La storia di Marco Donat-Cattin, terrorista e figlio di un ministro
Un nuovo libro racconta la celebre vicenda del membro di Prima Linea e di suo padre, dirigente della DC, e il loro rapporto
Quella di Marco Donat-Cattin, dirigente alla fine degli anni Settanta dell’organizzazione armata Prima Linea, e di suo padre Carlo, importante esponente della Democrazia Cristiana e più volte ministro della Repubblica, è una storia importante ed emblematica. L’ha raccontata di recente un libro pubblicato da Einaudi e scritto dalla storica Monica Galfré, Il figlio terrorista – Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione. È una storia di padri e di figli, di conflitti, di una rivolta generazionale che diventò anche una sorta di resa dei conti. Ma è anche una storia che riguarda le contraddizioni all’interno di una famiglia che in quegli anni erano comuni a molte altre, nonché di quelle all’interno della classe politica dell’epoca.
Quello dei Donat-Cattin – si pronuncia cattèn, perché avevano origini francesi – fu uno scandalo che coinvolse l’allora presidente del consiglio Francesco Cossiga, ed è una vicenda da conoscere per capire cosa furono i cosiddetti “anni di piombo in Italia”, che cosa comportò il terrorismo non solo per la storia d’Italia, ma anche all’interno di comunità più piccole, per quanto riguarda gli affetti e i rapporti tra le persone.
Come scrive nel libro Galfré, «a distanza di 40 anni, spenti da tempo i riflettori e i clamori, il caso Donat-Cattin ci appare una storia in grado di fotografare, in un’unica istantanea, il dramma del terrorismo e l’Italia nel dramma del terrorismo». Al suo interno contiene, secondo la storica, «i sentimenti e i grandi temi della vita, in primo luogo il dolore e la morte, subiti e inflitti».
Il 1980 fu l’anno più sanguinoso di quel periodo. Il 6 gennaio a Palermo la mafia aveva ucciso Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, fratello dell’attuale presidente della Repubblica; il 12 febbraio venne ucciso all’Università La Sapienza di Roma Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura; sempre a Roma, sei giorni dopo, un gruppo di fascisti uccise lo studente di sinistra Valerio Verbano; a Milano il 19 marzo fu assassinato da Prima Linea il magistrato Guido Galli mentre a Genova, il 28 marzo, le forze speciali dei carabinieri fecero irruzione in un appartamento di via Fracchia e uccisero quattro esponenti della colonna genovese delle Brigate Rosse. Due mesi dopo, il 28 maggio a Roma, venne ucciso dai terroristi fascisti dei Nar il poliziotto Francesco Evangelista, mentre a Milano la Brigata XXVIII marzo assassinava il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. Il 23 giugno morì assassinato dai Nar il magistrato Mario Amato; il 2 agosto una bomba messa dai neofascisti provocò la strage alla stazione di Bologna, in cui morirono 85 persone. E il 27 giugno 81 persone morirono nella strage di Ustica quando un aereo DC-9 della compagnia Itavia precipitò per cause che ancora oggi non sono state accertate.
Quell’anno vi furono molte altre vittime: magistrati, carabinieri, poliziotti, docenti, giornalisti, guardie carcerarie. Ma Il 1980 fu anche l’anno che segnò l’inizio della fine della stagione più pesante del terrorismo. Il 2 febbraio a Torino venne arrestato Patrizio Peci, militante delle Brigate Rosse: fu il primo “pentito” a collaborare con la giustizia. Ammise le sue responsabilità ma fornì soprattutto nomi, indicazioni dei covi, programmi delle BR.
Il 7 maggio 1980 il quotidiano Paese Sera nella sua edizione pomeridiana aveva un titolo a tutta pagina: “Il figlio di Donat-Cattin fa parte di Prima Linea”. Carlo Donat-Cattin era allora vicesegretario unico della Democrazia Cristiana. Ex partigiano bianco, cioè appartenente alle formazioni combattenti cattoliche, era stato ministro dell’Industria e, prima, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. Leader della sinistra democristiana era stato l’autore, nei primi mesi del 1980, di un documento programmatico chiamato “il preambolo” in cui proponeva che la DC abbandonasse la strada degli accordi con il Partito comunista italiano e stringesse nuovi accordi invece con il Psi di Bettino Craxi.
Donat-Cattin aveva quattro figli: Claudio, Maria Pia, Paolo e Marco. Quest’ultimo, nato nel 1953, si era sposato giovanissimo e aveva avuto un figlio a soli 17 anni, Luca. Marco, iscritto a Giurisprudenza a Torino, aveva militato nei primi anni Settanta in organizzazioni della sinistra e a partire dal 1976 partecipò alla costituzione dell’organizzazione armata Prima Linea, che divenne il gruppo armato di ispirazione comunista più forte dopo le Brigate Rosse: fu responsabile di 16 omicidi e di un numero doppio di ferimenti.
La notizia uscì su Paese Sera dopo che già da tre giorni sul quotidiano Il Messaggero venivano pubblicati stralci dei verbali delle deposizioni di Patrizio Peci. Il Messaggero aveva parlato di un nome «grosso-grossissimo», senza mai citare però esplicitamente Donat-Cattin. Per la pubblicazione di quei verbali venne arrestato il giornalista del Messaggero Fabio Isman, che rimase in carcere 131 giorni. Dopo di lui venne arrestato Silvano Russomanno, vice direttore dell’Ufficio affari riservati del ministro dell’Interno, accusato di aver dato al giornalista i verbali di Peci.
Quei verbali iniziarono a essere pubblicati anche dal quotidiano Lotta Continua, che lo stesso 7 maggio era uscito con un’edizione speciale di 16 pagine sull’interrogatorio di Peci. In corrispondenza di una pagina mancante era scritto “Manca un figlio”. Il direttore di allora, Enrico Deaglio, disse che si era trattato di un lapsus: doveva esserci scritto “Manca un foglio”.
Peci in realtà nei suoi interrogatori aveva parlato poco di Marco Donat-Cattin. Lui era delle Brigate Rosse, Donat-Cattin di Prima linea. A parlare molto fu invece Roberto Sandalo, arrestato il 29 aprile, ex di Prima Linea poi passato alle Brigate Rosse. Sandalo, figlio di un operaio della Fiat e amico di Donat- Cattin, era soprannominato Roby il pazzo. Dopo gli anni di carcere, si avvicinò alla Lega Nord ed entrò a far parte della Camicie Verdi Padane, poi fu responsabile nei primi anni Duemila di attentati anti islamici. Fu nuovamente arrestato nel 2008, morì in carcere a Parma nel 2014.
Sandalo iniziò a parlare subito con i magistrati e raccontò tutto di Marco Donat-Cattin. Disse che era uno dei dirigenti di PL, che ne era stato uno dei fondatori, che il suo nome di battaglia era comandante Alberto e che proprio in quei mesi, assieme ad altri, aveva deciso l’uscita da Prima Linea. Disse anche che Donat-Cattin aveva partecipato, il 29 gennaio 1979, all’omicidio del giudice Emilio Alessandrini, assassinato mentre era in auto, fermo al semaforo tra via Muratori e viale Umbria a Milano. A sparare furono Donat-Cattin e Sergio Segio; Michele Viscardi e Umberto Mazzola erano di copertura.
Ma soprattutto, Sandalo raccontò che la mattina del 25 aprile, quattro giorni prima di essere arrestato, era stato chiamato dalla madre di Marco Donat-Cattin che gli aveva chiesto di andare a casa sua. Ecco il verbale di quella deposizione così come riportato nel libro di Monica Galfré:
«Il senatore si presentò in pigiama e mi squadrò ben bene. Poi mi disse: “Senta Sandalo, quel Peci a Pescara ha fatto il nome di mio figlio; ha parlato di una uscita da PL capeggiata dal figlio del ministro e si è capito subito che si trattava di mio figlio; ho saputo che a Pescara si sono venduti i verbali per due milioni a copia, i cancellieri o chi per essi; ieri sera Cossiga, nel suo studio privato, per essere sicuro che nessuno ci ascoltasse mi ha detto: Carlo, dal ministero degli Interni ho saputo che tuo figlio è stato tirato in ballo”».
Poi Sandalo precisò:
«Un momento, la frase precisa del senatore Donat-Cattin fu questa: “Dal ministero degli Interni ho saputo che il generale Dalla Chiesa, che conosco bene da anni, ha detto che Peci ha tirato in ballo mio figlio”. Il senatore Donat-Cattin disse ancora: “Cossiga mi ha anche detto «Noi cercheremo di tenere la notizia coperta il più a lungo possibile; tu vedi se riesci a farlo andare all’estero. Un conto è che lo prendano; un conto è che sia all’estero»”. Quindi il senatore Donat-Cattin mi disse: “Sai trovarlo? Possiamo partire subito, anche senza scorta, posso rischiare”».
Francesco Cossiga era allora presidente del Consiglio, e il suo presunto coinvolgimento nella vicenda provocò un grande scandalo.
La magistratura torinese trasmise gli atti al Parlamento. I reati ipotizzati erano rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento. Giancarlo Pajetta, dirigente del Pci, disse: «Cercavano i terroristi tra i nipoti di Marx, ne hanno trovato uno tra i figli di Donat-Cattin». Deputati e senatori riuniti dovevano decidere se far giudicare Cossiga, in qualità di presidente del Consiglio, dalla Corte Costituzionale. L’ipotesi fu bocciata con 507 no e 416 sì. Cossiga negò di aver avvertito Donat-Cattin. Altri pentiti confermarono poi che Marco Donat-Cattin era fuggito lasciando l’Italia solo il 7 maggio 1980, dopo aver visto gli articoli sui giornali. Lo stesso Donat-Cattin disse, dopo essere stato arrestato: «Alla mattina (del 7 maggio, ndr) comprai Lotta Continua e lessi il verbale che era stato pubblicato. Non compariva il mio nome ma io compresi…».
In quei mesi con la vicenda della famiglia Donat-Cattin si aprirono discussioni e inchieste sui giornali. Ha scritto Monica Galfré in un articolo su Domani:
«Per Moro si era parlato di “parricidio”. Lo scandalo Donat-Cattin suona come una chiamata di correo non solo per la classe politica ma anche per l’istituto della famiglia, fulcro del paese. I giornali insistono sull’odio di tipo psicanalitico che Marco nutrirebbe nei confronti di quel padre tanto ingombrante quanto assente, emblema di una politica sempre più lontana dal cuore pulsante delle cose. Ma il problema si mostra subito più diffuso, riguarda famiglie di giornalisti, politici, professionisti, non esclusi i comunisti. E appare una resa dei conti tutta al maschile, tra padri e figli, che sancisce il crollo finale della società patriarcale, in un mondo in cui il potere è però ancora tutto degli uomini».
Luigi Pintor, fondatore del Manifesto, si interrogò poi su quale fosse il ruolo e l’identità di Marco Donat-Cattin in questa storia:
«Di quale giovane si tratta, che cosa ha fatto, qual è la sua storia, la sua personalità, il suo operato? Chi se ne frega. Questo Marco non esiste, non ha identità, è semplicemente il figlio di Donat-Cattin… quale pacchia, quale occasione di volgarità per tutti giornali che sparano titoli, per i politicanti di ogni specie che si scambiano i ruoli di colpevolisti o innocentisti, per gli specialisti delle ascendenze politico-astrologiche del terrorismo».
Marco Donat-Cattin venne arrestato in Francia il 20 dicembre 1980, e tre mesi dopo venne estradato in Italia. Si dichiarò subito disposto ad ammettere le sue responsabilità e a rispondere alle domande, ma non a fare il nome di altre persone. Fu un cosiddetto “dissociato”, uno dei primi.
Il processo a suo carico si chiuse con una sua dichiarazione: «Chiedo perdono a tutti per il male che ho commesso. Ora mi trovo di fronte alle madri, ai padri, alle spose, a tutti i parenti delle persone a cui ho tolto la vita, a quanti hanno sofferto per il male che ho commesso. Non credo di poter dire molto, oltre che di fronte penso di avere soltanto l’angoscia di un abisso privo di luce. Per cui anche se non lo spero chiedo a tutti perdono».
Marco Donat-Cattin, in virtù del contributo dato dalle sue dichiarazioni, venne condannato a otto anni di reclusione. Ottenne gli arresti domiciliari a fine 1985; tornò libero il 24 dicembre 1987.
Per tutto il periodo in cui il figlio fu detenuto, Carlo Donat-Cattin accompagnò la moglie ai colloqui senza però entrare mai in carcere. Quando chiesero a Marco se il padre avesse commesso errori, lui rispose: «Gli sbagli sono miei … tutta colpa mia e delle idee che tenevo in capa».
In carcere Marco Donat-Cattin iniziò un percorso personale con l’aiuto di suor Teresilla Barillà, che si dedicava ai detenuti, ai pentiti e ai dissociati, di Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio, ucciso dalle Brigate Rosse, e di don Antonio Mazzi. Donat-Cattin si impegnò nella comunità Exodus di don Mazzi e nell’Opera Don Calabria, istituto di recupero per tossicodipendenti. A fine febbraio 1987 si presentò a sorpresa nella sede milanese dell’Opera Don Calabria, dove era ospite suo padre, che dopo essersi dimesso nel 1980 da tutti gli incarichi e aver passato anni lontano dalla politica era diventato, nel 1986, ministro della Sanità. Quel giorno c’era anche la madre, Amelia: con lei l’abbraccio fu caloroso, con il padre ci fu solo una stretta di mano. Carlo Donat-Cattin chiese al figlio: «Ma ce l’hai il permesso di essere qui?». In realtà Marco non aveva chiesto il permesso al giudice di sorveglianza. Per quella violazione, tornò provvisoriamente in carcere.
Disse don Mazzi parlando di Marco: «Si buttava nelle cose a capofitto. Da noi, al centro di recupero dei tossicodipendenti, dava tutte le sue forze, con entusiasmo. Dei suoi trascorsi in Prima Linea, parlava malvolentieri: aveva forti rimorsi, viveva con dolore il ricordo di quegli anni. Una volta, mentre mi raccontava un episodio, è stato male fino a vomitare».
La notte del 20 giugno 1988 Marco Donat-Cattin stava viaggiando verso Roma; aveva trascorso il fine settimana con la sua compagna e il figlio che aveva avuto da pochi mesi. A Roma doveva raggiungere il fratello Paolo, impresario teatrale: stava iniziando ad affiancarlo nel lavoro. Sull’autostrada Milano-Venezia venne coinvolto in un tamponamento, all’altezza dell’uscita Verona Sud, scese dall’auto e vide una donna che stava chiedendo aiuto perché il marito era ferito. Donat-Cattin andò da lei, e insieme cercarono di bloccare le altre auto: ma una Lancia Thema arrivata molto veloce li prese in pieno. Marco e la donna furono trascinati per centinaia di metri e morirono sul colpo. Disse don Mazzi: «il suo più grande desiderio era di essere perdonato, o almeno incontrare la vedova di Emilio Alessandrini. Ma non è stato possibile. Purtroppo è morto prima che riuscissimo a trovare una strada di pace e conciliazione».
Il funerale si tenne nella chiesa di Santa Giovanna d’Arco, a Torino. Il quotidiano La Repubblica raccontò che la sorella di Marco, Maria Pia, lesse un’orazione composta da don Barella, un assistente diocesano torinese: «Signore, che io sia liberato dall’angoscia, sia cancellato dalla faccia della terra e giudicato da te. Piuttosto che vivere ed essere calunniato è meglio raggiungere la tua volontà». Con don Mazzi al funerale c’erano tre ex compagni di Prima Linea di cui il sacerdote non volle però rivelare il nome.