Il roller derby non è solo uno sport
È praticato su pattini a rotelle soprattutto da donne, ha una cultura tutta sua e dà grande attenzione all’inclusività
di Susanna Baggio
Domenica 8 maggio, nel centro sportivo Italcementi di Bergamo, una pattinatrice della squadra di casa con scritto sulla canotta il nome Daga Death allunga il braccio verso la compagna Debby Pugnale, afferrandola, facendole prendere velocità e permettendole così di sorpassare alcune atlete della squadra avversaria. Entrambe indossano pattini a rotelle, caschetto e protezioni, e assieme ad altre tre compagne stanno giocando a roller derby contro Les Amazones (le amazzoni), che arrivano dalla Francia. L’azione, conosciuta come “frusta”, è raccontata in diretta da due commentatrici sugli spalti e diffusa dagli altoparlanti con un sottofondo di canzoni punk-rock, assieme ai fischi degli arbitri e allo stridere dei pattini sul parquet.
Debby Pugnale, che indossa una cuffia con una stella rossa, è la jammer, cioè l’attaccante delle Crimson Vipers, la squadra femminile bergamasca di roller derby, uno sport di contatto su pattini a rotelle praticato soprattutto da donne. Creato negli Stati Uniti negli anni Trenta e poi quasi scomparso, il roller derby è rinato e si è diffuso in tutto il mondo a partire dai primi anni Duemila: da dieci anni è arrivato anche in Italia, dove si è organizzato con qualche difficoltà e continua a distinguersi da altri sport per la sua inclusività, per lo spirito un po’ underground che lo caratterizza e per il senso di comunità che si crea tra chi lo pratica e tra chi lo segue.
Cos’è e come funziona il roller derby
Il campo di gioco del roller derby è una pista di forma ovale a fondo piano chiamata track. Le gare sono divise in due tempi da 30 minuti, suddivisi a loro volta in microtempi di 2 minuti (jam) in cui ogni squadra può schierare una formazione diversa composta da cinque pattinatrici, o skater. Per semplificare molto, all’inizio di ogni jam entrano in pista quattro blocker, che hanno il compito di agevolare il passaggio della propria jammer per farle fare punti, bloccando invece la jammer dell’altra squadra.
Una delle quattro blocker può avere il ruolo di pivot, cioè la giocatrice designata a prendere il posto della jammer, se stanca o in difficoltà, durante un’azione (la si riconosce perché indossa una cuffia con una striscia colorata). La jammer segna un punto ogni volta che supera con il proprio bacino quello dell’avversaria; vince la squadra che a fine partita ha ottenuto più punti.
Chiara Bosis, che fa parte delle Crimson Vipers e gioca con il nome Chiarogna, dice che molti vedono il roller derby «come uno sport molto fisico o lo percepiscono come violento, ma in realtà è molto educato» perché si basa su un regolamento e un codice di condotta piuttosto rigidi.
Chi lo pratica deve obbligatoriamente indossare caschetto, ginocchiere, gomitiere, paradenti e polsiere e, a discrezione, visiere, parastinchi o protezioni per il torace. Sono vietati sgambetti, calci, pugni, ginocchiate o gomitate, così come colpi alla testa o sulla colonna vertebrale: in sostanza, per scansare le avversarie si possono dare spallate o colpi con le anche e con la parte superiore delle gambe. Ogni violazione è considerata un fallo. Ciascun fallo ha un suo nome indicato in inglese (come elbow, nel caso delle gomitate) e comporta una sospensione di 30 secondi dalla gara per la giocatrice che lo commette; dopo 7 falli, c’è l’espulsione.
Lo sport ha molte altre regole che seguono quelle stabilite dalla Women’s Flat Track Roller Derby Association (WFTDA), l’associazione internazionale di leghe di roller derby femminili, di cui fanno parte anche alcune squadre italiane. Ad accertarsi che vengano rispettate durante ogni bout o scrimmage (il modo in cui vengono chiamate rispettivamente le gare ufficiali e le amichevoli, queste spesso miste) ci sono moltissimi giudici di gara: sette arbitri con i pattini – quattro che si spostano nella parte interna alla pista e tre fuori – e anche più di dieci NSO (“non skating officials”), che si occupano per esempio di tenere il punteggio e di compilare le statistiche.
Nel roller derby contano sia la velocità sia la strategia. Uno dei movimenti che in circostanze ideali permettono di fare molti punti è appunto la frusta, che peraltro dà il nome a Whip It, un film del 2009 diretto e interpretato da Drew Barrymore. In situazioni di particolare vantaggio o svantaggio, inoltre, la lead jammer (cioè quella che ha superato per prima una blocker avversaria nel primo giro dall’inizio del microtempo) può anche far concludere il jam prima dello scadere dei 2 minuti.
Un po’ di storia
Il roller derby è nato quasi un secolo fa, ma negli ultimi vent’anni è riemerso con qualche elemento di novità, sviluppandosi non solo come sport, ma anche come movimento con una sua cultura ben definita. La sua invenzione si deve a Leo Seltzer, un promotore sportivo di Chicago che attorno al 1935 pensò di coniugare la passione degli americani per i pattini a rotelle agli elementi spettacolari delle competizioni anche piuttosto bizzarre che si vedevano in giro per gli Stati Uniti in quel periodo, come le gare di resistenza in cui chi arrivava fino in fondo vinceva un premio.
Dapprima il roller derby fu concepito proprio come una gara di resistenza in cui squadre di due persone – solitamente un uomo e una donna – dovevano sfidarsi girando sui pattini a rotelle intorno a una pista senza mai cadere. Nel 1938 il giornalista sportivo Damon Runyon suggerì di introdurre nuove regole sperando di attirare l’attenzione del pubblico, che era divertito soprattutto dalle cadute: nacque così il sistema di punteggio assegnato a ogni sorpasso e lo sport divenne molto più veloce.
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Negli anni Cinquanta e Sessanta il roller derby fu uno sport molto popolare, trasmesso in televisione e in grado di riempire il celebre Madison Square Garden di New York; era largamente associato ad atlete donne, ma aperto anche a uomini e a persone di ogni etnia e orientamento sessuale. A partire dal 1973 però scomparve quasi del tutto per via dell’aumento del prezzo del petrolio, che rese molto difficile spostarsi in giro per gli Stati Uniti e riscaldare i palazzetti in cui si tenevano le competizioni.
Ritornò dal 2001 soprattutto grazie al Texas Roller Derby (TXRD), una versione un po’ diversa dal roller derby più diffuso, che si pratica su una pista leggermente inclinata e protetta da sbarre (quella che si vede appunto in Whip It). La prima lega del TXRD, nata ad Austin, è considerata quella che ha contribuito maggiormente non solo alla rinascita del roller derby, ma anche al suo approccio femminista e inclusivo e alla sua nuova estetica, che trae ispirazione dalla scena punk ma anche da quella del mondo “drag”. Un’altra caratteristica è l’etica del “do it yourself” (o DIY), che prevede di organizzare e gestire lo sport in autonomia, spesso contando solo sulle proprie forze.
Estetica, inclusività e questioni di genere
Negli anni Duemila cominciarono a spuntare alcuni degli elementi estetici più caratteristici del roller derby moderno, come il viso truccato con glitter e colori accesi oppure altri accessori, come bandane, calze a rete o paradenti colorati. Al tempo stesso, si rafforzò l’abitudine di usare nomi ironici, storpiati o che suggeriscono una certa aggressività per indicare sia le squadre sia gli alter ego delle giocatrici in campo.
Per fare qualche esempio oltre a quelli già citati, una delle skater della squadra di roller derby di Milano, le Harpies (le arpie), si chiama Iren Maiden, un nome che richiama la celebre band metal inglese. L’alter ego di Elena Schiavo, che ha giocato a lungo nelle Bloody Wheels di Torino (rotelle insanguinate), era Hell Hen Skelter, un riferimento a una delle canzoni più innovative scritte dai Beatles (“Helter Skelter”).
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Bosis racconta che spesso dietro agli alter ego delle giocatrici di roller derby ci sono nomi che rispecchiano la loro personalità e che funzionano un po’ come se fossero una valvola di sfogo. Anche il trucco ha un po’ questa funzione: la sua compagna Maddalena Bianchetti (in pista Berny) dice che truccarsi insieme in spogliatoio è un rito, un momento che «fa squadra» e che aiuta a stemperare la tensione.
Ogni squadra ha il proprio motto (quello delle Crimson Vipers è “Adòss, adòss, adòss”, che suppergiù significa “dai, dai, dai”) e può scegliere un inno, una coreografia o una canzone per accompagnare l’ingresso delle giocatrici sul track (le Harpies per esempio entrano con “Bandiera Gialla”, che richiama il colore della loro divisa).
Già a suo tempo Seltzer disse che il roller derby era «l’unico sport americano in cui uomini e donne erano stati creati uguali» e dove non contava avere una determinata forma fisica o una certa età. Secondo Seltzer, tra i principali elementi di fascino dello sport c’erano invece «il rumore, i colori, il contatto fisico» e il fatto che chi lo praticasse non si prendesse troppo sul serio.
Ancora oggi il roller derby è visto come uno sport in cui le donne possono rivendicare il proprio ruolo come sportive ma anche divertirsi e soprattutto sentirsi rispettate, come dimostrano il suo codice di condotta e la grande attenzione alle diversità, alle questioni di genere e alle disabilità.
Susanna Rastelli, che fa parte del consiglio di amministrazione della Lega Italiana del Roller Derby (LIRD), spiega che prima di una partita i giudici di gara chiedono sempre se ci siano persone con problemi di udito per premurarsi di indicare in modo chiaro le proprie segnalazioni. Rastelli, che gioca nelle Stray Beez di Rimini con l’alter ego di Petra Pain, racconta che la LIRD consente alle persone transgender e a quelle che si identificano in un genere diverso da quello corrispondente al sesso assegnato loro alla nascita di decidere se giocare in una squadra maschile oppure femminile, a seconda di quello che le fa sentire a proprio agio.
Attualmente in Italia c’è soltanto un campionato femminile: esiste una sola squadra maschile composta da atleti sparsi in tutta Italia che quando gioca contro squadre straniere ammette anche la presenza di donne, come del resto prevede la Men’s Roller Derby Association (MRDA), la lega internazionale di roller derby maschile.
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La nascita e l’evoluzione del roller derby in Italia
Le prime squadre di roller derby in Italia si formarono dal 2012, soprattutto grazie all’iniziativa di persone che avevano conosciuto lo sport all’estero. La prima fu quella di Milano, seguita da quelle di Vicenza, Palermo, Bergamo e Torino. Adesso in totale ce ne sono dodici, otto delle quali partecipano al primo campionato federale organizzato dalla LIRD con il sostegno della Federazione Italiana Sport Rotellistici (FISR), che ha riconosciuto ufficialmente il roller derby come sport affiliato nel 2021. C’è anche una squadra nazionale che finora ha partecipato a due mondiali, il primo dei quali già nel 2014 a Dallas, negli Stati Uniti.
La strada per arrivarci però è stata molto lunga.
Nella gran parte dei casi le squadre di roller derby in Italia si sono formate grazie al passaparola o per conoscenza diretta di chi aveva cominciato a giocarci. Nel caso delle Bloody Wheels di Torino, racconta Schiavo, ci vollero almeno 2 anni perché tutte le ragazze coinvolte – perlopiù persone che frequentavano la scena punk – imparassero a pattinare abbastanza bene da poter giocare, soprattutto perché agli inizi non c’erano allenatrici o allenatori esperti ed erano le stesse giocatrici a gestire gli allenamenti.
Per giocare, inoltre, bisogna superare un esame molto tosto in cui si dimostra di avere le capacità tecniche necessarie per pattinare bene, per non farsi male e non far male alle altre persone: una cosa che per alcune o alcuni può risultare complicata o respingente, soprattutto se si pensa che in Italia buona parte di chi si avvicina al roller derby comincia a pattinare attorno ai 25 anni, dice Marianna Preda, che nelle Crimson Vipers ha il “derby name” Freaky Dü.
Ci sono poi grossi limiti organizzativi, collegati al fatto che per ora il roller derby in Italia è uno sport di nicchia che dipende soprattutto dall’impegno delle giocatrici e delle singole squadre, che nella gran parte dei casi non hanno sponsor e gestiscono tutte le attività inerenti al gioco in autonomia e su base volontaria. Per esempio, per organizzare una partita serve mobilitare decine di persone tra giocatrici, tecnici e assistenti, oltre ai giudici di gara, che in Italia non sono molti: motivo per cui le gare del campionato sono accorpate in una stessa sede, dove se ne svolgono tre per giornata.
Tutto questo non sarebbe possibile senza un movimento collettivo nazionale, che si sostiene a vicenda, e senza l’impegno personale delle giocatrici, che oltre ad allenarsi allestiscono la pista, garantiscono che durante le gare ci sia sempre un’ambulanza e organizzano attività per far conoscere lo sport. La FISR rimborsa almeno in parte le spese delle trasferte degli arbitri, ma le attrezzature, l’affitto delle palestre e i costi per le trasferte sono sempre a carico delle giocatrici, che raccolgono fondi attraverso il merchandising, offerte libere durante le gare e l’organizzazione di eventi, che negli ultimi due anni sono stati in gran parte sospesi per via della pandemia da coronavirus.
Spesso inoltre le squadre non hanno abbastanza giocatrici per poter cambiare la formazione durante i vari jam, cosa che ha portato alcune di queste, come Palermo e Bologna, a unirsi pur di non rinunciare a partecipare al campionato.
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Tutte le skater intervistate dal Post spiegano che dedicarsi al roller derby significa far parte di una grossa comunità e che anche chi si è infortunata oppure è incinta – come adesso Bosis – difficilmente si allontana dalla squadra. Nelle parole di Rastelli, essenzialmente, il roller derby è «uno sport fatto dalle giocatrici per le giocatrici»: fare in modo che continuino a essere loro al centro dell’organizzazione e che non si perda l’atteggiamento fondamentale dello sport è una delle priorità della LIRD, nata nel 2018 un po’ per unire tutte le squadre e per avere un’organizzazione centrale, e un po’ per provare a farlo conoscere sempre di più.
Attualmente in Italia non ci sono campionati juniores di roller derby, che invece esistono sia negli Stati Uniti sia in altri paesi europei, come la Francia. Oltre alle giornate di reclutamento di nuove atlete e atleti ci sono varie iniziative per far conoscere lo sport: una di queste è curata dalle Harpies, che ogni giovedì pomeriggio organizzano attività di animazione sui pattini e lezioni di pattinaggio per bambine e bambini in piazza Minniti a Milano, in zona Isola.
In questo momento comunque le Harpies stanno cercando di risolvere un problema ancora più urgente.
Come racconta la capitana Eleonora Luca, il cui nome in pista è Elo-C-Raptor, al momento infatti la squadra non ha una palestra dove potersi allenare. Nonostante i pattini siano tornati di moda anche tra chi vorrebbe usarli senza necessariamente praticare uno sport, a Milano non ci sono pattinodromi, dice Luca, e altre strutture o palestre che andrebbero bene per gli allenamenti del roller derby sono inagibili oppure occupate da squadre di altri sport. Luca ha spiegato che la squadra ha provato in vari modi a chiedere l’aiuto della FISR e quello del Comune di Milano, e sta cercando un posto anche fuori dalla città; al momento però non ha trovato alcuna soluzione.
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