Il primo morto di coronavirus di Nembro
È una delle 188 persone di cui Gigi Riva ha raccontato la storia in "Il più crudele dei mesi"
Per qualche tempo, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2020, quando si parlava di casi di contagio da coronavirus, ci si riferiva a singole persone, a volte con un nome e un cognome. Con il veloce aumento della diffusione del virus – o meglio, con la scoperta della sua reale diffusione – i casi sono diventati semplicemente numeri. A Nembro, uno dei paesi della provincia di Bergamo più colpiti nella prima fase della pandemia, sono questi: tra la fine di febbraio e l’inizio di aprile 2020 morirono 188 persone, di cui 164 solo a marzo, su una popolazione di 11.500. A loro il giornalista e scrittore Gigi Riva, originario di Nembro, ha dedicato il libro Il più crudele dei mesi, pubblicato a febbraio da Mondadori, raccontando una serie di storie personali, oltre i numeri.
Riva presenterà Il più crudele dei mesi durante il festival Pensavo Peccioli, domenica 15 maggio a Peccioli, in provincia di Pisa, insieme a Isaia Invernizzi, giornalista del Post.
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Delia Morotti valutava che il padre e la madre non avevano il casco Cpap né altre diavolerie che favoriscono la respirazione. Laura Lazzaroni aveva aiutato lo zio a pettinarsi (lui ci teneva al decoro) e a mettersi il pigiama, e ora lo guardava mentre, seduto in poltrona, si rammaricava del fatto che probabilmente avrebbe dovuto rinunciare a una vacanza già programmata.
«Ho prenotato sulla Costiera Amalfitana, mi sa che non riuscirò a partire.»
«Ma cosa dici, zio! Tra qualche giorno sarai di nuovo in forma.»
Mentre il timido sole di febbraio finiva di scaldare e si allungavano le prime ombre della sera, il pensiero andava ai familiari rimasti fuori e alle incombenze inderogabili. Laura doveva tornare per la figlia Anna, dodici anni, e per il negozio da aprire l’indomani, e dunque si risolse a domandare: «Quando potremo uscire?». Ebbe la risposta temuta: «Si organizzi, signora, mi sa che dovrete restare qui anche stanotte». Sembrava scontato che la decina di visitatori dovesse essere sottoposta a tampone, salvo il fatto che di tamponi non ce n’erano: la sanità lombarda, plurilodata per le sue eccellenze e troppo delegata al profitto dei privati, si era dimenticata della medicina di base.
Un frenetico battito di mani accompagnato dall’urlo «Parentiiiii» di un’infermiera fu l’annuncio di una svolta poco prima delle 18. Delia fu sorpresa da quel richiamo mentre stava aiutando il padre a lavarsi e chiese di poter ultimare l’operazione; le fu negato, dominava la fretta adesso: «Ci penseremo noi più tardi».
Laura salutò lo zio e seguì il gruppo. Radunati tutti insieme da quella campanella umana, fu loro comunicato che erano liberi. In fila indiana furono condotti verso un’uscita secondaria oltre la chiesetta, dove normalmente passano i carri funebri, alla chetichella, come fossero ladri, senza spiegazioni. Il sollievo di poter lasciare quel posto contaminato si sommava al dispiacere per il destino dei congiunti rimasti nei reparti e ai dubbi su come difendersi. Letteralmente vennero spinti fuori: «Via, via. Appena arrivate a casa fatevi una doccia, disinfettatevi e buttate i vestiti che avete addosso in lavatrice». I social media diffusero la novità: “Riaperto il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo dopo la sanificazione”. Che sia stata fatta una pulizia adeguata alla circostanza, nel poco tempo a disposizione e senza strumenti appropriati, è difficile da credere, e lo sarebbe stato anche per i pubblici ministeri della procura di Bergamo che mesi dopo avrebbero avviato un’inchiesta. Perché riaprire allora, a differenza di quanto era stato deciso due giorni prima a Codogno?
(…)
Delia Morotti dall’uscita laterale era risalita fino all’ingresso principale, oltre la sbarra dove aveva parcheggiato la sua automobile. Un carabiniere la fermò.
«Alt, non può entrare, ordini dall’alto.»
«Ma ho la macchina lì dentro…»
«Niente da fare.»
«Ecco le chiavi, me la porti fuori lei, ne ho bisogno.»
Il militare non ebbe cuore per un altro diniego e si prestò.
Laura Lazzaroni venne rincorsa fino alla sua autovettura da un’infermiera che reiterò i consigli: «Lei ha una bambina a casa, disinfetti tutto, la prego». Una volta al volante chiamò lo zio: «Sto andando a casa, ci vediamo domani». Lo zio sentì a sua volta la moglie Marcella e il tono di voce era il solito. Laura, ancora provata dalla giornata che solo con un eufemismo definiamo particolare, si abbandonò sotto la doccia come le era stato consigliato. Dopo che si fu asciugata trovò due telefonate perse sul cellulare. Richiamò.
«Sono Laura Lazzaroni, ho trovato una vostra chiamata.»
«Qui è l’ospedale di Alzano.»
«È per il tampone? Devo tornare?»
«No, purtroppo. Signora, mi dispiace, ma la chiamo perché suo zio Mauro è morto.»
«Come morto?»
«Lo abbiamo trovato disteso in bagno, abbiamo cercato di rianimarlo ma non c’è stato niente da fare. Un infarto. Venga a prendere la salma. Da sola, nessun altro può entrare.»
Incredula, Laura fece il percorso a ritroso con la testa che impazziva per l’incredulità. Lo zio Mauro era entrato al Pesenti-Fenaroli sulle sue gambe per un controllo che avrebbe dovuto essere routinario, gli avevano riscontrato un principio di polmonite solitamente
curabile e cinque ore dopo non c’era più. Un precipitare così repentino aveva indotto a optare sbrigativamente per l’infarto. Date le circostanze, però, era una spiegazione decisamente insufficiente.
Le misero in mano le chiavi della camera mortuaria pregandola di aprirla da sé e qui bisogna immaginare una donna di quarant’anni che, dopo aver percorso corridoi labirintici, sosta accanto al cadavere dello zio in un luogo lugubre e poco illuminato mentre a pochi metri di distanza si è scatenato il putiferio. Arrivò verso le 23 l’addetto alle pompe funebri, lei lo aiutò a vestire il congiunto con gli abiti destinati all’ultimo saluto. Non essendo ancora in vigore alcuna norma igienico-sanitaria, le permisero di trasportare il corpo in una sala del commiato, dove restò esposto per tre giorni. Laura ancora non sapeva, e lo vedremo, che era stata solo la prima tappa del suo calvario.
Mauro Lazzaroni, quello che sarebbe stato riconosciuto come il primo morto di coronavirus di Nembro e dell’intera Bergamasca non per criteri medici ma per buonsenso e perché ne aveva i sintomi, aveva dato lustro al suo paese. Ancora trentenne, nel 1964 e nel pieno del boom economico che era penetrato anche nella Valle Seriana, quando già era possibile guardare oltre la sopravvivenza e regalarsi hobby un po’ più costosi dei giochi gratuiti, aveva fondato assieme ad alcuni amici il Motoclub Careter. La sede era il Caffè Centrale, sulla piazza antistante la chiesa principale dedicata a san Martino, dove seduti ai tavoli ci si raccontava di imprese mirabolanti, talvolta esagerate, come succede al bar. Alla sfida agonistica si affiancava quella a chi possedeva la moto più in voga. La palestra per il cross erano i monti verso il santuario della Madonna dello Zuccarello o la frazione di Lonno, dove viottoli impervi consentivano di allenare la perizia necessaria per rimanere in sella, come in un rodeo. Non c’era giorno in cui il silenzio dei boschi non fosse rotto dal rombo dei motori. Spesso si cadeva e cadendo si imparava. La competizione all’interno della stessa scuderia favoriva il crescere della destrezza nell’addomesticare i cavalli delle due ruote, nel saltare fossi, inerpicarsi su tratturi, scansare sassi, restare in bilico su dirupi. Che piovesse, ci fosse il sole o persino nevicasse, l’allenamento era un’ossessione, il fango fino alle narici e oltre il casco una costante, così come la disperazione delle madri che dovevano far funzionare a ritmo continuo le prime lavatrici, segno di progresso e di benessere. L’applicazione era massima e così fioccavano i titoli, in Italia e in Europa. Fino al riconoscimento supremo nel 1976 a Zeltweg, in Austria, campioni del mondo a squadre di motoregolarità, sì, Nembro campione del mondo. E Mauro il presidente dei campioni del mondo, invidiato per il successo, per l’eleganza da dandy di provincia, per la signorilità, per la bella moglie Marcella, conosciuta nel capoluogo, Bergamo, una “cittadina”, a quei tempi ulteriore motivo di distinzione. Era usuale trovarlo seduto alla sua scrivania intento a organizzare gare, trasferte, cene sociali. Nel 2018, quando gli attribuirono il titolo di presidente onorario, scelsero per definirlo una frase di Michel Eyquem de Montaigne: “Il merito della vita non sta nella quantità dei giorni ma nell’uso che facciamo di essi”.
L’unico conforto di Laura era in effetti proprio quello di dirsi che lo zio almeno se l’era goduta.
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