La grave crisi in Sri Lanka, dall’inizio
Era economica e di recente è diventata anche politica: finora ha portato a proteste violente e alle dimissioni del primo ministro
Dalla fine di marzo in Sri Lanka è in corso una grave crisi politica che si è sommata a quella economica, che aveva già messo in grossa difficoltà il paese. Migliaia di persone hanno iniziato a protestare contro il governo, e in particolare contro i due fratelli Rajapaksa, uno presidente e l’altro primo ministro fino a pochi giorni fa, cioè fino a che non è stato costretto a dimettersi (giovedì è stato nominato un nuovo primo ministro). Soprattutto negli ultimi giorni ci sono state violente proteste, durante le quali è stato dato fuoco alle residenze di diversi politici e a cui il governo ha risposto ordinando all’esercito di sparare sui manifestanti. Ad oggi sono state uccise 8 persone e ci sono stati oltre 200 feriti.
Quelle in corso vengono considerate proteste senza precedenti nella storia del paese, così è come senza precedenti la crisi economica che le ha innescate, la peggiore dal 1948, l’anno in cui lo Sri Lanka ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. È una crisi che sta causando gravi carenze di cibo, di carburante e di medicine; il governo non solo è accusato dai manifestanti di non averla saputa gestire, ma anche di aver contribuito al suo aggravamento con anni di corruzione, scelte e investimenti sbagliati, politiche populiste e fallimentari.
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L’eccezionalità delle proteste è stata data anzitutto dalla partecipazione di diversi gruppi religiosi (buddisti, musulmani, induisti e cattolici), una cosa piuttosto rara in un paese in cui le profonde divisioni tra comunità hanno portato spesso a violenti conflitti interni. Alle manifestazioni hanno partecipato per esempio i buddisti singalesi, il gruppo etnico più grande dello Sri Lanka di cui fanno parte il presidente Gotabaya Rajapaksa e l’ormai ex primo ministro, suo fratello Mahinda Rajapaksa.
Inizialmente il gruppo aveva sostenuto i due fratelli, anche perché la loro campagna elettorale si era basata in gran parte sui richiami al nazionalismo singalese. I Rajapaksa avevano anche incoraggiato violenze e discriminazioni contro i musulmani, usando la retorica anti-islamista emersa dopo alcuni attentati compiuti nel paese da terroristi islamisti; e contro la minoranza Tamil, gruppo etnico a maggioranza induista a lungo perseguitato dai buddisti.
Nell’ultimo mese, molti di questi gruppi si sono uniti alle proteste chiedendo tutti la stessa cosa: le dimissioni del presidente e del primo ministro. I due fanno parte di una delle dinastie politiche più potenti dello Sri Lanka, che conta sette fratelli che hanno tutti avuto importanti ruoli politici o amministrativi, e che sono stati in più occasioni accusati di corruzione e nepotismo.
Dei sette fratelli il più potente è Mahinda, che si è appena dimesso da primo ministro: era al suo terzo mandato (non consecutivo) e in precedenza era stato presidente del paese per 10 anni. Le proteste non si sono fermate nemmeno con le sue dimissioni: i manifestanti hanno chiesto infatti anche quelle del presidente, i cui poteri si sono considerevolmente rafforzati negli ultimi anni, arrivando tra le altre cose a includere la nomina di cariche importanti come giudici e capi della polizia.
Nelle ultime settimane il governo ha tentato in più occasioni di minimizzare la gravità della crisi economica in corso, senza successo. Il mese scorso la Banca centrale dello Sri Lanka aveva dichiarato default e annunciato la sospensione del pagamento di parte del proprio debito ai creditori internazionali: un debito pari a 50 miliardi di dollari, più della metà del PIL, costituito soprattutto da titoli di stato, con Cina e Giappone come principali creditori.
In Sri Lanka, inoltre, il tasso d’inflazione annuale (cioè la crescita dei prezzi) ha raggiunto il 21 per cento, diventando il più alto della regione dell’Asia Pacifico. Per avere un’idea della cifra, basti pensare che la Banca Centrale Europea raccomanda di mantenere il tasso d’inflazione entro il 2 per cento.
Il risultato è stato un’impennata dei prezzi dei beni essenziali come riso e latte, una sempre maggiore mancanza di cibo e beni di prima necessità (con gli scaffali dei supermercati vuoti o quasi vuoti), così come di carburante e medicine. Ci sono state anche estese interruzioni della corrente, fino a 13 ore al giorno, e si è arrivati a sospendere le mense scolastiche per mancanza di cibo e ad annullare gli esami per milioni di studenti perché nel paese era finita la carta e il governo non aveva i soldi per garantire le importazioni.
Lo Sri Lanka, infatti, è soprattutto un paese importatore, e la crisi ha ridotto moltissimo le riserve statali di valuta estera: l’Economist scrive che quelle esistenti non bastano nemmeno a garantire una giornata intera di importazioni.
La crisi economica dello Sri Lanka ha radici piuttosto profonde: c’entrano leadership corrotte e fallimentari, incapaci di gestire sia l’economia nazionale sia le tensioni etniche e religiose, a cui si sono aggiunti negli ultimi due anni la pandemia, un aumento dei prezzi di materie prime ed energia e ora anche le conseguenze della guerra in Ucraina, che in Sri Lanka riguardano soprattutto i prezzi di carburante e grano.
Un indicatore piuttosto evidente di quanto la situazione economica fosse già grave da tempo è il debito verso i creditori internazionali: negli ultimi dieci anni è cresciuto tantissimo, passando dai 21 miliardi di dollari del 2011 agli oltre 56 del 2020, quasi il triplo. Come ha scritto India Today, i governi che si sono succeduti hanno progressivamente abbinato deficit di bilancio a indebitamenti con l’estero, arrivando a rendere lo Sri Lanka «una classica economia a doppio deficit», come disse nel 2019 l’Asian Development Bank. Nel concreto, significa che il paese è diventato sempre più povero, incapace di produrre beni e servizi commerciabili e sempre più dipendente da prestiti esteri.
Nel frattempo, tra le altre cose, non sono stati fatti investimenti per rendere il paese più indipendente dalle importazioni estere e per aumentarne e diversificarne le esportazioni.
Secondo un rapporto dell’Università di Harvard di qualche anno fa, questo è stato uno degli ostacoli principali alla crescita economica dello Sri Lanka, per esempio a causa della mancanza di iniziative per migliorare strade e infrastrutture in modo da facilitare i trasporti e rendere il paese più dinamico e produttivo. Potrebbe inoltre avere contribuito una grave mancanza di coordinamento tra i diversi organi del governo nel prendere decisioni.
Sono anche stati fatti diversi investimenti sbagliati, in strutture o progetti che non hanno generato alcun ritorno.
I casi più citati sono quelli del porto di Hambantota, e nella stessa zona dell’aeroporto internazionale Mattala Rajapaksa, intitolato alla famiglia Rajapaksa e ora noto come «l’aeroporto più vuoto del mondo»: i visitatori ci vanno per vedere l’aeroporto e i suoi ampi spazi inutilizzati, più che per transitarci. Sia il porto che l’aeroporto sono stati costruiti grazie a prestiti della Cina, che il governo non è stato in grado di ripagare dato che nessuno dei due progetti ha generato entrate sufficienti. E così il paese si è ulteriormente indebitato.
A questo si sono aggiunte la corruzione del governo, il suo uso illecito di denaro pubblico, per esempio per finanziare le proprie campagne elettorali o per destinare fondi a progetti scelti arbitrariamente. Non hanno aiutato le politiche populiste adottate dai governi. Una delle più citate è il taglio delle tasse annunciato nel 2019 poco dopo l’elezione di Gotabaya Rajapaksa a presidente: diversi osservatori la considerano una delle meno lungimiranti e più dannose del suo mandato.
All’impoverimento dello Sri Lanka ha contribuito inoltre la pessima fama del governo sul rispetto dei diritti umani, come si è visto soprattutto durante la lunga guerra civile combattuta contro i separatisti dell’organizzazione militare Tigri Tamil, che l’allora presidente Mahinda Rajapaksa dichiarò vinta nel 2009. Per via delle accuse di crimini di guerra compiuti dal governo, sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti avevano interrotto gli aiuti economici verso il paese.
Negli ultimi due anni la situazione è peggiorata a causa della pandemia. Tra le altre cose, l’imposizione delle restrizioni alla libertà di movimento ha interrotto l’arrivo di turisti, in un paese in cui le entrate relative al turismo equivalgono al 10 per cento del PIL totale. E poi, come detto, l’aumento dei prezzi di energia e materie prime.
Per far fronte alla crisi, la Banca Mondiale ha deciso di inviare 600 milioni di dollari di aiuti, che arriveranno in momenti diversi e serviranno prima di tutto per comprare medicine, cibo ed energia. Il governo sta cercando di concludere un accordo per altri aiuti col Fondo Monetario Internazionale, che tempo fa aveva definito il debito del paese «insostenibile». E anche l’India, interessata a competere con la Cina, ha promesso di inviare aiuti. Non ci si aspetta, però, che saranno interventi risolutivi.
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