Come si arrivò alla sentenza “Roe v. Wade”
La storia della decisione che 50 anni fa portò la Corte Suprema americana a legalizzare l'aborto a livello federale, e che ora rischia di essere ribaltata
Stando alla bozza diffusa in esclusiva lunedì da Politico, la Corte Suprema degli Stati Uniti è intenzionata a ribaltare la sentenza che dal 1973 garantisce in tutto il paese l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza.
La sentenza al centro della decisione della Corte è conosciuta come “Roe v. Wade”. Venne pronunciata dalla Corte il 22 gennaio del 1973 e rese legale a livello federale il diritto all’aborto per la donna come libera scelta personale. Prima del 1973, ogni stato aveva una propria legislazione in materia, e in almeno trenta l’aborto era considerato reato di common law, basato cioè sui precedenti giurisprudenziali più che sui codici.
Jane Roe era lo pseudonimo di Norma Leah McCorvey che venne scelto per tutelarne la privacy. McCorvey era nata il 22 settembre 1947 in Louisiana ed era cresciuta a Houston, in Texas, figlia di due genitori di origine Cherokee e Cajun. I due si separarono quando McCorvey aveva otto anni, e lei iniziò a lavorare abbandonando la scuola.
Prima dei 18 anni scappò di casa, si sposò, divorziò ed ebbe due figlie. Quando era incinta del terzo figlio – il cui padre era un uomo che lei definì molto violento – i suoi amici la convinsero ad andare in tribunale e chiedere di poter abortire, dicendo di essere stata stuprata. Secondo quanto fu ricostruito negli anni successivi, le venne chiesto di mentire sia sulle violenze subite, sia sul fatto di essere stata stuprata. La legislazione del Texas ammetteva all’epoca l’aborto in caso di stupro e incesto, ma non essendoci nessun rapporto della polizia locale sul caso la sua richiesta venne respinta.
Fu a quel punto che McCorvey intercettò Linda Coffee e Sarah Weddington, due avvocate del Texas già impegnate nella battaglia a favore del diritto di aborto che erano alla ricerca di un nuovo caso per avere maggiori probabilità di vittoria in tribunale. Le due avvocate, nonostante fossero consapevoli che McCorvey avesse mentito, decisero di presentare ricorso alla Corte Distrettuale dello stato.
La difesa venne assunta dal procuratore distrettuale Henry Wade, che era già piuttosto celebre perché nel 1963 aveva rappresentato l’accusa di Jack Ruby, l’uomo che aveva ucciso l’assassino di John F. Kennedy. La Corte Distrettuale diede ragione a Norma Leah McCorvey (Jane Roe), basandosi sull’interpretazione del IX Emendamento della Costituzione, in cui si dichiara che l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti, non specificamente menzionati nella Costituzione.
Dopo la sentenza della Corte Distrettuale, il procuratore federale Henry Wade fece ricorso in appello alla Corte Suprema, che iniziò a esaminare il caso nel 1970. Le avvocate di Norma Leah McCorvey ipotizzarono davanti ai giudici della Corte Suprema che una diversa interpretazione della Costituzione federale potesse riconoscere il diritto all’aborto, anche senza che ci fossero problemi di salute per la donna e tutti gli altri casi limite previsti nei vari stati, se non quello della libera scelta personale.
La decisione della Corte, presa a maggioranza di 7 giudici a 2 il 22 gennaio 1973, non si basò tanto sul IX Emendamento, con cui il caso si era chiuso nella Corte Distrettuale, ma su una nuova interpretazione del XIV Emendamento della Costituzione, che riguarda il diritto alla privacy, inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona.
La “Roe v. Wade” fu dunque preceduta da altre tre sentenze fondamentali che avevano a che fare con il diritto alla libertà di scelta in ambito procreativo. Nei dieci anni precedenti al 1973, queste sentenze avevano modificato il concetto di privacy: lo avevano cioè esteso oltre la protezione dei semplici dati personali, fino a riconoscere all’individuo la libertà di prendere decisioni in ambito procreativo e a includere le sue scelte più intime.
L’aborto restava tuttavia una questione più complicata, innanzitutto perché lo statuto giuridico del feto era ancora ambiguo. Nella legislazione dell’epoca, nella maggior parte degli stati l’aborto era legale solo in alcuni casi: in caso di pericolo di vita della donna, per stupro, incesto o malformazioni fetali. Soltanto in pochissimi stati l’unico requisito legale era la semplice richiesta di aborto da parte della donna, ma non in Texas dove viveva Norma Leah McCorvey.
Quando si aprì la discussione davanti alla Corte, Jay Floyd, che rappresentava il Texas, pronunciò quella che successivamente venne definita la “peggior barzelletta nella storia del diritto”. «È una vecchia barzelletta», disse Floyd «ma quando un uomo discute con due belle donne in questo modo (cioè le due avvocate, ndr), loro avranno l’ultima parola».
L’autore del parere di maggioranza sul caso fu il giudice Harry Blackmun, che iniziò il suo ragionamento con una ricostruzione storica dell’aborto dal mondo antico fino agli Stati Uniti. L’obiettivo era valutare se la criminalizzazione dell’aborto facesse parte della common law o fosse di origine più recente. Le sue conclusioni furono che prima del 1821, negli Stati Uniti, non esistevano divieti espliciti all’interruzione di gravidanza. Nel 1821 li introdusse il Connecticut seguito poi da molti altri stati.
Le limitazioni, disse Blackmun, erano state introdotte di recente per tre principali motivi: disincentivare atti sessuali illeciti o immorali, proteggere la salute della donna e proteggere il feto.
Il giudice escluse subito dalla propria argomentazione la prima giustificazione, ma si occupò delle altre due. Concluse che con lo sviluppo della medicina i rischi per la salute della donna in seguito a un aborto non fossero più fondati. Il termine “salute” doveva poi essere ampliato fino a comprendere non solo il benessere fisico, ma anche quello mentale e psicologico di una donna. Per questo motivo, stabilì che la scelta se diventare madre o no dovesse rientrare nell’ambito del diritto alla privacy. Restava però la terza questione, che aveva a che fare con il “diritto del feto”. La soluzione finale si basò su un bilanciamento tra i diversi interessi: la donna aveva sì il diritto di decidere cosa fare, ma tale diritto non poteva essere assoluto.
La Corte enunciò dunque due principi in materia che dovevano essere rispettati caso per caso: l’aborto era possibile per qualsiasi ragione la donna lo volesse, soltanto fino al momento in cui il feto non fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno (intorno al terzo trimestre): a quel punto poteva prevalere l’interesse dello stato a proteggere il feto, considerato come una “persona”. L’altro principio stabiliva invece che la donna potesse decidere di abortire, anche dopo la sopravvivenza del feto al di fuori dell’utero, nel caso in cui ci fossero stati pericoli per la sua salute.
Dopo la sentenza McCorvey – che nel frattempo aveva partorito e dato in adozione la figlia – divenne il simbolo delle campagne a favore dell’aborto, impegnandosi lei stessa in modo attivo. Negli anni Ottanta aderì alla Chiesa evangelica e divenne una forte oppositrice del diritto d’aborto, continuando anche quando, qualche anno dopo, si convertì al cattolicesimo. Prima di morire, a 69 anni nel 2017, rivelò che un’organizzazione religiosa l’aveva pagata per comportarsi pubblicamente come un’attivista contro l’aborto.