La “città da quindici minuti” non è questa gran novità
È un modello urbanistico assai di moda di recente, ma l'autosufficienza dei quartieri è un concetto che esiste da tempo
L’idea della “città da 15 minuti” teorizza un modello urbanistico che permetta ai cittadini di raggiungere tutti i servizi essenziali con uno spostamento della durata massima di un quarto d’ora. Fu proposto una prima volta dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno nel 2016, rifacendosi alla teoria del crono-urbanismo, che suggeriva di prendere in considerazione non solo lo spazio ma anche la dimensione temporale durante la progettazione delle città. Per un po’ l’idea rimase perlopiù circoscritta nel dibattito accademico, poi le restrizioni dovute alla pandemia hanno ridotto fisicamente le distanze percorribili, dando nuova importanza alle dimensioni locali e provocando dibattiti sulla sostenibilità del nostro stile di vita nei contesti urbani.
Nel 2020 la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, incluse l’idea di Moreno nel suo programma per la rielezione, e dopo di lei fecero lo stesso altri candidati di altre grandi città europee, tra cui Beppe Sala a Milano e Roberto Gualtieri a Roma. Nel giro di due anni la città da 15 minuti si è imposta come uno dei principali modelli di riferimento nelle campagne elettorali locali, e come strumento teorico alla base di molte iniziative e programmi politici. Eppure non è un’idea nuova, anzi: si rifà a concetti ed esperienze presenti nella storia urbana da tempo.
In un TED talk del 2020 Moreno spiegò: «vorrei offrire un concetto di città che va nella direzione opposta all’urbanistica moderna. Un tentativo di far convergere la vita in uno spazio a misura d’uomo, piuttosto che frazionarla in una grandezza disumana, che poi ci costringe ad adattarci. […] In poche parole, l’idea è che le città dovrebbero essere progettate o riprogettate in modo che nel raggio di 15 minuti, a piedi o in bicicletta, le persone possano vivere l’essenza di ciò che costituisce l’esperienza urbana. Per avere accesso a lavoro, alloggio, cibo, salute, istruzione, cultura e tempo libero».
Secondo Moreno, per trasformare le città in questo senso occorre cambiare mentalità, «esaminare attentamente come utilizziamo i nostri metri quadrati» e chiedersi come vengano utilizzati gli spazi di ogni quartiere, se ci siano abbastanza aree verdi e servizi necessari come strutture sanitarie, negozi, mercati.
I principi teorizzati da Moreno sono stati inclusi senza modifiche sostanziali nel programma con cui Gualtieri si era candidato lo scorso anno a sindaco di Roma, una città la cui notevole estensione rende allo stesso tempo difficile e indispensabile decentralizzare i servizi. Nel programma c’era scritto che a 15 minuti di distanza, da percorrere in bicicletta o a piedi, «deve esserci un parco, deve esserci il nostro presidio socio-sanitario, deve esserci una fermata del trasporto pubblico su rotaia, l’asilo e la scuola per i nostri figli, un centro culturale, un luogo dove praticare sport, la possibilità di acquistare ciò che serve nella quotidianità».
Una delle vie per realizzare tutto questo, aveva detto una volta Gualtieri durante la campagna elettorale, è da una parte costruire nuove infrastrutture, dall’altra migliorare ed estendere la rete del trasporto pubblico locale: «Roma ha bisogno della cura del ferro, dell’istituzione di navette a chiamata. Ma innanzitutto ha bisogno di più servizi, centri di aggregazione, assistenza sanitaria domiciliare e case della salute facilmente raggiungibili». Per fare un esempio concreto, a inizio maggio nel quartiere Casilino è stato inaugurato un cosiddetto “sky park”, un parco con campi sportivi, spazi di co-working e centri didattici per bambini, tutti allestiti sul tetto di un parcheggio multipiano. Gualtieri ha partecipato all’inaugurazione e ha detto che lo “sky park” del Casilino è «un passo avanti verso la città dei 15 minuti».
La teoria di Moreno sta avendo grande fortuna in Italia e all’estero per almeno tre motivi. Innanzitutto, si incastra bene con le esigenze nate con la pandemia, durante la quale centinaia di milioni di persone si sono dovute adattare alle restrizioni e hanno “riscoperto” i propri quartieri. È poi un concetto di immediata e facile comprensione, che si presta a essere diffuso sotto forma di manifesto politico o slogan, cosa che in effetti sta avvenendo. Infine, affronta il tema più complesso e importante di questi anni, la crisi climatica, offrendo una soluzione per rendere le città più sostenibili e meno inquinanti.
Ma il dibattito sulle modalità di organizzazione delle grandi città in funzione della sostenibilità è in realtà molto aperto in ambito accademico e c’è chi, pur condividendo i principi di base della città da 15 minuti, ne critica alcuni aspetti, partendo in particolare dalla sua scarsa originalità.
Gli urbanisti Elena Marchigiani e Bertrando Bonfantini hanno pubblicato di recente un lungo articolo sulla rivista di settore Sustainability, in cui mettono in discussione l’idea della città da 15 minuti e ne tracciano l’origine andando molto indietro nel tempo, partendo dalla Barcellona di metà Ottocento e dal piano di Ildefons Cerdà, che ampliò la città con una struttura a griglia fatta di isolati facilmente raggiungibili. Altri esempi del secolo successivo sono la Neighborhood Unit di New York, introdotta nel 1929, e i piani di sviluppo di Londra e della regione relativa, negli anni Quaranta, entrambi basati sulla conservazione o la creazione di comunità locali di poche migliaia di persone.
Secondo Marchigiani e Bonfantini la teoria di Moreno declina concetti antichi rendendoli più universali, rischiando però di «diluire i significati» qualora questa teoria venisse «presa come una soluzione applicabile meccanicamente, con risultati positivi autoevidenti e generalizzabili, senza riguardi per le differenti condizioni con cui si trova a interagire».
Marchigiani e Bonfantini scrivono che oltre a Parigi un gran numero di città nel mondo sta attuando iniziative «sotto la bandiera» della prossimità “da 15 minuti”, anche per effetto delle discussioni avvenute al C40, una rete che associa i sindaci e le sindache di quasi cento città. Tuttavia, soltanto alcune di queste iniziative «esprimono pienamente i presupposti di questo modello» e considerano davvero «i quartieri come i componenti principali di una struttura urbana decentralizzata ma interconnessa».
Un rischio di cui si parla spesso in relazione alla città da 15 minuti, infatti, è che con questo modello i quartieri ai margini potrebbero restare ancora più esclusi dal resto della città e soprattutto dal centro.
Marchigiani e Bonfantini fanno l’esempio virtuoso di Portland, che introdusse un modello simile – chiamato “Complete Neighborhoods” – con il piano di sviluppo del 2012. L’obiettivo del piano era di affrontare i problemi più urgenti della città, ossia la bassa scolarizzazione di alto livello, la diseguaglianza tra fasce sociali più ricche e più povere e l’inquinamento. Tra le altre cose, il piano prevedeva di misurare i quartieri attraverso un indice di accessibilità, basato sulla percentuale di popolazione che viveva a meno di venti minuti a piedi da servizi come supermercati, parchi, scuole, centri ricreativi; dopodiché concentrava le risorse sulle aree più deficitarie sotto questi aspetti, mantenendo però un quadro d’insieme basato sui quartieri come unità di una rete più grande.
Il piano di Portland aveva la capacità di unire «pensiero strategico e risultati funzionali», scrivono Marchigiani e Bonfantini, perciò l’idea di una città composta “da quartieri completi” venne poi riproposta in seguito in altri due piani della stessa città, il piano di azione climatica del 2015 e il piano di sviluppo del 2020.
Un altro contesto in cui la dimensione locale entra con frequenza a far parte dei piani delle città sono i paesi asiatici. In Cina di recente è stato elaborato un modello molto simile all’idea della città da 15 minuti, con un approccio più articolato: a ogni attività umana corrisponde un ordine di grandezza temporale diverso che va da 5 a 15 minuti, e a ogni grandezza temporale corrispondono diverse infrastrutture e servizi. Il modello riguarda molte grandi città cinesi – Guangzhou, Pechino, Chengdu, Shanghai – ma a Shanghai era già stato proposto nel 2016.
Dato che ci sono poche grandi città, in Italia di fatto esistono già molte “città da 15 minuti”. La gran parte delle persone vive infatti in contesti dove può raggiungere tutto in un quarto d’ora o anche meno, perciò nel caso italiano è forse più utile ribaltare la prospettiva.
Lo ha fatto Elena Granata, che insegna urbanistica al Politecnico di Milano, in un’intervista dello scorso settembre, quando la città da 15 minuti era nelle campagne elettorali di Roma e Milano. «Cosa si può fare fuori dal piccolo Comune che spesso non è connesso, è isolato, e oltre il quarto d’ora non va?» si chiede Granata. «Nel senso che non va oltre un’offerta di servizi di secondo rango: non parliamo del panettiere o del centro commerciale, ma del museo, del cinema, dell’università, della scuola. Quello che a noi manca è quello che un piccolo Comune può fare oltre i propri confini, connesso a quelli vicini; abbiamo davvero un problema di scala opposta».
Ad ogni modo anche in contesti più estesi, come per esempio Roma, l’idea di rendere autosufficienti i quartieri è presente da tempo. Testaccio e Garbatella, due quartieri che si sono sviluppati rispettivamente alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, furono concepiti proprio nell’ottica della prossimità e per favorire la vita di quartiere. «Nelle città italiane ci sono tanti esempi che nel passato già attuavano in qualche modo questo modello» racconta Francesca Romana Stabile, esperta di storia urbana e docente all’Università di Roma Tre. «A Roma il primo fu Ernesto Nathan, all’inizio del Novecento. Poi dopo, negli anni Sessanta, il ruolo regolatore del pubblico si è perso, e si è persa anche la connessione tra “costruire” e “abitare”».
Si cominciò a costruire i quartieri popolari senza tenere conto dei servizi e delle infrastrutture, le città si espansero notevolmente e parallelamente si sviluppò un fenomeno di speculazione edilizia praticamente endemico, specialmente a Roma.
Tutto questo, dice Stabile, ha contribuito a generare alienazione nei quartieri periferici. «Probabilmente è per questo che la città da 15 minuti ha avuto così tanto successo, è soprattutto una questione di comunicazione, ma risponde a un’esigenza vera, perché le grandi città sono andate in una direzione che va in un senso opposto alla dimensione locale, se ne sono accorti in molti durante la pandemia».
Tuttavia, precisa Stabile, è necessario che le istituzioni pubbliche guidino questo processo, per tenere insieme i vari quartieri ed evitare squilibri. «Non possono essere i privati a portare avanti questo modello, serve un intervento del pubblico. Si pensi al Corviale, dove si stanno facendo tanti investimenti e che potrebbe essere un luogo dove attuare questa idea di prossimità. Ma è impensabile farlo senza coinvolgere la Regione Lazio, che gestisce le case popolari attraverso le aziende territoriali».
Nel loro articolo, Marchigiani e Bonfantini aggiungono poi un ulteriore elemento a conclusione dei loro ragionamenti. Le città di solito non sono composte da parti tutte uguali, anzi. Perciò per raggiungere l’obiettivo della città da 15 minuti, ossia l’autosufficienza delle singole parti, è necessario che un progetto urbanistico prenda in considerazione queste parti nel loro insieme e che le iniziative siano studiate e integrate al contesto del quartiere verso le quali sono rivolte, e non banalmente calate dall’alto. Questo perché la corsa a rinforzare le identità locali urbane «potrebbe diventare veicolo di una gentrificazione di alcune zone urbane, portando a un aumento dei prezzi immobiliari e all’espulsione delle persone più vulnerabili».
La città da 15 minuti può essere insomma uno strumento utile per realizzare un progetto di rigenerazione urbana, concludono Marchigiani e Bonfantini, ma necessita anche di una struttura capace di gestire le trasformazioni che questa rigenerazione comporta, assicurandosi che migliorino davvero la vita di chi nei quartieri ci vive.