Le riletture queer di Louisa May Alcott
Secondo nuove interpretazioni l’identità di genere e l’orientamento sessuale dell’autrice di “Piccole donne” potrebbero non essere quelli a lei tradizionalmente attribuiti
Quando uscì, tra il 1868 e il 1869, Piccole donne ebbe un successo immediato vendendo cinquantamila copie solo nei primi mesi. Era una storia perfetta per le giovani donne di buona famiglia per cui era stato scritto: raccontava delle quattro sorelle March, che da bambine diventavano adolescenti e poi adulte, dell’importanza della famiglia, dei loro amori, matrimoni, talenti e sentimentalismi. Ancora oggi è considerato un classico della letteratura “femminile” per l’infanzia e moltissime giovani si immedesimano nella protagonista, Jo, e nelle sue sorelle. L’autrice però, Louisa May Alcott, non era affatto una sentimentalista: per l’epoca, si comportava in modo tutt’altro che “femminile” ed era stata cresciuta in un contesto estremamente anticonformista. Come fa notare Beatrice Masini nel suo ultimo libro, uscito ad aprile e dedicato alla storia della scrittrice, definì più volte Piccole donne «una pappetta moralistica».
Al contrario del suo personaggio “alter ego” Jo March, Louisa May Alcott non si sposò mai. Trascorse la vita a lavorare per mantenere la propria famiglia di origine, spesso a corto di denaro, e in diverse occasioni parlò di sé come di un uomo intrappolato nel corpo di una donna. Negli ultimi anni su blog, social network, forum online, ma anche nell’ultimo film tratto dal romanzo, la storia di Alcott è stata riletta da alcuni con una chiave queer, e cioè contemplando la possibilità che la sua identità di genere e il suo orientamento sessuale non fossero quelli che vengono tradizionalmente definiti femminile o eterosessuale.
Josephine (Jo) March, la secondogenita protagonista di Piccole donne, è il personaggio più famoso di Louisa May Alcott e da sempre è considerata una rappresentazione romanzata dell’autrice. Come lei, è la seconda di quattro sorelle, una scrittrice che lavora soprattutto per guadagnare soldi e mantenere la propria famiglia, e come lei manifesta fin da piccola un profondo disagio nei confronti dei limiti imposti alle donne dalla società del tempo. Nel libro, Jo dice alle sue sorelle che non riesce a superare la delusione di non essere un ragazzo, tanto che Beth, la terza sorella, le risponde: «Prova ad accontentarti di accorciarti il nome per farlo da maschio, e a fare da fratello a noi ragazze». Nel romanzo Alcott descrive quello che fa Jo usando il termine gentlemanly, “da gentiluomo” e Laurie, l’amico affezionato delle sorelle che le chiederà di sposarla e verrà rifiutato, si riferisce spesso a lei chiamandola fellow, compagno.
Jo non è il solo personaggio di Alcott a incarnare questa urgenza: Sylvia Yule, la protagonista di un romanzo precedente e molto meno famoso, Mutevoli umori (Moods), era a sua volta descritta come un tomboy, un maschiaccio.
In un’intervista Alcott disse: «sono più che mezzo convinta di essere un’anima maschile messa per qualche scherzo della natura in un corpo di donna» e in altre occasioni disse che voleva essere un uomo per poter partire per la guerra. In Louisa May Alcott di Beatrice Masini, si legge che invecchiando nelle foto Alcott assume un’aria neutra, quasi maschile, «ma aveva quattordici anni quando scriveva: “Sono nata con uno spirito da maschio sotto grembiale e collarino”».
Naturalmente queste testimonianze non bastano per affermare che Alcott o la protagonista di Piccole donne avessero un’identità di genere diversa da quella femminile. La condizione delle donne nell’Ottocento era tale che affermare di voler essere uomo poteva essere semplicemente un modo per esprimere la volontà di avere una libertà che all’epoca avevano solo gli uomini. In generale, Alcott era molto consapevole delle discriminazioni nei confronti delle donne, tanto che alla fine degli anni Quaranta si interessò alla questione dell’estensione del diritto di voto, diventando la prima a iscriversi negli elenchi per l’elezione di un consiglio d’istituto scolastico nella città di Concord, dove viveva. E successivamente, scrisse più volte di questioni femministe per la rivista Atlantic Monthly.
Ma c’è chi ha ipotizzato che oltre queste affermazioni ci fosse di più e che Louisa May Alcott non abbia vissuto la propria vita da donna. È la conclusione a cui è arrivato Peyton Thomas, un autore americano transgender che tra le altre cose ha un podcast su Piccole donne e che ha dedicato gli ultimi due anni a fare ricerche su Alcott prima di arrivare a questa conclusione.
In un lungo testo pubblicato su Twitter, Thomas ha scritto – scegliendo di riferirsi ad Alcott usando il maschile – che «il nome “Louisa May Alcott” è diventato sinonimo di femminilità, ma non è un nome con cui qualcuno nella sua vita l’ha mai realmente chiamato e la femminilità è una cosa con cui lui esplicitamente non si identificava, persino nel diciannovesimo secolo». Thomas spiega che i parenti di Alcott la chiamavano Lou, Lu o Louy e che il padre in uno scritto la chiama «mio figlio». Alcott parla talvolta di sé in relazione ai propri figli adottivi definendosi padre o “papa”.
Alcott visse in una famiglia estremamente libertina anche per i giorni nostri: suo padre, Amos Bronson Alcott, era un insegnante con un approccio innovativo all’istruzione e un filosofo trascendentalista, mentre la madre Abby May era un’attivista e assistente sociale. Per un periodo, vissero insieme ad altre famiglie nella comune agricola “Utopian Fruitlands”, che però non durò a lungo. Non è così impensabile, quindi, l’ipotesi di Thomas che la famiglia di Alcott avesse assecondato il suo desiderio di vivere come un uomo.
Alcott firmò molti dei propri scritti con nomi maschili o usando solo le iniziali, ma questa scelta era molto diffusa tra le scrittrici del tempo ed era dovuta principalmente allo svantaggio che le autrici riscontravano in ambito editoriale. Nel libro di Masini si legge che l’editore scrisse chiaramente ad Alcott «mandatemi qualunque cosa, quadretti o novellette di cui non desiderate la paternità o di cui volete che A.M. Bernard [lo pseudonimo con cui si firmava a volte] o qualunque altro uomo sia responsabile e se mi piacciono li acquisterò».
Thomas scrive anche che «le lettere e i diari di Lou sono pieni di riferimenti espliciti al suo desiderio di essere un ragazzo o un uomo – e anche di rari riferimenti al fatto di essere un uomo». Aggiunge di aver raccolto le testimonianze di alcuni studiosi dell’autrice, tra cui Jan Susina, che si è detto convinto che Alcott avesse sperimentato la disforia di genere, cioè il disagio fisico e psicologico che hanno alcune persone che non si riconoscono nel genere attribuito loro alla nascita.
Riguardo all’orientamento sessuale di Alcott, Thomas dice che negli archivi «c’è parecchio materiale a sostegno dell’attrazione esclusiva per le donne, della bisessualità e dell’asessualità. I suoi sentimenti oscillavano molto, ma chiaramente non era una donna eterosessuale». In un’intervista, Alcott raccontò di essere rimasta nubile perché nella vita «mi sono sempre innamorata di molte ragazze carine, ma mai una volta di un uomo».
Definire l’identità di genere o l’orientamento sessuale di Louisa May Alcott dopo un secolo e passa dalla sua morte e con il poco materiale che abbiamo potrebbe sembrare inutile o anacronistico, ed è in qualche modo presuntuoso. In generale, parlare di persone vissute in passato usando termini che allora non esistevano e che sono propri della società e della cultura contemporanee (come “transgender”) non è corretto, perché è inevitabilmente approssimativo e impone a persone che non possono più dire la loro delle categorie che nemmeno conoscevano. Non potremo mai sapere davvero come Alcott si sentisse, e come vivesse la sua vita. Tuttavia fare ipotesi diverse sulla sua identità di genere può essere un modo per rileggere le sue opere con un nuovo punto di vista, forse più utile a comprenderle.
L’esempio diventato più noto è l’incongruenza tra come Alcott avrebbe voluto far finire Piccole Donne e come ha poi dovuto concluderlo per poterlo pubblicare. Il romanzo infatti uscì in due parti, e dopo il successo della prima molte lettrici scrissero all’editore dicendo che avrebbero voluto vedere Jo sposata. L’autrice non voleva che la sua protagonista si sposasse e si impose per non cedere al matrimonio con Laurie, che molti si aspettavano. Ma l’editore insistette e così Alcott decise di chiudere il secondo volume facendo sposare Jo con il professor Bhaer, un uomo più grande di lei con cui aveva soprattutto un forte legame intellettuale.
L’ultima trasposizione cinematografica del romanzo, quella uscita nel 2019, scritta e diretta da Greta Gerwig, ha esplicitato questa parte della storia dell’autrice, restituendo in qualche modo ad Alcott la sua idea originale. Per tutto il film, la storia di Jo March e quella del suo libro, che altro non è che lo stesso Piccole donne, si sovrappongono. Nel finale del film si vede Jo insistere per non far sposare la propria eroina, esattamente come fece Alcott e coerentemente con quanto ripetuto da lei per tutto il libro. L’editore le risponde che le lettrici vogliono vedere le donne sposate, non coerenti, e che il finale migliore è sempre quello che vende. Jo cede all’editore e da quel momento il film prosegue con un finale evidentemente patinato e hollywoodiano, in cui la protagonista dà alle lettrici (e alle spettatrici) il finale romantico che avevano chiesto e che avrebbe avuto successo, ma che a quel punto del film si sa non essere la vera scelta di Jo.
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Questo finale fa pensare che la volontà della regista e sceneggiatrice Greta Gerwig fosse restituire ad Alcott, per quanto possibile, la storia originale che le era stata negata. Dopo l’uscita del film furono pubblicati diversi articoli sui giornali americani (per esempio su BuzzFeed News e The Mary Sue) che sostenevano che a Gerwig dovesse essere riconosciuto il merito di aver aperto alla possibilità che Jo March non fosse stata immaginata dalla sua autrice come una donna cisgender ed eterosessuale.
In altre scene, infatti, Gerwig mostra di conoscere la storia dell’autrice e di voler dare al film alcune sfumature che Alcott avrebbe forse apprezzato o addirittura nascosto tra le righe. Per esempio, quando nel copione descrive il ballo tra Jo e Laurie dicendo che «a volte Jo è la donna e a volte l’uomo – e lo stesso vale per Laurie» o quando Beth si riferisce a Jo chiamandola «fratello». Quando Laurie diventa amico delle sorelle March, la loro madre, Marmee, gli suggerisce di prendere parte ai loro spettacoli casalinghi, ma aggiunge: «Dovrai litigare con Jo per i ruoli maschili, o fare la donna». Sono piccoli dettagli che valorizzano alcuni punti significativi del romanzo, senza di fatto stravolgere la storia o imporre una rilettura definitiva del personaggio di Jo.
Infatti, se è possibile, come sostiene Thomas, che Alcott riuscì a vivere almeno parte della propria vita da uomo, è certamente vero che come scrittrice rimase confinata alla letteratura per ragazzi, o meglio per ragazze. Masini scrive che dopo essere diventata famosa, le poche volte che comparve in pubblico ne uscì irritata e stanca: «o è una posa, o assomiglia terribilmente all’imbarazzo di chi non ama essere identificato con ciò che fa».