Le tre donne del fascismo
Le descrive Giacomo Papi nel suo nuovo libro "Italica", che ricostruisce il Novecento italiano attraverso 30 racconti di scrittrici e scrittori
Italica è il nuovo libro di Giacomo Papi, scrittore, giornalista e collaboratore del Post, appena pubblicato da Rizzoli. Ripercorre la storia italiana dal Novecento a oggi attraverso 30 racconti scritti da importanti autrici e autori contemporanei ai fatti narrati: Mario Soldati sull’omosessualità durante il fascismo e Curzio Malaparte sul sostegno alla dittatura, Elsa Morante sulle leggi razziali e Italo Calvino sulla vita in fabbrica, Giorgio Scerbanenco sulla fine delle case chiuse e Luciano Bianciardi sull’arrivo della pillola contraccettiva, Pier Vittorio Tondelli sugli anni Ottanta, la Milano da bere e l’eroina di massa, e Andrea G. Pinketts su Mani Pulite.
I primi 27 racconti, scrive Papi, «corrispondono ai classici capitoli dei libri di storia», gli ultimi tre «sono profezie in cui fu immaginato il futuro, cioè il nostro presente, quando doveva ancora accadere»: la società della pubblicità e degli influencer da Primo Levi, la crisi del patriarcato da Anna Rinonapoli e l’arrivo della pandemia da Dino Buzzati.
Ogni racconto è preceduto da un’introduzione scritta da Papi che aiuta a inquadrarlo nell’epoca in cui era ambientato, mescolando i fatti importanti che si leggono sui libri di storia a curiosità, aneddoti, spaccati di costume, dati e statistiche, oltre che ricordi e osservazioni personali dell’autore.
Papi spiega che i racconti, un genere letterario abbastanza trascurato in Italia, non sono stati selezionati soltanto per la loro bellezza – anche se molti, specifica, «sono tra i più belli del secolo» – ma soprattutto per la loro capacità di «mostrare i passaggi cruciali avvenuti nella politica e nel costume in Italia». Sono stati scelti solo autori non viventi, mentre le scrittrici sono meno numerose degli scrittori perché «nel Novecento anche la letteratura è stata un’attività in prevalenza maschile». È anche vero che il libro, oltre a presentare una rilettura della storia attenta anche alla condizione e agli interessi delle donne, dà spazio a scrittrici poco note: per esempio Mura, ora poco letta ma autrice di best seller in epoca fascista, tanto che fu un suo romanzo a dare il via alla censura in Italia, oppure Rosa Rosà, autrice di un primo romanzo di fantascienza futurista e femminista.
Di seguito l’introduzione di Papi a Le Manie di Mura, che ricostruisce la vita delle donne sotto il fascismo, ingabbiate nel ruolo di mogli e madri o di prostituite, mentre il mondo andava in tutt’altra direzione: verso il lavoro, l’emancipazione, i grandi magazzini traboccanti di vestiti, la vita delle città, le sale da ballo, le riviste femminili, film e le canzoni che esaltavano la femme fatale.
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La donna italiana (1930)
Sotto il fascismo le donne ricche conquistarono più libertà, ma quelle povere furono considerate bestiame da riproduzione o da monta. La scelta era se servire la Patria facendosi rinchiudere in casa a far gli o nei bordelli che il regime non autorizzava ma tollerava e moltiplicava reprimendo la prostituzione per strada. Ma mentre il Duce celebrava la madre di famiglia, la modernità chiamava, chiamavano la città e i nuovi mestieri, i telefoni, le canzoni della radio, il cinematografo e le sale da ballo, le riviste femminili e i grandi magazzini traboccanti di vestiti, balocchi e profumi. La moda celebrava la donna fatale – libera, emancipata, spregiudicata – a cui le altre aspiravano e che i maschi fascisti, nonostante i proclami, desideravano.
Al censimento del 1931, il primo con macchine perforatrici per elaborare i dati, le donne furono 21 milioni e 160 mila su una popolazione complessiva di 41 milioni e 652 mila, 5 milioni in più che nel 1901. Quell’anno nacquero 1.026.197 bambini di cui 52.304 illegittimi. Si celebrarono 276.035 matrimoni, ma il 7,3 per cento dei mariti e l’11,7 per cento delle spose non firmarono l’atto perché analfabeti. Tra il 1921 e il 1940 le domande di separazione coniugale furono 87.431, il doppio rispetto al ventennio precedente. Nel 1901 una donna su due non sapeva scrivere, nel 1921 una su cinque, ma il divario tra i sessi continuava a essere spaventoso. Rispetto al 1901 c’erano 1 milione e 500 mila posti di lavoro in più, tutti per gli uomini: su 19 milioni di occupati censiti nel 1931, Anno IX E.F., le donne erano 5 milioni, 300 mila in meno che all’inizio del secolo.
La politica nei confronti delle donne seguì una strategia avvolgente e ambigua. Sul voto femminile, per esempio, Mussolini fu ondivago. Nel 1925 fece approvare una legge che lo concedeva per le amministrative; sfortunatamente, però, dal 1926 le elezioni amministrative furono abolite, insieme a tutte le altre. L’accerchiamento avanzò per regi decreti. Nel 1923 si proibì alle donne la direzione di scuole medie e convitti, nel 1926 l’insegnamento di filosofia, letteratura, storia ed economia alle superiori e nel 1938 «l’assunzione di personale femminile agli impieghi pubblici e privati» fu limitata al 10 per cento del totale.
La cornice ideologica dei provvedimenti era stata chiarita da Mussolini alla Camera nel discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927: «Bisogna quindi vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia». Il programma era semplice, in fondo: per fare grande l’Italia le donne dovevano fare più figli, produrre italiani. I giornali di regime iniziarono a parlare di «peste demografica» e a lanciare allarmi sul dilagare della “famigliuola” benché nel 1936 la famiglia media fosse composta da 4,3 componenti, poco meno dei 4,5 del 1901.
Quello che invece avveniva, e che il fascismo rilevava, era l’abbandono delle campagne: dal 1921 al 1936 si spostarono in città 326 mila donne contro 228 mila uomini. Andavano a servizio o in fabbrica dove si lavorava di più (300 giorni all’anno rispetto ai 185 dei campi) e si guadagnava il 30-40 per cento in meno dei maschi, non la metà come in agricoltura. E in città di domenica ci si poteva anche divertire. Il settimanale illustrato «La Piccola italiana» trabocca di bambine vanitose che finiscono in strada perché sognano il cinema e smaniano per andare in città. La libertà delle donne povere passava dal lavoro, la loro sottomissione dalla maternità. Come scrisse Mussolini nel 1934 sul «Popolo d’Italia» in un articolo intitolato Macchina e donna, il lavoro «ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta un’indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto».
Il lavoro femminile andava limitato al fare figli o alla soddisfazione dei maschi. Nel Codice Rocco del 1930 l’aborto o «il contagio di sifilide o blenorragia» sono collocati nella nuova categoria dei «delitti contro la integrità e la sanità della stirpe» che, in quanto tali, potevano essere considerati politici. Il destino della razza passava, cioè, dal controllo del corpo delle donne. Fu per preservare la razza tutelando la salute dei maschi che il regime inasprì le pene per le “veneri vaganti”, spingendole nelle case di tolleranza dove erano periodicamente visitate da medici chiamati “tubisti”. Per il regime i bordelli servivano a combattere il «dilagare delle malattie veneree» e a soddisfare «le esigenze fisiologiche dei soldati» e di tutti i maschi in tempo di pace, ma anche a tracciare un confine tra donne buone e cattive, tra madri e puttane. Per entrambe le tipologie, l’addestramento iniziava nell’infanzia e continuava fino alla morte. Nel 1925 fu istituita l’Opera nazionale per la maternità ed infanzia a cui seguì, l’anno successivo, l’Opera nazionale Balilla dove le bambine entravano come Figlie della lupa a sei anni e ne uscivano Giovani fasciste a ventuno.
Tra le «vere madri italiane» glorificate da Mussolini e gli «orinatoi di carne» (l’espressione è attribuita a Giovanni Papini), la modernità insinuava un terzo tipo di donna, minoritario in termini numerici, ma dominante nel cinema, alla radio e sulle riviste femminili, che era libera, disinibita ed elegante, perfino perversa. La «donna di tipo tre», inventata nel 1929 dallo scrittore Umberto Notari, «nuova creatura di sesso femminile, frutto diretto della macchina». Sfogliando riviste come «La Donna», «Cordelia», «Grazia», «Eva», «Moda», «Fili-Moda», «Lei» ci si rende conto che l’ideale della donna era già molto lontano dalla figura di Rachele Guidi, la moglie del Duce, e più vicino a quello di Margherita Sarfatti, l’amante intellettuale ebrea. Perfino sul «Popolo d’Italia» c’erano le “Pagine delle signore” e i modelli dell’ultima ora.
Nel 1931 furono prodotte 34.272 tonnellate (erano 1.480 nel 1921) di tessuti artificiali ricavati dalla cellulosa, come il rayon, o viscosa, «il più moderno dei tessuti italiani e il più italiano dei tessuti moderni», che serviva a confezionare abiti per signora e divise in orbace sintetico.
Le manie è un breve racconto di Mura, pseudonimo di Maria Assunta Giulia Volpi Nannipieri, l’unica scrittrice che nel Ventennio contese il successo di Liala. Fu pubblicato nel 1925 sulle «Grandi Firme», un quindicinale diretto da Pitigrilli che arrivò a vendere 300 mila copie pubblicando racconti dei più grandi scrittori italiani e stranieri. Mura scriveva con allegria del desiderio femminile, del piacere di farsi palpare da un medico o di essere corteggiata da una donna senza che il regime avesse nulla da ridire fino al 1934 quando Mura raccontò l’amore tra una vedova italiana bionda e un ingegnere africano nero, proprio mentre l’Italia preparava la campagna d’Etiopia. Il romanzo era Sambadù, amore negro e sviluppava un lunghissimo racconto già apparso nel 1930 sulla rivista «Lidel» (Niôminkas amore negro). Mussolini si infuriò a tal punto che il 3 aprile 1934 mandò ai prefetti una circolare firmata di suo pugno – la 442/9532 – per ordinare agli editori di aspettare il nulla osta prima di pubblicare qualsiasi libro. Fu l’inizio della censura in Italia. Mura morì il 16 marzo 1940 a Stromboli, quando il suo aereo partito da Tripoli, dove era andata a trovare l’amante Alessandro Chiavolini, già segretario particolare del Duce, si schiantò contro un costone di roccia. Aveva quarantotto anni.
(© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano – Published by arrangement by The Italian Literary Agency)
Giacomo Papi presenterà “Italica” alla Rizzoli Galleria di Milano il 26 maggio alle 18:30