Quando morì Gilles Villeneuve
«È stato campione di combattività e ha portato tanta notorietà alla Ferrari. Io gli volevo bene» disse Enzo Ferrari su Gilles Villeneuve, che morì nel Gran Premio del Belgio l’8 maggio del 1982
di Pietro Cabrio
Gilles Villeneuve è uno di quei nomi che ritornano spesso quando si parla di automobilismo sportivo, e ancora oggi arriva a generazioni che in Formula 1 non lo videro mai correre. Eppure non fu campione del mondo, non fece in tempo a vincere nemmeno dieci gare ed ebbe una carriera breve e complicata, che terminò in modo terribile, a bordo di una Ferrari, l’8 maggio del 1982.
Villeneuve era arrivato in Italia nel 1977 direttamente dal Canada. Soprannominato “il fantino” per la bassa statura e la figura minuta, era stato preso come terza guida verso la fine di quel Mondiale dal patron Enzo Ferrari, che voleva prepararlo alla stagione successiva in cui avrebbe dovuto sostituire il campione del mondo uscente Niki Lauda. Secondo i piani, però, doveva essere più di un semplice sostituito: da sempre attratto da piloti veloci e aggressivi, Ferrari cercava qualcuno molto diverso da Lauda, considerato uno stratega e non a caso soprannominato “il computer”. Voleva un pilota che potesse emozionare il pubblico e spingere le auto al limite.
Villeneuve, allora ventisettenne, aveva già debuttato in Formula 1 in quella stessa stagione alla guida della terza McLaren — una M23 progettata quattro anni prima — nel Gran Premio di Silverstone. Nonostante l’auto obsoleta e poco competitiva gli avesse dato un sacco di problemi, sbucò fuori dal nulla girando più veloce di tanti altri piloti nelle prove e in gara ottenne un buon undicesimo posto.
Alla Ferrari ci arrivò pochi mesi dopo, da sconosciuto ma con una certa fama guadagnata nel sottobosco dei campionati motoristici nordamericani. Nato e cresciuto nei dintorni di Montréal, in Québec, si era fatto un nome come fenomeno dei campionati di motoslitta, una categoria che apparentemente non aveva nulla a che fare con la Formula 1. Con i successi sulle motoslitte e i soldi fatti vendendo casa, a metà anni Settanta si era comprato una vera macchina da corsa per partecipare alla Formula Ford, dove vinse sette gare nella sola stagione d’esordio. Dalla Formula Ford passò quindi alla Formula Atlantic, l’ultima tappa verso i grandi campionati.
Villeneuve non si limitava a pilotare qualsiasi cosa, la portava al limite e spesso quel limite lo superava. Aveva un senso del pericolo praticamente inesistente, cosa che contribuì a farlo diventare rapidamente un simbolo della Formula 1. Creò una sorta di connessione con gli appassionati, all’epoca chiamata la “febbre Villeneuve”. Dall’altro lato, però, la sua propensione al rischio, e per forza di cose agli imprevisti, gli diede anche la fama di pilota spericolato e pericoloso per gli altri.
Ognuna delle cinque stagioni in cui corse per la Ferrari viene ricordata ancora per qualche episodio particolare, a cominciare dal Gran Premio del Giappone del 1977, quando al settimo giro della sua terza gara in Formula 1 si avvicinò in modo troppo aggressivo alla macchina che aveva davanti, ci finì sopra con le ruote e volò fuori pista. Atterrò in una zona vietata al pubblico in cui però in quel momento c’erano degli spettatori: due rimasero uccisi e i feriti furono una decina.
Le conseguenze rischiarono di interromperne subito la carriera. In Giappone l’incidente fu molto sentito, tanto che il paese non ospitò più un Gran Premio di Formula 1 per dieci anni. In Italia le critiche a Villeneuve e a Ferrari, che lo aveva voluto, furono durissime e da lì nacque il suo soprannome dispregiativo, “l’aviatore”. Meccanici e dirigenti della scuderia, inoltre, si erano trovati spiazzati da questo nuovo pilota, completamente diverso da Lauda. Delle auto che guidava non risparmiava nulla, e spesso non rimaneva nulla. Sembrava indifferente agli incidenti, “macinava” ogni componente perché andava più forte di quanto le auto potessero sostenere: in un Gran Premio di Montecarlo arrivò a rompere un semiasse senza incidenti, soltanto girando in pista per una cinquantina di giri.
In alcune occasioni il suo primo compagno di squadra alla Ferrari, l’argentino Carlos Reutemann, si trovò a corto di meccanici, “dirottati” a riparare l’altra macchina. Villeneuve continuò tuttavia per la sua strada e col tempo poté mostrare le sue qualità. Oltre a una rara e naturale inclinazione alla velocità, nella sua esperienza con le motoslitte in Québec aveva sviluppato una sensibilità alla guida fuori dal comune, dei riflessi rapidissimi e una capacità di guidare in condizioni avverse che tanti piloti non avevano.
Vinse la sua prima gara proprio in Canada, nell’ultimo Gran Premio del 1978. L’anno successivo si contese il Mondiale con il compagno di squadra, il sudafricano Jody Scheckter, che poi vinse il titolo anche perché Villeneuve accettò di fare il secondo pilota, vista la minor esperienza e l’amicizia che li legava. A quattro gare dal termine di quel Mondiale, nel Gran Premio d’Olanda, bucò una gomma e prima di andare ai box fece un giro su tre ruote, con l’auto imbarcata, tra il pubblico in piedi che lo acclamava. Alcune settimane prima, nel Gran Premio di Francia, ingaggiò uno storico duello con René Arnoux, che vinse dopo continui sorpassi e controsorpassi spinti al limite.
I primi campionati degli anni Ottanta furono piuttosto complicati per la Ferrari, che aveva da poco introdotto i nuovi motori turbo, potentissimi ma anche molto difficili da gestire: non a caso dal titolo vinto da Scheckter nel 1979 la Ferrari dovette aspettare oltre vent’anni per tornare a vincerne uno. Nel 1980 proprio Scheckter comunicò il ritiro a stagione in corso, spaventato dai rischi e dai numerosi incidenti a cui le nuove auto erano soggette. L’anno successivo Ferrari lo rimpiazzò con un francese, Didier Pironi, che entrò subito in buoni rapporti con Villeneuve.
Nonostante i frequenti ritiri e le rare vittorie, Villeneuve divenne sempre più amato dai tifosi per il suo stile di guida e per episodi passati alla storia della Formula 1, come quello nel Gran Premio del Canada del 1981. Sul circuito di casa, dopo una rimonta sul bagnato dall’undicesimo al terzo posto, gli si staccò l’alettone anteriore, che si sollevò coprendogli quasi completamente la visuale. Per non rischiare di perdere posizioni, rimase in pista e fece tre giri con una visibilità ridottissima, fino a quando l’alettone non si staccò definitivamente. Quell’anno riuscì anche a vincere a Montecarlo, e con quella vittoria fu il primo pilota di Formula 1 a finire sulla copertina della rivista Time.
Il Mondiale del 1982, tuttavia, partì male e andò sempre peggio. La Ferrari continuava a dare problemi e le scuderie litigavano sul regolamento, cosa che spinse le squadre britanniche a non presentarsi per la quarta gara della stagione, a Imola. Fu così che la Ferrari si trovò con un’unica rivale, la Renault, e quindi con la possibilità di tornare a vincere davanti al pubblico di casa. Nel corso della gara, poi, entrambe le Renault si ritirarono e le Ferrari di Villeneuve e Pironi staccarono gli altri piloti avvicinandosi indisturbate alla “doppietta”.
A un certo punto della gara, però, la Ferrari espose un cartello piuttosto ambiguo con scritto «slow», per dire ai suoi piloti di mantenere le posizioni e rallentare i ritmi di gara. Villeneuve lo fece, ma Pironi no e lo superò. Da lì nacque un duello che inizialmente Villeneuve intese con lo scopo di far divertire il pubblico: quando però si rese conto che Pironi faceva sul serio fu troppo tardi, perché venne superato in una delle ultime curve e non riuscì più a portarsi in testa, nonostante i disperati tentativi di sorpasso.
Per Villeneuve fu un tradimento. Uscì dall’auto infuriato e fecero fatica a portarlo sul podio. Come disse in seguito, si aspettava dal compagno di squadra lo stesso comportamento che lui aveva mantenuto tre anni prima con Scheckter. Pironi, invece, colse subito l’opportunità per vincere la sua prima gara in Ferrari, senza pensare troppo al compagno di squadra, anche se poi, a detta di molti, soffrì molto e non fu più lo stesso: in quella stagione si spezzò le gambe in un incidente e cinque anni dopo morì in una gara di motonautica.
Villeneuve tagliò i rapporti con Pironi e i due rimasero separati nella stessa scuderia per le successive due settimane, fino al Gran Premio del Belgio. A Zolder Villeneuve si presentò ancora cupo, deluso non solo da Pironi ma anche dallo scarso appoggio che sentiva di aver ricevuto dalla squadra. Nelle qualifiche fece l’ottavo tempo e verso la fine della sessione fu superato da Pironi, che si piazzò in sesta posizione. Probabilmente irritato da questo risultato, decise di tornare in pista anche se non aveva più gomme buone. Fece in tempo a fare un giro prima di dover ritornare ai box, ma mentre rientrava si trovò dietro una macchina più lenta, quella del tedesco Jochen Mass.
Dopo una curva, Mass lo vide arrivare da dietro e per farlo passare si spostò sulla destra, la stessa direzione che però prese anche Villeneuve. Com’era accaduto anni prima in Giappone, le ruote anteriori presero in pieno quelle posteriori dell’auto davanti e decollarono. Il volo e i successivi impatti con il terreno furono devastanti per la Ferrari, che si disintegrò colpo dopo colpo. Villeneuve, rimasto attaccato con le cinture al suo sedile, venne sbalzato fuori dalla scocca e cadde una cinquantina di metri in avanti, sfondando una prima linea di recinzioni e atterrando sulla seconda: scarpe e casco vennero ritrovati a decine di metri di distanza.
«Dopo un incidente eravamo abituati a vederlo tornare con il casco in mano, e poi ci spiegava quello che era successo. Tante volte era colpa sua, ma era sincero e se era stata colpa sua, lo diceva. Quella volta però non arrivò, arrivò invece l’elicottero che lo portò via» ricordò il suo capo meccanico. Non morì sul colpo ma l’incidente fu devastante e non lasciò nessuna speranza, soprattutto per le gravi lesioni al collo e alle vertebre cervicali. Fu tenuto in vita dai macchinari solo per volere di Enzo Ferrari fino all’arrivo della moglie Joanna.
Villeneuve morì a 32 anni, lasciando la moglie e due figli piccoli, che fino a poco tempo prima avevano sempre vissuto le stagioni in Formula 1 insieme a lui, nei motorhome dei circuiti in cui correva. Quello del Belgio era stato uno dei pochi Gran Premi a cui Villeneuve si era presentato da solo, perché in crisi con la moglie e perché coincideva con la prima comunione della figlia. Anni dopo il figlio maschio, Jacques, ne seguì la carriera diventando pilota di Formula 1 e nel 1997 vinse il Campionato del mondo, quello che il padre non era mai riuscito a vincere.
Un anno dopo l’incidente, Ferrari — noto sul lavoro come persona rigida e burbera, raramente sorridente — tornò a parlare del suo ex pilota con un ricordo diventato famoso perché emblematico del rapporto che si era creato tra i due. Disse: «Sì, c’è chi lo chiamava “aviatore” e chi lo valutava svitato. Ma con la sua generosità, il suo ardimento, con la capacità distruttiva che aveva nel pilotare macinando semiassi, cambi, frizioni e freni, ci insegnava cosa bisognava fare perché un pilota potesse difendersi in un momento imprevedibile, in uno stato di necessità. È stato campione di combattività e ha portato tanta notorietà alla Ferrari. Io gli volevo bene».