Si vota in Libano, e non si sa bene cosa aspettarsi
Sono le prime elezioni dopo le grandi proteste degli anni scorsi, ma l'opposizione è divisa e c'è grande incertezza sulle alleanze
Oggi, domenica 15 maggio, si tengono le elezioni parlamentari in Libano, le prime dopo una serie di eventi recenti che hanno sconvolto il paese: dall’ultimo voto, nel 2018, il Libano ha vissuto le grandi proteste antigovernative del 2019, la devastante esplosione nel porto di Beirut del 2020 e una gravissima crisi economica che ha portato tre quarti della popolazione libanese sotto la soglia di povertà.
Anche a causa del rigido sistema confessionale che vige nel paese, in cui la distribuzione dei seggi in Parlamento è predeterminata in base all’appartenenza alle varie comunità religiose, ci sono scarse aspettative che le elezioni riusciranno davvero a garantire la necessaria stabilità politica. Nonostante questo, rispetto al 2018 ci sono due grandi novità: il ritiro dalla politica dell’ex primo ministro Saad Hariri, che potrebbe creare un vuoto di potere nella comunità musulmana sunnita, e la formazione di numerosi partiti di opposizione e protesta nati dalle manifestazioni popolari degli ultimi anni, che potrebbero spostare almeno parte degli equilibri.
Le elezioni del 2018 furono vinte da Hezbollah, il gruppo armato radicale sciita vicino all’Iran, e dai suoi alleati. Hezbollah, che già prima era la principale forza della politica libanese, dopo le elezioni scorse ha ampliato ulteriormente il suo potere, prendendo il controllo di molte istituzioni.
Hezbollah, nato negli anni Ottanta come movimento di resistenza all’occupazione israeliana del Libano, è uno dei partiti politici più influenti nel paese e dispone tra le altre cose di una forza militare superiore allo stesso esercito libanese. È considerato un gruppo terroristico da diversi paesi occidentali (tra cui gli Stati Uniti) e da Israele, con cui nel 2006 combatté una guerra.
La terribile amministrazione di questi anni, unita alla pessima gestione delle varie crisi, potrebbe penalizzare la coalizione legata a Hezbollah, anche se per come funziona il sistema politico libanese è praticamente impossibile attribuire delle vere responsabilità: tutti i governi sono di fatto una coabitazione forzata tra esponenti di più comunità religiose, tanto che alle ultime elezioni, benché Hezbollah avesse vinto la maggioranza dei seggi in Parlamento, il ruolo di primo ministro fu comunque occupato da un suo avversario, il capo della coalizione sunnita Saad Hariri, semplicemente perché il sistema politico prevede che la carica vada sempre a un sunnita (mentre il presidente della Repubblica deve sempre essere un cristiano).
Proprio attorno alla figura di Hariri ruota la principale novità politica di queste elezioni: Hariri, che è stato primo ministro a più riprese tra il 2009 e il 2020 e per anni figura di riferimento della comunità sunnita, una delle più importanti del paese, all’inizio di quest’anno ha annunciato il suo ritiro dalla politica e ha annunciato che il suo partito Movimento del futuro, che con 20 seggi è il secondo più grande dell’attuale Parlamento, non si sarebbe presentato.
Il ritiro di Hariri costituisce la principale incognita di queste elezioni: benché esistano altri partiti sunniti in Libano, nessuno è in grado di prendere completamente il posto del Movimento del futuro e c’è il rischio che molti elettori sunniti boicottino il voto. Per cercare di riempire il vuoto, alcuni deputati vicini a Hariri potrebbero agire da indipendenti, ma c’è anche la possibilità che altri partiti come Hezbollah ne approfittino: poiché nel Parlamento libanese ci dev’essere comunque una certa quota fissa di deputati sunniti, Hezbollah potrebbe per esempio allearsi con politici sunniti per prendersi i seggi precedentemente occupati dal Movimento del futuro.
L’altra grossa novità di questa elezione è la formazione di decine di partiti e movimenti nati dalle proteste popolari del 2019 e poi del 2020, che hanno tra i loro obiettivi la rigenerazione della classe politica libanese, la fine del sistema di divisione settario del potere e in generale un cambiamento complessivo dell’élite del paese, considerata corrotta e inadeguata. Benché tutti questi movimenti siano spesso benintenzionati, sono eccezionalmente divisi tra loro su tantissimi temi, dalle riforme economiche necessarie al rapporto con Hezbollah. Alle elezioni, dunque, hanno finito per presentarsi divisi.
È piuttosto complicato tenere traccia di tutti i movimenti di opposizione e protesta che si sono presentati alle elezioni. Tra i principali ci sono il partito Cittadini in uno Stato, noto anche come Kadreen, e il Fronte dell’opposizione libanese, che in realtà è una coalizione tra movimenti di protesta e partiti istituzionali.
Benché dunque, secondo i sondaggi, oltre il 12 per cento della popolazione si dica disposto a votare per un partito di protesta, e il 20 per cento voglia votare candidati «indipendenti» dalla politica settaria, a causa della divisione e dell’assenza di un leader carismatico è molto probabile che una parte consistente del voto di protesta finirà sprecato. La soglia di sbarramento per consentire a una lista di entrare in Parlamento, inoltre, è altissima: il 10 per cento. Come ha scritto Foreign Policy, gli attivisti riterranno un successo se 10 o 20 deputati dei loro gruppi (su 128 totali) riusciranno a entrare in Parlamento.
Più in generale, la frammentazione politica a queste elezioni è elevatissima: le liste che si sono presentate sono più di 100, e i candidati oltre 700, il 20 per cento in più rispetto alle elezioni precedenti.
In questo contesto, e a meno di sorprese, è molto difficile che le elezioni libanesi potranno fornire un quadro chiaro e stabile. Il rischio principale è che il paese debba vivere altri anni di forte instabilità, e che a beneficiarne saranno i partiti tradizionali che hanno governato il Libano negli ultimi decenni.