Il grande calo delle borse, spiegato
Soprattutto negli Stati Uniti, dove c'è un problema con i titoli tecnologici, ma anche in Europa: c’entrano l’inflazione e la guerra, tra le altre cose
Dall’inizio del 2022 le borse di praticamente tutti i paesi occidentali sono in forte calo. Dopo due anni di crescita ininterrotta e per certi versi incredibile, che non è stata fermata nemmeno dalla pandemia da coronavirus, in questi mesi i mercati hanno cominciato a registrare perdite: molte aziende grosse e famose hanno perso più della metà del loro valore, altre sono in difficoltà, e questo ribasso generalizzato sta penalizzando sia i grandi fondi di investimento sia i piccoli risparmiatori.
Il calo, almeno per ora, è pronunciato soprattutto negli Stati Uniti, mentre è meno forte in Europa, benché presente. E dopo mesi di ribassi, gli analisti stanno cercando di capire se siamo davanti a un fenomeno temporaneo o se invece stiano cambiando in maniera più pervasiva i paradigmi che hanno governato la finanza negli ultimi dieci anni: secondo alcuni, l’eccezionale e inarrestabile rialzo dei mercati finanziari globali che ha caratterizzato l’ultimo decennio potrebbe essere finito, e nei prossimi anni vedremo tassi di crescita più ridotti, guadagni più modesti, valutazioni meno esorbitanti.
I listini statunitensi sono quelli più interessati dal grande ribasso, che in alcuni casi può tranquillamente essere definito un crollo: dall’inizio dell’anno, quando hanno raggiunto l’ultimo picco, il listino S&P 500, che ospita le 500 aziende quotate più grandi degli Stati Uniti, ha perso il 16 per cento e venerdì ha raggiunto temporaneamente il cosiddetto “bear market”; il Dow Jones, un listino che contiene le 30 aziende considerate più rappresentative dell’industria americana, è calato del 12 per cento. Il crollo più grosso è stato però quello del Nasdaq, il listino che ospita tutti i principali titoli tecnologici, che dall’inizio dell’anno ha perso il 26 per cento.
La tecnologia vive una specie di crisi nella crisi, e il grosso calo dei titoli tecnologici statunitensi è una delle ragioni per cui l’andamento dei mercati è peggiore negli Stati Uniti che in Europa. Alcune singole aziende tecnologiche, come Netflix, Zoom o Peloton, che erano andate benissimo durante la pandemia, hanno subìto crolli devastanti, e negli ultimi mesi hanno perso fino al 70 per cento del loro valore. Altre, come Google o Amazon, si sono limitate a perdite del 20 per cento circa dall’inizio dell’anno.
Per dare una dimensione di quanto sia rilevante il calo delle borse americane: il Dow Jones ha registrato sette settimane di calo consecutivo, cosa che non avveniva dal 1980, mentre lo S&P 500 ha fatto registrare il peggior inizio dell’anno dal 1962.
Al confronto, le borse europee stanno facendo un po’ meglio. Anche per loro il momento peggiore è stato all’inizio del 2022, ma il calo è stato minore: tra il 10 e il 15 per cento per la maggior parte dei listini europei.
Le cause del grande ribasso sono numerose e complesse, ma con un buon grado di semplificazione si può dire che il motivo primario è che gli investitori sono sempre più preoccupati per la tenuta dell’economia globale. Temono, cioè, che l’economia crescerà molto meno del previsto, per varie ragioni che vanno dalle conseguenze della guerra in Ucraina all’aumento dell’inflazione.
Non è automatico che se l’economia va male debbano andare male anche i mercati: per esempio nel 2020, mentre tutte le economie del mondo crollavano a causa della pandemia da coronavirus, le borse erano cresciute a ritmi eccezionali, generando enorme ricchezza per gli investitori. Questo perché l’andamento dei mercati si basa spesso sulle aspettative che gli investitori hanno del futuro: era previsto che dopo la pandemia ci sarebbe stata una fortissima ripresa, e per questo i mercati avevano continuato a mostrare ottimismo anche mentre il PIL di molti paesi crollava.
Questa volta però ci sono due problemi che impediscono ai mercati di essere ottimisti. Anzitutto le previsioni sono più fosche: tutte le principali economie mondiali negli ultimi mesi hanno rivisto al ribasso le loro previsioni di crescita, a causa dell’inflazione, delle conseguenze della guerra in Ucraina o del permanere in alcune zone del mondo dei lockdown contro il coronavirus.
Ma la novità più importante, quella che potrebbe porre fine a un decennio di crescita quasi ininterrotta delle borse, è stata la decisione delle banche centrali di alzare in maniera consistente i tassi d’interesse per la prima volta in oltre vent’anni, creando così un clima sempre più sfavorevole e rischioso proprio per il tipo di investimenti che aveva generato più ricchezza negli ultimi anni.
Combattere l’inflazione
Il ritorno dell’inflazione dopo oltre due decenni in cui era sembrata sparita è probabilmente la più grande storia economica degli ultimi anni, le cui conseguenze difficilmente possono essere sottostimate. In tutto l’Occidente i prezzi di beni e servizi sono aumentati in maniera considerevole, e le speranze iniziali che potesse trattarsi di un fenomeno passeggero sono state deluse: una serie di crisi successive, dalla pandemia da coronavirus alla guerra in Ucraina, ha fatto dell’inflazione una realtà con cui probabilmente dovremo convivere per diverso tempo.
Negli ultimi mesi, l’inflazione ha cominciato a mettere sotto pressione l’economia, e la situazione è stata ulteriormente aggravata dalle conseguenze della guerra in Ucraina. L’aumento del costo delle materie prime, dei generi alimentari e dell’energia ha ridotto le entrate delle aziende, la grave crisi dei commerci mondiali e della “supply chain” sta facendo aumentare i costi, e in vari paesi, come negli Stati Uniti e nel Regno Unito, è in corso una crisi della manodopera: per convincere le persone ad accettare alcuni lavori meno qualificati, le aziende sono costrette ad alzare i salari (la cosa non è chiaramente un male, ma dal punto di vista dei conti dell’azienda si tratta di una spesa in più). Nel tentativo – a volte impacciato – di salvaguardare i profitti, le aziende cercano di far ricadere il costo dell’inflazione sui consumatori aumentando i prezzi dei loro prodotti, con la conseguenza che i consumatori comprano meno.
Questi fenomeni stanno mettendo in difficoltà molti settori economici, e stanno provocando una conseguente reazione dei mercati: per esempio, negli scorsi giorni negli Stati Uniti è crollato il settore della grande distribuzione, con catene come Target e Walmart che hanno fatto registrare grossi ribassi in borsa dopo aver reso pubblici risultati economici peggiori delle attese.
Il problema è che non soltanto l’inflazione, ma anche e soprattutto la sua cura è pericolosa per i mercati.
Arrivano le banche centrali
Davanti all’aumentare dell’inflazione, per la prima volta da oltre vent’anni le banche centrali hanno cominciato ad alzare in maniera consistente i tassi d’interesse, cioè i tassi con cui prestano denaro alle altre banche: storicamente, è l’unico modo certo con cui l’inflazione può essere messa sotto controllo. Hanno alzato i tassi la FED americana e la Banca centrale britannica, mentre la BCE lo dovrebbe fare probabilmente entro l’estate.
Mettere sotto controllo l’aumento dell’inflazione è fondamentale per la salute di un’economia ed è uno dei compiti principali delle moderne banche centrali. Ma un effetto collaterale dell’aumento dei tassi è che tutta l’economia subisce un rallentamento complessivo. Semplificando molto, con tassi più alti fare investimenti diventa meno conveniente, e prendersi rischi economici più pericoloso: diventa più costoso chiedere un mutuo per comprare una casa, un prestito per comprare un’auto, o un finanziamento per aprire una nuova impresa. Il risultato è che spesso consumatori e imprenditori rimandano gli investimenti, provocando un rallentamento dell’economia.
Per questo il compito dei banchieri centrali è particolarmente delicato: devono “raffreddare” l’economia a sufficienza da mettere sotto controllo l’inflazione, ma non troppo, per non rischiare una recessione (è per questo, per esempio, che la BCE ancora esita ad alzare i tassi, anche se ha fatto capire che presto lo farà).
L’aumento dei tassi (o anche soltanto l’aspettativa di un loro aumento) ha spaventato i mercati per varie ragioni: dalla fine della crisi del 2008–2011, le politiche monetarie delle banche centrali estremamente generose e concentrate sulla crescita avevano consentito alle borse di crescere a livelli incredibili e realizzare guadagni eccezionali. I mercati sapevano che anche se l’economia fosse andata male, o se qualche settore produttivo fosse crollato, le banche centrali sarebbero accorse per salvarlo. Questa specie di garanzia psicologica negli Stati Uniti aveva anche un nome: FED Put, cioè una garanzia contrattuale che garantisce una limitazione delle perdite (Put), emessa dalla FED. Ovviamente la banca centrale americana non fornisce garanzie di nessun tipo, ma il senso è che le sue politiche per un decennio hanno dato enorme sicurezza agli investitori.
Inoltre, il basso costo del denaro (cioè il fatto che per chiedere in prestito dei soldi si pagano interessi molto bassi) favorisce gli investimenti, soprattutto quelli rischiosi. Esattamente come conviene chiedere un mutuo quando i tassi sono bassi, allo stesso modo conviene comprare titoli e azioni anche di aziende molto giovani o poco testate: con i mercati in continuo rialzo, le prospettive di fare grossi guadagni sono molto buone. Con i tassi bassi, fare scommesse rischiose costa meno, ed è più facile ripianare eventuali perdite quando una scommessa finisce male.
Per dieci anni le politiche monetarie delle banche centrali hanno sia incentivato sia garantito (non ufficialmente, ma a livello psicologico) la crescita dei mercati.
Ma quando le banche centrali hanno annunciato che avrebbero cambiato paradigma, e che il loro obiettivo non era più sostenere l’economia ma controllare l’inflazione alzando i tassi, anche a costo di frenare la crescita economica, tutto il fruttuoso meccanismo che aveva sospinto le borse per un decennio si è spezzato. Fare investimenti è più rischioso, anche perché la garanzia informale fornita dalle banche centrali è venuta meno, e poiché la crescita mondiale è affaticata le aspettative di profitto sono ridotte.
I primi a subire il contraccolpo sono stati gli investimenti più rischiosi e speculativi, come per esempio le criptovalute, che in questi mesi hanno avuto un crollo notevole: dallo scorso novembre il bitcoin ha perso la metà del suo valore, e altre criptovalute hanno fatto ancora peggio.
Un’altra conseguenza delle decisioni delle banche centrali è che gli investitori si sono accorti, soprattutto negli Stati Uniti, che molti titoli borsistici hanno quotazioni gonfiate e sopravvalutate per le attuali condizioni di mercato. Questo vale soprattutto per le aziende tecnologiche, le cui quotazioni sono spesso basate sulle aspettative di crescita più che sulla crescita reale.
Un esempio è Tesla, che è il produttore di automobili di maggior valore al mondo perché i mercati hanno scommesso che in futuro diventerà una delle aziende più importanti del settore, anche se attualmente non è nemmeno tra le prime dieci per numero di auto vendute. Ma non è un caso che, ora che l’ottimismo dei mercati sta venendo meno, le azioni di Tesla abbiano perso circa il 40 per cento del loro valore da gennaio a oggi.
In generale, e soprattutto negli Stati Uniti, negli ultimi anni l’entusiasmo sui mercati è stato tale che i prezzi delle azioni sono saliti enormemente e il valore di moltissime aziende ha finito per essere sovrastimato. Secondo i dati di Robert Shiller, un noto economista di Yale, a gennaio il rapporto tra la valutazione delle aziende dello S&P 500 e i loro effettivi guadagni era più alto di quanto non fosse subito prima della grande crisi del 1929 (ma ancora più basso del momento in cui scoppiò la bolla dei titoli tecnologici, nel 1999).
Quanto durerà
Tra gli esperti e gli osservatori il grande ribasso borsistico è ancora difficile da valutare, ma semplificando si può dire che ci sono due ipotesi principali.
C’è chi dice che il malessere dei mercati sia soltanto passeggero. Nonostante le prospettive di crescita ridotte, i fondamentali economici dei mercati occidentali rimangono buoni, e anche il grande calo di questi mesi deve essere messo in prospettiva: è vero che dall’inizio del 2022 Google ha perso circa il 20 per cento del suo valore, ma è anche vero che dall’inizio della pandemia il valore dell’azienda era quasi raddoppiato, e il bilancio complessivo rimane molto positivo.
Come ha notato sul Foglio Stefano Cingolani, anziché preoccuparci per il grande ribasso dovremmo apprezzare il fatto che nonostante una guerra in Europa, una pandemia globale e il ritorno dell’inflazione le economie mondiali stiano reagendo ancora decisamente bene: «Siamo di fronte a una frenata non a un crollo», scrive Cingolani.
La teoria alternativa è che questo aggiustamento sia un vero cambio di paradigma, che muterà in maniera graduale ma duratura l’approccio dei mercati: come ha scritto il New York Times, «la festa è finita e potrebbe volerci molto tempo prima che ricominci». L’idea è che almeno finché le banche centrali non avranno messo sotto controllo l’inflazione (e nessuno sa quando succederà, ma potrebbe volerci un po’) non ci saranno più le condizioni per gli enormi rialzi che abbiamo visto in questi anni.
Ciò non significa che il mercato non crescerà, o che stiamo andando incontro a una crisi, ma che i guadagni saranno più modesti, la crescita più moderata. Se nel corso dell’ultimo decennio i rendimenti medi annuali dello S&P 500 erano stati di circa il 17 per cento, per i prossimi anni gli analisti si aspettano che saranno vicini al 5 per cento, un calo di due terzi. «Dopo anni in cui i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sono diventati più poveri, ora nessuno diventerà molto più ricco con la borsa», ha detto un economista al New York Times.