Per la riforma delle concessioni balneari ci vorrà più del previsto
Il ministro del Turismo ha detto che sarà difficile fare le gare entro la fine del 2023, come era stato deciso
Durante un convegno organizzato a Riccione, in Emilia-Romagna, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia ha detto che sarà complicato pubblicare le gare per le concessioni balneari entro il prossimo anno, come inizialmente previsto. «Ritengo ragionevole un periodo transitorio di due anni», ha detto il ministro, anticipando una valutazione del governo sull’opportunità di rimandare le scadenze per l’attesa riforma delle concessioni balneari. Se verrà confermato il periodo transitorio di cui ha parlato Garavaglia, le scadenze verrebbero rimandate dal 31 dicembre 2023 alla fine del 2025.
La correzione, tuttavia, non è banale né semplice da introdurre perché delle concessioni balneari si è occupato più volte il Consiglio di Stato, che aveva fissato dei limiti ai possibili rinvii, e soprattutto la Commissione europea, da anni critica nei confronti dell’immobilismo italiano sul tema.
Le raccomandazioni europee risalgono a più di dieci anni fa. Già nel 2006 la Commissione europea, nell’approvare la cosiddetta direttiva Bolkestein, chiese al governo italiano di liberalizzare le concessioni pubbliche, cioè i beni di proprietà statale come le spiagge. Per farlo, dice la direttiva, servono gare internazionali con regole equilibrate. Negli ultimi 15 anni la direttiva non è mai stata applicata. Le concessioni, anche quelle più datate, sono state sempre prorogate: secondo i governi che si sono succeduti, l’istituzione di gare aperte a tutti, anche alle aziende straniere, avrebbe causato effetti troppo ampi sullo statico sistema italiano, con danni ingiusti per moltissimi stabilimenti italiani.
Gli stabilimenti balneari hanno quindi continuato a pagare canoni di affitto molto ridotti. Secondo gli ultimi dati della Corte dei Conti, nel 2020 lo Stato ha incassato 92 milioni e 566mila euro per 12.166 concessioni “ad uso turistico” a fronte di un giro d’affari difficile da stimare con precisione, ma che negli ultimi anni è stato quantificato in 15 miliardi di euro all’anno dalla società di consulenza Nomisma. Questa stima è stata contestata da uno studio commissionato dal Sindacato Balneari in collaborazione con Confcommercio secondo cui il giro di affari ammonterebbe a un miliardo di euro.
Grazie ai dati pubblicati dal ministero delle Infrastrutture è possibile capire a quanto ammonta il canone annuo pagato da tutti gli stabilimenti balneari italiani. I dati sono aggiornati a maggio 2021, quindi piuttosto recenti, e comprendono tutte le 12.166 concessioni ad uso turistico.
In questa mappa si possono consultare tutti i canoni. Per comodità abbiamo evidenziato alcune delle località balneari più note. In alcune regioni, come in Sicilia, i dati relativi ai canoni annui non sono stati resi disponibili.
Nonostante i richiami europei, nel 2018 il primo governo guidato da Giuseppe Conte, sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, approvò la proroga delle concessioni fino al 2033. Come spesso accade, la situazione è stata sbloccata dal Consiglio di Stato che ha deciso una proroga delle concessioni al massimo fino al 31 dicembre 2023. Ai gestori degli stabilimenti balneari sono stati concessi solo due anni di proroga per «evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere».
Alla fine di febbraio il governo guidato da Mario Draghi ha preso atto della sentenza del Consiglio di Stato e ha poi approvato un disegno di legge per chiedere al Parlamento una delega per riformare l’intero sistema con una serie di decreti attuativi, compito che di norma spetterebbe proprio al Parlamento.
Un emendamento governativo alla più ampia legge delega sulla concorrenza prevede che le gare per assegnare le concessioni dovranno essere «imparziali», e favorire la partecipazione «delle microimprese e piccole imprese, e di enti del terzo settore». Saranno definiti i «presupposti e i casi per l’eventuale frazionamento in piccoli lotti» e sarà individuato un «numero massimo di concessioni» di cui si può essere titolari.
Le gare saranno preparate in modo che gli attuali proprietari conservino comunque un vantaggio competitivo: conterà «l’esperienza tecnica e professionale già acquisita», «comunque tale da non precludere l’accesso al settore di nuovi operatori», e una corsia preferenziale sarà riservata alle persone che «nei cinque anni antecedenti l’avvio della procedura hanno utilizzato la concessione come prevalente fonte di reddito». Tra le altre cose, le concessioni dovranno assicurare un impatto minimo sul paesaggio, sull’ambiente e sull’ecosistema.
Nelle ultime settimane molti parlamentari di quasi tutti i partiti hanno chiesto modifiche all’emendamento governativo. I principali dubbi riguardano i tempi, a detta dei parlamentari troppo stretti: i decreti per le gare dovrebbero essere approvati entro la fine dell’anno e in questo modo resterebbe soltanto un anno, fino alla scadenza del 31 dicembre 2023, per completare le gare in tutti i comuni.
A marzo, in un’audizione alla commissione Industria del Senato, il presidente dell’Anci Antonio Decaro ha spiegato che per i comuni sarà molto difficile portare a termine le gare entro il termine del 31 dicembre 2023 previsto dall’emendamento del governo. Vanno considerate le difficoltà legate alla verifica della complessa documentazione di tutti gli immobili che si trovano all’interno delle concessioni. «La richiesta dell’Anci è di allungare il periodo transitorio per permettere alle amministrazioni comunali di espletare tutte le gare con maggior attenzione e oculatezza», ha detto Decaro.
Un’altra preoccupazione dell’Anci riguarda i possibili ricorsi ai tribunali amministrativi (TAR) fino al Consiglio di Stato. Siccome i ricorsi sono prevedibili, sostiene l’associazione, è meglio fare le gare molto tempo prima della scadenza.
Prima di decidere l’eventuale ma probabile rinvio delle scadenze, il governo dovrà capire se l’ulteriore posticipo dei tempi è compatibile con la sentenza del Consiglio di Stato e con l’orientamento della Commissione europea che negli ultimi anni ha più volte richiamato l’Italia al rispetto della direttiva sulla concorrenza.