Mario Fantin, documentarista e documentatore
Accompagnò la spedizione italiana sul K2, girò decine di film, scrisse decine di libri e poi fu «alpinista da scrivania»: oggi si inizia a ricordarlo
di Gabriele Gargantini
In una frase piuttosto nota, il fumettista Bob Thaves fece dire a uno dei suoi personaggi che guardava il ballerino Fred Astaire: «certo che era grande, ma Ginger Rogers faceva tutto quello che faceva lui, solo che all’indietro e sui tacchi». Qualcosa di simile è vero anche per chi, in alcuni documentari di montagna, segue i protagonisti facendo gran parte di ciò che fanno loro, con le stesse corde e gli stessi ramponi, però con cineprese o videocamere tra le mani. Succede oggi ma succedeva ancor più qualche decennio fa, quando tutto era più difficile, complicato e pesante. E quando girare certi film era un’avventura nell’avventura.
È particolarmente vero nel caso di Mario Fantin, che fu documentarista e operatore, e che siccome girò film di montagna e d’esplorazione fu senz’altro anche alpinista ed esploratore. Nato nel 1921 e morto nel 1980, Fantin girò immagini a quote mai raggiunte prima, fece decine di spedizioni in tutti i continenti, le mostrò in decine di film, ne scrisse in libri, diari, saggi e monografie e le documentò con decine di migliaia di fotografie. Poi si fermò e da viaggiatore si trasformò in instancabile archivista, dedicandosi per anni a quello che definì «alpinismo da scrivania».
Mauro Bartoli, regista del documentario Il mondo in camera che ne racconta la storia, dice: «Fantin aveva lavorato tanto per raccontare, per documentare, per salvare la memoria di quel che si era fatto, sempre col timore che andasse perduto. Poi, come spesso accade, il primo a essere dimenticato era stato lui».
Da qualche tempo, in buona parte grazie a Bartoli, le attenzioni verso Fantin e la sua storia sono aumentate. Di Fantin – “l’esploratore con la macchina da presa” e “il cineasta dell’avventura” – si è occupato di recente il Trento Film Festival. E di Fantin sono le riprese, seppur non la regia, di Italia K2, che raccontò la celebre e storica spedizione italiana del 1954 sulla cima di quella che da allora è nota appunto come “la montagna degli italiani”, e che di recente è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna.
Nato a Bologna da genitori friulani, nel 1940 Fantin si diplomò in ragioneria e pochi mesi più tardi partì, non ancora ventenne, per fare il militare. Gli anni della Seconda guerra mondiale li passò nei Balcani: l’8 settembre 1943, da comandante di una batteria di artiglieri, scelse di non riconsegnare le armi e si unì ai partigiani locali. Ferito, nel 1944 tornò in Italia e fu tra i pochi: dice infatti Bartoli, che «da oltre ventimila della sua compagnia che erano partiti, ne tornarono meno di tremila».
Fantin restò ricoverato più di un anno e Bartoli racconta che in quei mesi realizzò un diario fotografico su quelli che definì i suoi “1.800 giorni di naia”. Un diario «con centinaia e centinaia di fotografie, di riproduzioni, di impaginazioni foglio su foglio fatte con forbici, colla, pellicola e ingranditore fotografico». Dopodiché, forse per riabilitare il fisico, iniziò ad appassionarsi alla montagna e già nel dicembre 1946 si iscrisse al CAI, il Club Alpino Italiano.
Nel frattempo, da appassionato di cinema girò i suoi primi e tutt’altro che avventurosi film (avevano a che fare con «bachi da seta, api e fiori di montagna») e poi alcuni documentari sull’alpinismo e l’arrampicata, ma comunque didattici e didascalici: per esempio Abbecedario di pietra o Con ramponi e piccozza.
Altri, altrove, stavano intanto provando a scalare le prime vette sopra gli ottomila metri. Quella dell’Annapurna fu raggiunta nel 1950, seguita poi da quelle dell’Everest e del Nanga Parbat. Tra quelle che restavano, la vetta più alta e difficile, e quindi più ambita, era quella del K2. Nonostante fino a pochi anni prima non sapesse quasi nulla di alpinismo e alta montagna, anche grazie a una certa insistenza Fantin riuscì a essere ammesso in qualità di fotografo e cineoperatore alla spedizione italiana che – forse anche grazie a un diretto interessamento di Alcide De Gasperi – nel 1954 riuscì a battere sul tempo altre spedizioni straniere e partire per il K2.
La spedizione fu guidata in modo autoritario dal geologo Ardito Desio e oltre a qualche ricercatore vi parteciparono dodici alpinisti italiani: tra gli altri, Walter Bonatti, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Fantin non era certo al loro livello, ma fu comunque una sorta di “tredicesimo alpinista”.
In quella spedizione, preceduta da oltre 200 chilometri di marcia di avvicinamento e supportata da circa 13 tonnellate di materiali divisi in centinaia di casse portate al campo base da altrettanti sherpa, Fantin dovette organizzarsi per gestire a migliaia di metri di altitudine attrezzature varie e migliaia di metri di pellicole arrotolate, realizzando riprese in formato 16 millimetri in condizioni talvolta parecchio ostili.
Per documentare la spedizione Fantin salì fino ai 6.560 metri, una quota a cui nessuno prima aveva girato immagini. Lasciò poi la più leggera delle sue cineprese e qualche istruzione su come usarla a Compagnoni e Lacedelli, i due membri della spedizione che il 31 luglio 1954 raggiunsero la vetta, così che i due potessero brevemente documentare l’impresa. Per giorni, e fino ai quei 6.560 metri, Fantin dovette fare tutto rispettando precisi ordini di Desio, il quale gli comunicò da subito: «per fare il film non dovrà mai fermare un solo uomo in marcia; non dovrà mai, in alcun modo, turbare o modificare il normale svolgimento della spedizione».
Se c’era da riprendere qualcuno dall’alto, Fantin saliva prima di lui; per riprendere qualcuno dal basso doveva invece restare indietro e poi affrettare il passo; se c’era una bufera e voleva fare riprese, doveva camminare con in mano una delle cineprese che si era portato lassù. Come ricorda Il mondo in camera, per girare il quale Bartoli ha avuto accesso a taccuini e appunti privati, Fantin scrisse, di quei giorni:
«Realizzare film in queste condizioni richiede costante applicazione. L’operatore deve essere sempre là dove è interessante girare. In genere si è costretti a girare ogni cosa interessante che capiti a portata di obiettivo, non sapendo se in seguito si avrà la fortuna di ritirarla ancora. Qui ogni metro di film richiede fatica fisica e mentale».
Già durante la spedizione, tuttavia, Fantin venne a sapere che il regista del film non sarebbe stato lui bensì Marcello Baldi, documentarista che era stato aiuto regista di Vittorio De Sica. Il CAI, che aveva finanziato la spedizione e doveva produrre il film, temeva che Fantin avrebbe fatto qualcosa di troppo tecnico e alpinistico e scelse quindi Baldi per avere un risultato più commerciale. O anche, come scrisse Fantin nel libro K2, Sogno vissuto, per «mettere in circuito uno spettacolo destinato ad interessare l’eterogeneo pubblico che affolla le sale cinematografiche».
La spedizione era stata un successo, ma rimase per sempre associata alla oscura vicenda che coinvolse Lacedelli, Compagnoni, Bonatti e l’hunza Amir Mahdi. I primi due erano arrivati in cima, ma come accertarono varie inchieste dopo decenni di polemiche e omertà, misero a repentaglio la vita di Bonatti e Mahdi per evitare di condividere con loro la vetta. Il film, intitolato Italia K2, fu presentato in anteprima nel 1955 al cinema Barberini di Roma, e tra gli spettatori c’era il presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Incassò circa 360 milioni di lire (molti per l’epoca), fu presentato fuori concorso a Cannes e nelle sale andò persino meglio di Delitto perfetto di Alfred Hitchcock.
– Leggi anche: La grande vita di Walter Bonatti
In Italia K2 Fantin è nominato e mostrato un paio di volte, in un’occasione mentre «sviluppa provini e ribatte chiodi per attaccar le ghette agli scarponi». Nei titoli di coda è presentato come semplice autore della “documentazione cinematografica”.
Se è indubbio che il film piacque parecchio, c’è anche da dire – come ricordato dallo scrittore Marco Albino Ferrari in una conferenza organizzata per presentare la versione restaurata del film – che gran parte della critica lo accolse male. Una recensione di Avvenire contrappose per esempio «la bellezza della fotografia e del colore e la seduzione terribile delle immagini» di Fantin al fatto che il commento e la sceneggiatura fossero invece inesorabilmente segnati da una «facile e retorica vena sentimentale», oltre che da «fastidiosi lirismi e voli dannunziani».
Nonostante Italia K2 sia restato per anni l’unica cosa per cui fosse famoso Fantin, quello era solo il primo dei suoi viaggi e dei suoi film di viaggio. Spesso associandosi a spedizioni finanziate dal conte Guido Monzino, ex direttore generale della Standa che si era appassionato alla montagna dopo aver scalato per scommessa il Cervino, Fantin viaggiò un po’ ovunque, dai ghiacciai ai deserti. Andò nelle Ande, sul Kilimangiaro, in Groenlandia, in Oceania e nel Tibesti, sempre scrivendo, girando e fotografando e talvolta interessandosi anche a manufatti artistici, pitture rupestri o siti archeologici.
Bartoli, che a Il mondo in camera ha dedicato alcuni anni di ricerche, letture e interviste e che nel frattempo ha approfondito la vasta filmografia di Fantin, dice in riferimento al suo stile: «sia nelle riprese che nelle fotografie c’è grande attenzione alla tecnica e alla qualità dell’immagine, alle ottiche da usare, alle attrezzature da utilizzare, alla sperimentazione tecnica necessaria a raggiungere certi risultati». Per esempio, prosegue Bartoli, Fantin «fa foto sul K2 in notturna tenendo l’otturatore aperto per ore, per vedere le stelle che si muovono nel cielo». E anche in situazioni estreme colpisce come le sue riprese siano «straordinariamente ferme», nonostante tempo e contesto.
Oltre alla tecnica, Bartoli evidenzia però anche una «attenzione – all’epoca non così comune – che Fantin riservava alle persone che le spedizioni coinvolgevano»: gli sherpa portatori in Tibet, guardando i quali Fantin si chiede: «cosa penserà questa gente di noi occidentali che veniamo qua e vogliamo salire la loro montagna». Così come gli Inuit: «dalle sue foto», prosegue Bartoli, «vedi tanti primi piani e capisci che lui non si accontentava mai di una foto ma ne scattava tante, spostandosi o cambiando angolazione per cercare di portare a casa il volto di un uomo che aveva una storia e che lui con le sue foto cercava di salvare».
Ciononostante, dice Bartoli, «quando Fantin parlava di sé toglieva qualsiasi aspetto artistico: si definiva ragioniere della montagna e ragioniere dell’avventura». Eppure «era un grande narratore, un grande fotografo e un grande operatore», che «a volte piegava il racconto alla necessità di documentare ed essere preciso». Bartoli, che ne ha letto i resoconti e guardato i filmati, dice: «tra un’enorme quantità di dati e descrizioni trovi sempre quell’immagine, quella frase o quella sequenza che ti impressiona».
Fantin viaggiò fino al 1972, quando sia il cinema che l’alpinismo già da qualche tempo stavano cambiando per cercare lo spettacolo (a volte organizzando spedizioni in funzione di un film, anziché il contrario) e l’avventura estrema e magari drammatica, non solo per documentare un’impresa o il semplice raggiungimento di una vetta.
Poco più che cinquantenne Fantin si fermò, e dalla sua casa di Bologna si dedicò all’alpinismo da scrivania, con l’obiettivo di ampliare e organizzare l’archivio a cui già da qualche anno aveva iniziato a lavorare. Nelle sue parole, «un centro di documentazione mondiale per raccogliere tutte le informazioni sulle spedizioni riuscite e sui tentativi falliti di chi si è avventurato oltre i confini del mondo civilizzato».
Fu qualcosa di strano per un uomo che in uno dei taccuini citati in Il mondo in camera scrisse, delle alte montagne: «solo lassù di fronte al pericolo, al sacrificio, in condizioni di vita difficili da immaginare, si è incivili, ma veramente liberi». Ma qualcosa che diventa in parte più comprensibile se si pensa alla sua necessità di viaggiare e raccontare con lo scopo ultimo di documentare per altri.
Dopo aver inseguito e accumulato esperienze, Fantin fece qualcosa di simile con i resoconti, suoi e altrui. Tra le altre cose mandò alcune migliaia di lettere e richieste di informazione per arricchire sempre più il CISDAE, il Centro italiano studio e documentazione alpinismo extraeuropeo, che già nel 1967 aveva fondato e il cui archivio sempre più grande stava tutto nella sua piccola casa. Morì suicida nel 1980, sparandosi con la pistola che conservava dai tempi della guerra.
Il CISDAE, che già a metà anni Settanta il CAI aveva acquisito lasciandolo però alla sua gestione, fa oggi parte del Museo Nazionale della Montagna di Torino: conserva «3.400 cartelle sulle spedizioni italiane extraeuropee» e si può visitare su appuntamento.
Nei prossimi mesi Il mondo in camera, prodotto da Apapaja, arriverà in diverse città italiane ma ancora non ci sono tempi e informazioni più precise sulla sua distribuzione. Nel frattempo, Bartoli dice che si è riacceso un certo interesse nei confronti di Fantin, cosa che porterà altri suoi film a essere restaurati e recuperati. «Dicono che era una persona socievole, che aveva la battuta pronta, che sapeva come stare in gruppo» dice Bartoli, che ha parlato con chi lo aveva conosciuto e frequentato. «Aveva la capacità di stare nel gruppo della spedizione, forse meno di stare nella società, forse il suo posto e il modo di stare era lassù o comunque lontano, su una slitta o in cordata».
Alcuni anni fa la storia di Fantin fu raccontata in Viaggio alle montagne del mondo, un libro scritto da Aldo Audisio e Roberto Mantovani. Per quanto riguarda i suoi tantissimi film che non sono Italia K2, Bartoli consiglia Les grandes murailles, ma aggiunge: «i film di spedizione che a me piacciono di più sono quelli in Groenlandia», in cui Fantin «si fa prendere anche dal racconto etnografico» e mostra un viaggio «con le slitte in mezzo a un ghiaccio che sembra non finire mai, con momenti cinematografici veramente pazzeschi».