlinguer individuò nella corruzione e nell’amoralità dei partiti la ragione di quelle disfunzioni. In una lunga intervista data a Eugenio Scalfari nel 1981, Berlinguer spiegò che «i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune». E aggiunse che i partiti «hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni», specificando che proprio sotto questo aspetto il PCI era diverso dagli altri.
La questione morale di Berlinguer gli attirò diverse critiche anche dentro al partito. Alessandro Natta, allora vicesegretario, considerava per esempio giusta la battaglia ma «irritante» e «moralistico» il modo in cui veniva condotta. Berlinguer comunque ribadì sempre questa sua idea, fino all’ultimo. Nella sua ultima intervista televisiva, data poche ore prima del comizio di Padova in cui ebbe il malore, parlò della necessità «di aprire la strada» a governi che guardassero agli «interessi generali» e non fossero «caratterizzati dalla conflittualità continua tra i partiti e tra le loro fazioni».
Berlinguer morì quattro giorni dopo il comizio, l’11 giugno 1984. Il suo funerale, a Roma, fu un evento di massa, a cui parteciparono tanti leader internazionali, da Arafat a Michail Gorbaciov, e alleati e avversari italiani, compreso il leader del MSI Giorgio Almirante. Il giornalista Fabrizio Rondolino, ex militante, lo descrisse così nel suo libro Il nostro PCI:
Roma era piena di sole e di gente, attraversata da decine di cortei: una folla immensa dispersa ovunque, per le strade, sui marciapiedi, alle finestre, davanti ai negozi con le serrande abbassate, arrampicati sui lampioni, in piedi sui tetti delle macchine. Un milione di persone, un milione e mezzo, due: la più grande manifestazione della storia d’Italia. Non è stata una giornata eroica, però, non la ricordo così: malinconica invece, struggente, e in un certo senso conclusiva. È stato scritto e detto che quel giorno moriva il PCI, ed è vero.