Gli inceneritori fanno male?
Cosa sappiamo dei danni per la salute causati dagli impianti che bruciano rifiuti
Annunciando la costruzione di un inceneritore per risolvere i problemi di rifiuti di Roma, il sindaco Roberto Gualtieri ha riaperto il dibattito sull’uso di questi impianti, chiamati anche termovalorizzatori per sottolineare che producono energia bruciando la spazzatura. Le riflessioni sul tema devono tenere conto di vari aspetti, tra cui le dimensioni di un inceneritore, il modo in cui si integra nel più ampio sistema di smaltimento dei rifiuti e di riciclo, e il suo impatto ambientale in termini di emissioni di gas serra, quelle che causano il cambiamento climatico.
Per molte persone tuttavia l’aspetto più preoccupante degli inceneritori è quello che riguarda la salute, dato che in passato il loro uso causava la produzione di metalli pesanti, diossine e altre sostanze a cui è stato ricondotto un aumento del rischio di sviluppare alcune forme di tumore (a stomaco, colon, fegato e polmoni). Gli impianti di più recente costruzione tuttavia sono diversi da quelli novecenteschi e devono rispettare standard molto più rigidi sulla diffusione di inquinanti: grazie a queste migliorie le cose sono molto cambiate.
Oltre all’anidride carbonica, che è il principale gas serra ma non ha effetti negativi diretti per la salute, l’attività degli inceneritori produce una serie di sostanze inquinanti, alcune comuni a tutti i processi di combustione, altre specifiche di quella dei rifiuti. Nella prima categoria rientra il particolato, l’insieme delle sostanze solide e liquide che restano sospese nell’aria in particelle con un diametro fino a mezzo millimetro, e che sono prodotte anche dalle industrie, dagli impianti di riscaldamento a gas e dal traffico stradale: la loro presenza nell’atmosfera può indurre problemi agli apparati respiratorio e circolatorio. Ci sono poi il diossido di zolfo (SO2), gli ossidi di azoto e il monossido di carbonio (CO): sostanze tossiche o ritenute cancerogene.
Sono cancerogeni anche gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), che appartengono alla seconda categoria, insieme ad esempio ad alcuni metalli pesanti come cadmio e mercurio e alle diossine.
Negli anni le norme sulle emissioni di queste sostanze sono state aggiornate più volte, sia a livello europeo che italiano, e sia le industrie che gli inceneritori devono rispettare limiti stringenti per ognuna di esse, usando sistemi di filtraggio. I limiti sono fissati nei cosiddetti BREF, una serie di documenti di riferimento legati alla direttiva europea sulla prevenzione e la riduzione dell’inquinamento che elencano le “best available techniques” (BAT), cioè i migliori metodi tecnologici disponibili per contenere le emissioni. E per quanto riguarda l’incenerimento dei rifiuti i limiti sono più restrittivi rispetto a tutti gli altri settori industriali.
Negli ultimi vent’anni la quantità di rifiuti inceneriti è aumentata, da 2,2 milioni di tonnellate nel 2000 a 6,3 milioni di tonnellate nel 2018, secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), ma grazie a questi limiti e alle tecnologie di cui impongono l’uso, il contributo degli inceneritori per i rifiuti urbani alle emissioni di alcuni inquinanti è diminuito, anche in termini assoluti: è il caso del diossido di zolfo, del cadmio, degli IPA e delle diossine (tra le sostanze più pericolose). Per fare un esempio: nel 2000 gli inceneritori italiani hanno emesso 65,5 chili di idrocarburi policiclici aromatici, pari allo 0,1 per cento delle emissioni di queste sostanze nel paese; nel 2018 solo 3,3 chili, corrispondenti allo 0,004 per cento del totale.
Anche per le sostanze per cui nel tempo le emissioni degli inceneritori sono aumentate come quantità assoluta, il contributo in percentuale è molto basso – quello maggiore riguarda il piombo ed è pari all’1 per cento: gli impianti di riscaldamento a gas contribuiscono enormemente di più alla diffusione di particolato e monossido di carbonio, i trasporti sono i principali responsabili per gli ossidi di azoto e il settore industriale per le diossine.
Una sintesi di ciò che sappiamo sulle relazioni tra l’attività degli inceneritori più moderni e la salute delle persone che ci vivono intorno è contenuta nel Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani pubblicato nel 2020. È un rapporto commissionato da Utilitalia, la federazione delle aziende italiane che forniscono acqua, elettricità, gas e smaltimento dei rifiuti, ma realizzato da ricercatori di varie università. La parte dedicata alla salute è stata curata dal medico Andrea Magrini e dall’ingegnere Francesco Lombardi, professori dell’Università di Roma Tor Vergata, e riassume le conoscenze in materia basate su 12 studi realizzati in Italia e all’estero negli ultimi 20 anni. In sintesi la loro analisi dice che:
In base agli studi disponibili, in generale, un impianto di incenerimento ben progettato e correttamente gestito, soprattutto se di recente concezione (dagli anni 2000 in poi) emette quantità relativamente modeste di inquinanti e contribuisce poco alle concentrazioni ambientali e, pertanto, non si ha evidenza che comporti un rischio reale e sostanziale per la salute.
Tra gli studi presi in considerazione da Magrini e Lombardi c’è una serie di indagini epidemiologiche finanziate dalla Regione Emilia-Romagna (insieme alla Lombardia quella in cui ci sono più inceneritori), realizzate tra il 2007 e il 2012 per studiare le relazioni tra l’esposizione agli inquinanti emessi dagli inceneritori di rifiuti urbani e alcune condizioni mediche tra la popolazione, in particolare legate alle gravidanze e ai tumori. Gli studi non hanno trovato un’associazione tra gli inceneritori e il rapporto tra sessi alla nascita, le nascite gemellari e il peso dei neonati alla nascita, mentre hanno suggerito un’associazione con i tassi di abortività spontanea e di nascite pretermine. Bisogna però tener presente che tale associazione è stata rilevata per le gravidanze avvenute tra il 2002 e il 2006: da allora tutti gli inceneritori presi in considerazione sono stati rinnovati, aggiornando le tecnologie di filtraggio.
Per quanto riguarda i tumori, «lo studio non ha messo in evidenza una coerente associazione tra livelli di esposizione e mortalità o incidenza di tumori», nonostante abbia rilevato alcuni indizi sulla possibile cancerogenicità delle emissioni. E a sua volta ha di fatto analizzato i possibili effetti di inceneritori che successivamente sono stati ammodernati.
Un altro studio più recente, del 2018 e citato nel Libro bianco, riguarda l’inceneritore di Valmadrera, in provincia di Lecco. Lo scopo dello studio era verificare le possibili relazioni tra la residenza nelle zone vicine all’impianto (rinnovato tra il 2006 e il 2008) e l’incidenza di alcuni problemi medici, tra cui i tumori: non è stata riscontrata una frequenza particolare dei tipi di patologie generalmente associati alle emissioni di sostanze come quelle prodotte dagli inceneritori (linfomi non-Hodgkin, sarcomi dei tessuti molli, malattie cardiovascolari e respiratorie). È stata trovata una più alta incidenza di tumori al fegato e alle vie biliari tra le persone residenti nella zona più vicina all’inceneritore, ma dato che non si tratta di patologie generalmente associate all’inquinamento da inceneritore i ricercatori hanno dichiarato la necessità di ulteriori indagini per stabilirne le cause. Non è invece stata riscontrata una particolare incidenza di problemi di salute tra i neonati.
In conclusione, gli inceneritori che rispettano i BREF – e quindi a maggior ragione per quelli più recenti o ancora da costruirsi – non sono considerati fattori di rischio di cancro o di effetti negativi sulla riproduzione secondo gli studi scientifici disponibili. Il monitoraggio epidemiologico nel settore comunque prosegue: un esempio in questo senso riguarda l’inceneritore di Torino, avviato solo nel 2014, per cui esiste un programma di sorveglianza sanitaria che è iniziato con l’accensione e continua tuttora. I prossimi risultati saranno diffusi nel 2023.