Quest’anno alla Biennale di Venezia
Le cose da sapere sulla 59ma Esposizione Internazionale d’arte, riaperta ad aprile dopo tre anni di pausa forzata e curata da Cecilia Alemani
di Pietro Cabrio
Dal 23 aprile a Venezia è aperta la 59ma Esposizione internazionale d’arte, più comunemente “la Biennale”, dal nome della fondazione che la organizza. È una delle più importanti e longeve esposizioni d’arte contemporanea al mondo, e la più grande in Italia. Fu inaugurata nel 1895 su iniziativa di un gruppo di intellettuali locali e fin dall’inizio fu pensata come «una serie biennale di esposizioni artistiche, in parte libere, in parte su inviti».
La 59ma esposizione — che rimarrà aperta fino al 27 novembre — ha segnato sia il ritorno della mostra d’arte a Venezia, dopo i tre anni di pausa a causa della pandemia e dell’alternanza con la mostra biennale di architettura, sia il ritorno del pubblico a pieno regime. L’unica restrizione ancora in vigore riguarda l’uso delle mascherine, richiesto all’interno dei padiglioni, soprattutto quelli completamente chiusi.
Nel corso degli anni la Biennale si è espansa in tutta Venezia, isole della laguna comprese, ma da sempre ha come centro principale i vecchi Giardini di Castello, costruiti a inizio Ottocento su decreto napoleonico e poi conosciuti perlopiù con il nome dell’esposizione che ospitano.
Prima di essere adibiti quasi interamente alla Biennale, i giardini ospitavano, tra le altre cose, un elefante donato alla città nell’Ottocento dalla famiglia reale italiana, che i veneziani chiamavano “Toni” o il “prigioniero dei Giardini”. Entrando nel padiglione centrale — la struttura principale dell’esposizione — il pubblico viene accolto proprio dalla statua di una elefantessa, realizzata dall’artista tedesca Katharina Fritsch, premiata con il Leone d’Oro alla carriera. La statua, in quella posizione, è stata voluta dalla curatrice di quest’anno, Cecilia Alemani — già direttrice artistica del parco High Line di New York — che con un richiamo alla vecchia attrazione dei veneziani suggerisce il filo conduttore della mostra internazionale, intitolata Il latte dei sogni, che ospita le opere di 213 artisti, la maggior parte donne o di genere non binario.
Il titolo si rifà a quello di un libro per bambini della scrittrice e illustratrice britannica Leonora Carrington, ambientato in un mondo fantastico popolato da creature mutanti nate dall’immaginazione. Esempi di queste creature, rivisitate, circondano all’esterno il padiglione centrale, per poi ripresentarsi negli altri luoghi della mostra.
Partendo dall’immaginario di Carrington, Alemani ha pensato a una esposizione che si sviluppa su tre temi: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi, la relazione tra gli individui e le tecnologie, la connessione tra i corpi e la Terra. Con questi temi, la Biennale propone più in generale una visione del mondo meno antropocentrica. «Le pressioni esercitate dal cambiamento tecnologico, l’acuirsi delle tensioni sociali, lo scoppio della pandemia e l’incombente minaccia di disastri ambientali ci ricordano ogni giorno che non siamo né invincibili né autosufficienti, ma parte di una rete simbiotica di interdipendenze che ci lega gli uni agli altri, alle altre specie e al pianeta nel suo complesso» ha spiegato Alemani.
Come sempre, la mostra è affiancata dalle opere delle nazioni partecipanti, alcune proprietarie dei padiglioni espositivi che le espongono fin dagli inizi del Novecento, come Belgio, Germania, Ungheria e Regno Unito, mentre altre sono ospitate in spazi temporanei. La maggioranza dei padiglioni si trova tra i Giardini e l’Arsenale, ma se ne trovano non solo sparsi in tutta la città — dalla Giudecca a piazza San Marco — ma anche in alcune isole della laguna, come a San Servolo e sull’isola della Certosa.
Alcuni padiglioni, come quelli di Danimarca, Arabia Saudita, Svizzera, Austria, Romania e Corea del Sud, sono collegati ai temi di quest’anno, in modo anche piuttosto evidente, con installazioni che propongono creature e atmosfere immaginarie, ambienti consumati dal tempo, elementi naturali in lotta per la sopravvivenza e analisi di relazioni umane, anche intime (come si può vedere nel padiglione romeno). Quello italiano, invece, si trova all’Arsenale e a differenza delle edizioni passate ospita una sola grande opera di un unico artista, Gian Maria Tosatti. Storia della Notte e Destino delle Comete racconta in due parti la storia del miracolo economico italiano, tra scenari industriali e domestici, e con l’aiuto di alcune citazioni visive e letterarie, come le lucciole di Pasolini. L’opera si riconnette quindi al complicato rapporto tra uomo e natura.
I tanti luoghi della Biennale permettono anche di vivere la mostra in modo personale, fra esperienze diverse e apparentemente non collegate tra loro. È il caso, per esempio, del padiglione del Regno Unito, vincitore del Leone d’Oro per la miglior partecipazione nazionale, diviso in diversi spazi in cui cantanti britanniche si esibiscono, insieme o individualmente; o di quello greco, che ospita l’installazione Oedipus in Search of Colonus della regista Loukia Alavanou. Per vederla si viene accompagnati all’interno del padiglione, dove nel buio si trovano una decina di postazioni predisposte per la realtà aumentata. A quel punto, isolati dall’ambiente circostante e indossando un visore, si viene proiettati in un campo rom a Nea Zoi, nei dintorni di Atene, dove attori locali improvvisati recitano l’opera.
Un altro padiglione che si nota facilmente è quello statunitense, la cui struttura in stile neopalladiano è stata riconvertita in architettura tribale che già da lontano anticipa il tema dell’installazione, realizzata dalla scultrice Simone Leigh: le tradizioni artistiche dell’Africa e della diaspora africana.
Oltre ai padiglioni nazionali, tra i giardini e l’Arsenale si trovano cinque cosiddette capsule storiche in cui Alemani, la prima donna italiana a curare la Biennale, ha voluto riunire opere e oggetti provenienti da tutto il mondo che approfondiscono i temi della mostra e che presentano «artiste e figure culturali il cui lavoro è stato adombrato nel corso del tempo da narrazioni prevalentemente maschili».
Nell’edizione di quest’anno ha influito inoltre il contesto internazionale in cui è stata organizzata la mostra. Il padiglione russo, una delle strutture più grandi nei giardini, è chiuso: a febbraio il curatore e gli artisti si sono dimessi dopo l’invasione dell’Ucraina, annullando la loro partecipazione. A pochi metri dall’edificio russo — sorvegliato da guardie giurate dopo le proteste dei primi giorni — è stata allestita in uno spazio verde la cosiddetta “piazza Ucraina”, dove alcune opere circondano una pila di sacchi di sabbia, come quelli usati per proteggere i monumenti dai combattimenti. Il padiglione ucraino, invece, è all’Arsenale e i curatori sono gli stessi.
Gli spazi in città si sono inoltre arricchiti con l’apertura delle Procuratie Vecchie in piazza San Marco, accanto alla Torre dell’Orologio. Chiamate così perché un tempo ci vivevano i procuratori di San Marco — le più alte autorità veneziane dopo il doge — sono state restaurate dall’architetto britannico David Chipperfield e aperte al pubblico su concessione delle Assicurazioni Generali, il gruppo proprietario degli edifici, dopo quasi cinque secoli. Nello stesso periodo della Biennale, le Procuratie Vecchie ospiteranno una mostra della scultrice ucraina naturalizzata statunitense Louise Nevelson, che aveva già partecipato al padiglione americano ai Giardini. Qui tutte le informazioni utili per visitare gli eventi della Biennale.
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