I doppiatori dei suoni
Quello dei rumoristi è un lavoro antico e artigianale, rimasto abbastanza uguale nel tempo e che non si preoccupa granché del futuro
di Gabriele Gargantini
Non sempre, nel cinema, i suoni sono quello che sembrano. Condizionati dalle immagini e dalla trama, davanti a una storia di finzione gli spettatori sospendono la propria incredulità e si convincono di sentire qualcosa mentre in realtà sentono altro. Il suono di un sedano che si rompe somiglia a quello di un osso spezzato, un sacchetto di plastica può simulare un temporale, due bacchette di bambù possono sostituire le zampe di un roditore, alcuni gusci di noci di cocco possono sembrare gli zoccoli di un cavallo, con sabbia e amido di mais si può ricreare quel caratteristico e in apparenza inconfondibile rumore di passi sulla neve, uno sgabello può diventare una carrozza.
È una questione di suggestione sensoriale e di predisposizione da parte degli spettatori a credere alla finzione del cinema, senza pensare alla tecnica che ci sta dietro, o a quanto sia bizzarro, da certi punti di vista, il fatto stesso che esista il doppiaggio. L’Italia, un paese storicamente avverso ai sottotitoli, celebra spesso quella che considera la sua “grande scuola del doppiaggio”. Si parla invece meno dei rumoristi, i doppiatori di quei suoni e di quei rumori che per questioni tecniche e pratiche non si possono o non si vogliono registrare in presa diretta durante le riprese di un film, scegliendo quindi di ricrearli in seguito in studio.
Il mestiere dei rumoristi è per molti versi artigianale e ancora assai analogico, ed è uno di quei lavori di cui si può dire che se non lo si nota, allora è fatto bene. In molti suoi aspetti è ancora molto simile a com’era quando fu inventato circa un secolo fa a Hollywood da un uomo che ebbe l’idea giusta al momento e nel posto giusto, e il cui cognome come vedremo è diventato il sostantivo con cui in inglese ci si riferisce ai rumoristi.
Oltre a essere artigianale e cinematograficamente antico, quello del rumorista è un mestiere che richiede un ottimo orecchio, tanta inventiva, buona manualità, precisione, una certa propensione per il movimento e un notevole senso del ritmo. È inoltre un lavoro anche molto fisico: anzitutto perché uno dei rumori più comuni da ricreare è quello dei passi, e poi perché per farne tanti altri c’è spesso bisogno di battere, sbattere, percuotere, grattare, strofinare o sventolare, oppure usare il proprio corpo per prendere cose a pugni, buttarsi per terra, rotolarsi, correre o saltare.
I rumoristi lavorano in stanze che sono qualcosa di simile al peggior incubo di chi ama armadi e scaffali organizzati e minimalisti, senza troppi oggetti qua e là. Sono infatti studi pieni di materiali, oggetti e indumenti vari, che però tornano utili per fare certi rumori. Possono sembrare caotici garage o mercatini dell’usato (molto usato), ma sono studi di registrazione fatti e finiti, solo con molte cianfrusaglie sparse qua e là.
Mauro Eusepi, rumorista quarantenne, tra i migliori in Italia, parla del suo luogo di lavoro come di uno «studio di registrazione musicale con pareti foderate di scaffali per contenere oggetti». A proposito di passi, nel suo studio ci sono, tra le tante altre cose, un paio di «buche» dentro cui mettere terra o, all’occorrenza, «erba, sassi, sassolini, ghiaia, grano, fieno» o qualsiasi cosa serva per poi camminarci sopra. Ovviamente con le calzature giuste: nello studio, prosegue Eusepi, «ci saranno dieci scarpe da ginnastica, dieci da uomo col tacco, dieci tacchi a spillo da donna, cinque stivali da donna, cinque paia di infradito», e poi altre ancora, dalle calosce alle scarpe da calcio.
Di recente Eusepi ha avuto da fare con la seconda stagione della serie Sky Romulus, che è ambientata sette secoli prima di Giulio Cesare ed è quindi piena di «spade, scudi, carrozze e cavalli», e nella quale c’è «parecchio da inventare». Siccome nella serie ci sono anche alcune «armature fatte di ossa», a Eusepi è capitato di dover andare dal suo macellaio per farsene dare un po’ da usare in studio.
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Seppur con mezzi e approcci diversi, i problemi con cui Eusepi e gli altri rumoristi hanno a che fare sono simili a quelli dei loro predecessori. Perché nel cinema il doppiaggio dei rumori è tanto vecchio quanto il sonoro e, con l’arrivo dei suoni, il problema di come ricrearli in postproduzione si pose subito. Un problema per il quale Jack Donovan Foley – l’uomo diventato sostantivo – aveva una soluzione.
Foley era nato a New York nel 1891, prima delle prime proiezioni dei fratelli Lumière. All’inizio del Novecento si spostò in California e lì lavorò in un negozio di ferramenta. Riuscì poi a trovare qualche lavoro come stuntman, controfigura e location scout, cioè chi cerca e suggerisce i luoghi in cui girare i film. Iniziò anche a lavorare come regista di piccoli cortometraggi e, nel frattempo, a realizzare alcune vignette umoristiche che prendevano in giro il mondo del cinema e chi ci lavorava.
Foley, senza dubbio un uomo dalle tante passioni e dagli svariati talenti, si mise anche a girare quei piccoli inserti – in genere primi piani, per esempio di una mano che impugna una pistola o di un bicchiere in frantumi – che altri non avevano tempo o voglia di girare, ma che in fase di montaggio tornavano spesso comodi.
Negli anni Venti, con l’arrivo del sonoro, il cinema cambiò tanto e in fretta. All’improvviso, tutti i più grandi film dovevano avere il suono per non sembrare obsoleti e servivano persone che di quei suoni si potessero occupare. Ci furono persino casi in cui film girati per essere muti furono riadattati per essere almeno in parte sonori.
Probabilmente intuendo le enormi prospettive della faccenda, Foley si occupò proprio di questo. Fu tra i primi a farlo, e divenne ben presto il migliore: si racconta che avesse una grande creatività e un ottimo orecchio, ma soprattutto la capacità di enfatizzare e reinterpretare i suoni immedesimandosi nei passi di un attore così come un doppiatore faceva con la sua voce. I film a cui aggiungere suoni divennero sempre di più e nel tempo a lui si aggiunse un’intera squadra di professionisti alle sue dipendenze, in quello che per semplicità qualcuno prese a chiamare il “reparto Foley”.
Dopo una vita professionale inizialmente molto movimentata, fino a poco prima della sua morte, nel 1967, Foley non lavorò ad altro che ai suoni e ai rumori dei film, in una carriera piena di aneddoti: per Spartacus, film del 1960 diretto da Stanley Kubrick, riuscì per esempio, solo con i piedi e un po’ di portachiavi, a ricreare i suoni prodotti da centinaia di schiavi intenti a camminare con le caviglie incatenate.
Gli indubbi meriti di Foley non furono granché celebrati o raccontati, in parte perché lavorò in un periodo in cui Hollywood puntava a nascondere il più possibile la “macchina” che stava dietro ai film, con l’idea che rivelarla avrebbe fatto venire meno l’illusione del cinema.
Ma tra gli addetti ai lavori dei rumori cinematografici – molti dei quali erano di fatto suoi ex apprendisti che poi si erano messi in proprio – la sua figura fu ammirata e ricordata al punto che chi faceva un lavoro come il suo, anche non avendolo mai conosciuto, era ed è tuttora noto come foley artist.
In Italia, il mestiere di quelli che oltre che rumoristi anche qui continuano a essere chiamati foley artist fu codificato nel secondo dopoguerra, negli anni d’oro di Cinecittà. Intervistato da Elena Dova per il libro Creatori di suoni, Italo Cameracanna – uno dei più grandi rumoristi italiani di sempre – ha ricordato che il primo foley artist italiano fu «un tale di nome Rocco»: «un pioniere, il primo a riprodurre i tuoni con grancassa e lastre di metallo e la pioggia con un cerchio di plastica con della sabbia dentro che girava». Cameracanna, appartenente a una delle famiglie di rumoristi italiani (un lavoro da bottega che in più di un’occasione è passato di padre in figlio) ha raccontato che a fine anni Sessanta, quando cominciò lui, «le lavorazioni erano abbastanza veloci» e si potevano fare «250/300 film all’anno».
Per molti decenni, i rumoristi furono profondamente associati alle loro valigie. Non avendo studi di registrazione in cui ricevere filmati e aggiungere rumori, erano infatti loro a spostarsi dove serviva tra uno studio cinematografico e l’altro. «Nelle valigie» ha detto Cameracanna «c’era tutto quello che poteva servire per il film».
Anche per l’Italia gli aneddoti rumoristici sono tanti, molti dei quali legati ai film di Sergio Leone, che univa una maniacale attenzione ai dettagli a uno spiccato interesse per musiche e, su influenza di Ennio Morricone, rumori. Per il rumore di un mulino a vento all’inizio di C’era una volta il West, Cameracanna sfruttò il cigolio di una porta e il rumore di una catena di bicicletta non particolarmente scorrevole.
Massimiliano Prezioso – sound editor, sound designer e presidente dell’Associazione Creatori di Suoni – spiega che nella sua associazione i rumoristi veri e propri sono circa dieci. In tutto, in Italia, sono probabilmente il doppio, non molti di più. Tra loro, ce ne sono che lavorano da decenni, alcuni dei quali «hanno anche tra i 75 e gli 80 anni e fanno questo lavoro per passione, con anima, cuore e ingegno, tuttora inventando». Prezioso ne parla come di persone che «fanno di questo mestiere un’arte».
Ma sebbene i foley artist italiani con meno di trent’anni praticamente non esistano, il loro non è un lavoro che sembra destinato a scomparire, sostituito da algoritmi e suoni digitali. Prezioso è infatti convinto che «almeno per i prossimi cento anni i foley artist continueranno a esserci», perché sebbene microfoni migliori e software appositi permettano maggiori possibilità sia nella presa diretta del suono che nella sua ricreazione e rielaborazione digitale, «certe cose vanno ancora fatte come una volta».
Da un lato il lavoro si è fatto più semplice: «un tempo» dice Prezioso «le lavorazioni duravano mesi e col magnetico ogni cosa andava registrata in modo analogico». Se per esempio uno stesso suono serviva tre volte, lo si doveva registrare tre volte. Dato che un tempo le tracce sonore utilizzabili erano giusto un paio, tanti suoni diversi andavano fatti in un’unica sessione: per esempio calzando due diverse scarpe ai piedi, così da ricreare due camminate diverse in una sola sessione.
Allo stesso tempo, però, anche in conseguenza degli impianti sempre migliori con cui si ascoltano i film, sono aumentate le aspettative di produttori, registi e spettatori.
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Marco Ciorba ha 34 anni, è uno dei più giovani rumoristi italiani e già uno dei migliori in attività. È figlio di Aldo Ciorba, che morì nel 2011 e che lavorò a L’albero degli zoccoli, a La vita è bella, a Travolti da un insolito destino e a film diretti da Vittorio De Sica e Roberto Rossellini. Un rumorista storico, da cui molti hanno imparato e che è stato descritto come «un uomo che Fellini chiamava Maestro».
Seguendo il padre, Marco Ciorba iniziò a lavorare come foley artist circa quindici anni fa e ha avuto modo di confrontarsi e con i rumoristi di almeno tre generazioni precedenti alla sua, il tutto però in un cinema evidentemente diverso e più moderno. «La differenza tra prima e adesso» spiega «è che prima il rumorista doveva creare da zero qualsiasi rumore: uno come Tonino Caciuottolo [uno storico rumorista italiano] faceva anche le sparatorie e i sibili delle pistole», mentre adesso di suoni di quel tipo si occupano, sempre in postproduzione, altri tipi di professionisti. La qual cosa, dice Ciorba «alleggerisce il lavoro del rumorista, ma non lo sostituisce».
Ci sono insomma meno suoni-per-film da fare, ma continuano sempre a essercene. Ora, prosegue Ciorba, nel caso di una sparatoria a cui aggiungere suoni, chi monta gli effetti (il foley editor) si occupa del rumore del «colpo che arriva addosso al petto», mentre un rumorista come lui continua a occuparsi del rumore «del sangue che esce dal petto».
Ciorba racconta di essersi trovato a fare, di recente, i rumori di …altrimenti ci arrabbiamo!, rifacimento di un celebre film del 1974 a cui aveva lavorato proprio suo padre. E dice: «differenza non ce n’è stata chissà quanta». Una è che un tempo si faceva «il suono dall’inizio alla fine», mentre ora c’è bisogno di «integrarsi al suono della presa diretta».
Alle volte si continuano a usare tecniche del passato – «gli ortaggi li ho usati tutti», dice Eusepi – mentre in altre situazioni gli approcci restano simili ma cambiano gli strumenti. «Ho fatto da poco un film tutto sui cavalli» dice Ciorba «e ho usato di tutto tranne che le noci di cocco, perché se nel 2022 fai il rumore degli zoccoli del cavallo con le noci di cocco, il suono risulta finto».
Per farlo, tra le altre cose, Ciorba ha riempito una piccola piscina di terra per poi usare strumenti vari – compresi ferri di cavallo, un posacenere e uno sturalavandini – per ricreare il rumore prodotto dai cavalli, non registrato in presa diretta sul set.
Tecnologia a parte, non è cambiato granché neppure il modo in cui i contenuti da “doppiare” arrivano negli studi di rumoristi come Eusepi o Ciorba, che da qualche tempo sta lavorando alla realizzazione di un grande studio di circa 150 metri quadri che ricrea le stanze di una casa, tutto dedicato alle necessità di un foley artist.
I film o gli episodi di serie tv arrivano tutti interi o più spesso in cosiddetti rulli da 10 o 20 minuti. Dopodiché, in collaborazione con uno o più foley editor (i fonici che stanno dall’altra parte di un vetro, davanti a computer e console), i rumoristi si mettono al lavoro, ricreando quel che serve con quel che hanno, oppure procurandosi il necessario. Per poi montare tra loro tutti i suoni e i rumori di ogni scena.
Eusepi – che di recente ha lavorato a film e serie sia di Amazon che di Sky, e in passato ha fatto il foley artist per Loro, Il primo re e Dogman – parla, in media, di «tre giorni di lavoro su ogni singolo rullo. «Per un film» dice Ciorba «posso metterci una settimana così come un mese».
I foley artist fanno anzitutto i passi. È una parte importate del loro lavoro – già Foley stimò di aver fatto, nella sua pluridecennale carriera da rumorista, qualcosa come ottomila chilometri di passi – ed è qualcosa che non viene registrato in presa diretta sul set, dove addirittura si usano spesso appositi feltrini sotto le scarpe per evitare che quei rumori vengano anche solo in parte registrati.
Dopodiché, fatti i passi, i rumoristi passano ad altri tipi di suoni, che a seconda del genere e dell’ambientazione del film possono variare molto. Alcuni sono parecchio evidenti e peculiari, altri fanno invece parte del paesaggio sonoro di una scena, come il rumore dell’aria, del frigorifero in funzione o di un computer acceso.
Al variare dei film e delle esigenze dei registi cambia anche il modo in cui certi rumori sono solo suggeriti o invece accentuati, sottolineati ed esaltati. In certi casi gli zoccoli o le ossa rotte non devono infatti suonare come nella realtà, ma invece come gli spettatori, formati da anni di visioni, si aspettano che suonino. Esiste proprio un tropo cinematografico noto come coconut effect, l’effetto cocco.
Nelle orecchie e nelle teste di molti spettatori che non hanno mai preso pugni in pancia o preso parte a un combattimento con spade laser, i pugni in pancia e le spade laser fanno un certo tipo di rumore, ed è quel rumore che si tende a ricreare. A volte bisogna invece inventarsi come ricreare una camminata sulla neve, perché si sta lavorando da Roma ad agosto, dove la neve risulta difficile da reperire.
Altre volte si scelgono oggetti diversi da quelli originali perché i suoni giusti non per forza sono migliori. Un concetto ben spiegato da un’efficace parodia di qualche anno fa:
Eusepi e Ciorba concordano con Prezioso sul fatto che, sebbene stia cambiando, del loro lavoro continuerà a esserci un gran bisogno. Non esistono veri e propri corsi, lo si può imparare affiancando chi già lo fa, magari dopo aver seguito corsi più generali sulla postproduzione del suono. Prezioso ci tiene inoltre a sottolineare come, anche nel mondo del cinema (per esempio tra chi assegna i premi) il lavoro dei foley artist sia stato in passato spesso trascurato, insieme a diversi altri relativi a tutto ciò che riguarda il sonoro cinematografico.
Oltre alle competenze e alla dedizione – «devi essere disposto a stare al buio, in silenzio, dieci ore al giorno, senza contatti col mondo esterno» dice Ciorba – servono poi «un orecchio allenato» e la capacità di metterci, quando serve, «emozione e delicatezza», perché «così come fai un soldato con l’armatura che corre nel bosco, fai pure il bambino di 15 chili che corre nell’altra stanza». Una considerazione simile a quanto disse anni fa suo padre Aldo:
«Se vuoi diventare rumorista, devi startene in sala per ore e ore, a guardare e provare. Devi scoprire se riesci a stare in silenzio, a non produrre sospiri o fruscii. Devi scoprire se riesci a lavorare in sincrono con i movimenti degli attori, e non solo. Devi imparare a scegliere il rumore giusto con gusto. Devi essere in grado di fare una scelta di qualità. Io imparo sempre, e continuamente mi stupisco scoprendo. Tu puoi essere più bravo di me e non saperlo! È un’arte, solo provando puoi scoprire il tuo talento».