La rigenerazione in arbëresh
Cifti è il nome di Civita in dialetto albanese: un paese dell'interno della Calabria dove tradizione e ambiente sono i riferimenti del cambiamento
di Riccardo Congiu e Claudio Caprara
Ogni anno, il martedì dopo Pasqua, a Civita in Calabria si tiene una festa degli arbëreshë, le comunità degli albanesi d’Italia, che si danno appuntamento e cantano e ballano con i loro costumi tradizionali. La ricorrenza è un’importante vittoria, avvenuta il martedì dopo la Pasqua del 1467, ad opera del condottiero e patriota albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, contro le armate turco-ottomane che avevano invaso l’Albania.
La festa non ha un nome: la si cita spesso facendo riferimento alle vallje, i tipici balli di gruppo arbëreshë a cui sono legate molte usanze e abitudini che rievocano proprio quella vittoria. È insomma un’occasione per ricordare le proprie origini e affermare la propria identità culturale.
Scanderbeg infatti è considerato l’eroe nazionale albanese, ed è un simbolo della libertà e indipendenza del paese. Alla sua figura è legata la storia arbëreshë, che iniziò nella seconda metà del quindicesimo secolo, quando il condottiero arrivò in Italia con un esercito di mercenari albanesi per sostenere il re Alfonso I d’Aragona durante la guerra di successione del Regno di Napoli. Alla fine della guerra quei soldati si stabilirono in alcune zone disabitate del sud Italia, fondando le prime colonie albanesi nel paese.
Nei secoli successivi le colonie continuarono a popolarsi e ne vennero fondate di nuove, soprattutto a causa della diaspora degli albanesi dalla penisola balcanica, provocata da quell’invasione turco-ottomana contro cui Scanderbeg aveva lottato. Oggi le località italiane di accertata fondazione albanese sono circa un centinaio, anche se alcune hanno perso parte della loro eredità culturale e solo in 50 di queste si parla ancora la lingua (un po’ diversa da quella parlata in Albania).
Le 50 località italo-albanesi compongono l’Arbëria: un insieme di 41 comuni e 9 frazioni sparse in nove regioni italiane e concentrate soprattutto in Calabria, nella provincia di Cosenza, con una popolazione complessiva di circa 100mila abitanti. Tra queste c’è Civita, “Cifti” in arbëresh, un paesino a 450 metri sul livello del mare nell’area protetta della riserva naturale Gole del Raganello (provincia di Cosenza, appunto), dove è arrivato il viaggio di Strade blu.
È uno dei luoghi italiani in cui la cultura arbëreshë è più radicata, e quello dove il martedì di Pasqua viene celebrato con maggiore impegno e iniziative. Normalmente per l’occasione arrivano a Civita centinaia di persone dalle altre comunità italo-albanesi: quest’anno, dopo le edizioni saltate a causa della pandemia nel 2020 e nel 2021, la partecipazione è stata un po’ meno nutrita del solito. Proprio perché era passato molto tempo dall’ultima volta, però, è stata anche un’edizione particolarmente sentita, tanto che vi ha partecipato anche il presidente della Repubblica d’Albania Ilir Meta.
Un piccolo paese
A Civita abitano 811 persone. È in una zona tra le montagne, all’interno del Parco nazionale del Pollino, ma in lontananza si vede il mare Ionio. Si trova in cima alle gole scavate dal torrente Raganello, che formano un canyon lungo 17 chilometri molto suggestivo. È una meta turistica frequentata. Il suo patrimonio culturale misto non rende del tutto chiara l’origine del nome: se fosse latina verrebbe certamente da civitas, “città”, mentre il nome albanese, Çifti, significa “coppia”, ma potrebbe venire anche da qifti, “aquila”, l’animale simbolo dell’albania.
Civita è uno dei piccoli paesi italiani dell’entroterra che fanno i conti con il fenomeno dello spopolamento (affrontiamo estesamente il tema nella newsletter di Strade blu di questa settimana): all’inizio del Novecento aveva quasi 3mila abitanti, all’inizio degli anni Ottanta circa 1.500, nel 2011 ne aveva 956. Dall’unità d’Italia in poi il peso demografico dei comuni con meno di 10mila abitanti è quasi costantemente sceso, mentre è aumentato quello dei più popolosi. Civita ha tutte le caratteristiche dei borghi italiani che hanno sofferto queste migrazioni: è al sud, non è sulla costa ed è posto su un’altura.
È anche uno dei paesi dove abbiamo cercato i segni di una inversione di tendenza, con l’iniziativa di diverse sue cittadine. «Civita è diverso dagli altri paesi arbëreshë», dice Antonella Vincenzi, una donna arbëreshë civitese che dopo tanto tempo ed esperienze in giro per il mondo è tornata qui, otto anni fa, per aprire una sua attività. Secondo Vincenzi «a Civita si sta sviluppando una capacità imprenditoriale, tutta al femminile, che permette alla cultura e all’appartenenza storica di rigenerarsi».
A Civita ci sono «tra i 25 e i 30 bed and breakfast», tutti gestiti da donne, compreso quello di Antonella Vincenzi, “La Magara”. «Quando arrivi qui ti fermi», dice lo slogan sulla pagina Instagram del B&B. Lei e altre imprenditrici hanno reso il paese un modello di ospitalità e valorizzazione della tradizione locale, con il loro impegno a raccontare a chi arriva la cultura arbëreshë, attraverso la loro storia e quella del luogo. «Raccontare significa immettere linfa vitale», dice.
«La Calabria e l’Italia interna dei piccoli centri sono sempre state un problema, mai affrontato dalla politica nazionale: invece oggi dalla marginalità si possono creare delle piccole rivoluzioni. Piccole buone pratiche che possono fare la differenza».
Quando dei visitatori arrivano alla Magara, Antonella Vincenzi li porta a fare un giro per il paese e a vedere i luoghi panoramici intorno. Spiega ogni cosa nei particolari e parla anche della sua storia: «È stata tutta in salita – dice – sono arrivata qui a piccoli passi ed è stato un percorso abbastanza lungo e difficile. Quella stessa salita metaforicamente la faccio fare agli ospiti che arrivano qui». Noi non facciamo eccezione, così ci incamminiamo con lei.
Passeggiare per Civita
«Dove c’è la Magara c’era la casa di mia nonna, dove mio padre ha vissuto la sua infanzia», spiega Vincenzi, «oggi è una casa per turisti: accolgo stranieri, italiani, persone che hanno voglia di vivere un’esperienza immersiva in un luogo dove non ci sono i rumori delle macchine e si sentono i suoni della natura».
Nonostante oggi parli del suo luogo d’origine con questa passione, Vincenzi lo lasciò molto giovane, quando aveva 18 anni, per «il bisogno di esplorare altri luoghi». Ha vissuto in diversi posti del mondo e poi è tornata, non per un compromesso ma per una scelta precisa, che rivendica: «La differenza tra qui e un altro luogo, che magari ti può sembrare più bello, è che qui hai la libertà di creare una nuova storia per questo posto. Io mi sento proprio libera di inventarmi qualsiasi cosa, di essere protagonista della nostra rinascita».
Così si è inventata un lavoro: certo, è una piccola imprenditrice, è proprietaria del B&B, poi gran parte della sua attività è anche far conoscere Civita, convincere le persone a tornarci o a comprare una casa per le vacanze; quando qualcuno le sembra particolarmente adatto ai ritmi del luogo trova anche le ragioni per persuaderlo a viverci tutto l’anno. Fa da mediatrice tra le persone che vogliono vendere e le persone che vogliono comprare una casa. È il riferimento delle aziende che operano sul territorio, in particolare per quelle che utilizzano materiali naturali e tecniche costruttive adatte a ridurre l’impatto energetico nelle ristrutturazioni edilizie. Lei dice del suo lavoro, più semplicemente: «Faccio ospitalità».
«Ogni ospite mi lascia qualcosa di bello, mi dà la forza e la voglia di rimanere ancora e di continuare», racconta Vincenzi, che negli anni ha stabilito molti rapporti con le persone che sono passate dalle sue parti, anche con quelle che non sono più tornate.
«Il primo obiettivo è vivere la mia quotidianità non sempre in solitudine». Quando Vincenzi tornò a Civita, otto anni fa, il parziale isolamento inizialmente era stato un problema: «Però devi affrontarlo e superarlo: se non lo fai non puoi vivere in un paese come questo. All’inizio uscivo tutte le sere, riempivo il tempo magari con aperitivi, ma tornavo a casa insoddisfatta», racconta. «Poi ho iniziato a fare quello che faccio adesso, e il fatto che io sia stata in tanti bei posti fuori da qui ha avuto un ruolo. Per esempio, sono stata anche su un’isola deserta, per questo so che è una noia mortale e per questo è così importante il lavoro di ospitalità».
Le Gole del Raganello
La maggiore attrazione naturale della zona sono le Gole del Raganello, le cui pareti rocciose si fanno più basse nei pressi di Civita. Il paese ci si affaccia comunque dall’alto, in uno dei punti più spettacolari da osservare e impervi per gli escursionisti, che si vede bene dal Ponte del Diavolo, a circa 36 metri di altezza.
Nell’agosto del 2018, poco meno di 4 anni fa, una piena del torrente causò la morte di 10 persone che facevano parte di due gruppi escursionistici che visitavano il canyon. «Da quel giorno Civita è cambiata», spiega Vincenzi, sia per il trauma vissuto da tutta la comunità, sia perché si è reso evidente che la gran parte delle persone che arrivavano da quelle parti lo faceva per fare escursioni al Raganello: da allora le visite sono in parte cominciate a diminuire.
È stato però anche un momento per guardarsi intorno e riscoprire il posto in altri suoi aspetti: non farlo sarebbe stata una condanna allo spopolamento, mentre i paesi come Civita hanno bisogno di farsi conoscere per invertire quella tendenza.
«Per fortuna Civita ha anche tanto altro: la comunità, il borgo, e questo lo abbiamo scoperto soprattutto dopo, perché sopravvivere significa anche cercare risorse nuove», dice Antonella Vincenzi quando mostra il Ponte del Diavolo. «I nostri nonni ce lo dicevano: le gole sono belle dall’alto».
Fare qualcosa che manca
Tra le “altre cose” di Civita ci sono le case Kodra, anche dette antropomorfe perché ricordano il volto di una persona. Il nome si deve al pittore albanese Ibrahim Kodra, che in uno dei suoi quadri aveva disegnato una casa con occhi e bocca: «Una mia amica che passeggiava con me davanti a queste case disse che sembravano quelle di Kodra, e cominciammo a chiamarle così», racconta Vincenzi.
Passeggiando in paese si incontrano le insegne e le targhe in arbëresh: «Bashki significa municipio», «lì c’è scritto fontana». L’arbëresh è diverso dall’albanese, ci spiega, e gli stessi arbëreshë non parlano necessariamente anche l’albanese. In ogni caso è un valore che nessuno vuole vada perso: «In qualsiasi lavoro facciamo, anche legato al turismo, il primo obiettivo è la conservazione della lingua».
La cultura arbëreshë nasce con l’esodo di molte persone dall’Albania, perciò nella tradizione è fortissimo il tema del distacco dalla propria terra d’origine. Le canzoni popolari sono quasi tutte malinconiche: l’amore perduto, l’amore lasciato, la terra abbandonata. Fanno eccezione quelle che celebrano le imprese di Scanderbeg.
Nonostante una storia di questo genere alle spalle, molti civitesi arbëreshë continuano a lasciare il proprio paese. «Il loro problema è che non danno tanta importanza a quello che potrebbe essere Civita tra qualche anno, alle possibilità che potrebbero dare ai giovani. Quindi vendono la loro casa con tutti i loro ricordi», dice Vincenzi. «L’unica soluzione è rivendere queste case a nuovi abitanti: stranieri, italiani, chiunque possa aggiungerci nuovi elementi rispettando la cultura che c’è già. Io sono contraria a che siano vendute case a un euro, come hanno fatto da qualche parte». Lei vede in questo la sua missione: riempire le case vuote, una per una.
La parola che usa più spesso per descrivere questo processo è “rigenerazione”, con cui allude alla necessità di rinnovare la tradizione continuamente, se non la si vuole perdere.
«Quello di un nuovo abitante è un percorso lungo», spiega. Prima si innamora del luogo, poi di solito si scoraggia un po’. Un ragazzo israeliano è tornato dopo due anni dalla sua prima visita a Civita e ha deciso di comprare tre case. Antonella Vincenzi lo coinvolge nelle attività quotidiane e gli ha proposto un progetto: aprire una locanda israeliana con prodotti calabresi.
Tutti quelli che arrivano capiscono che devono impegnarsi in attività di cui c’è bisogno, colmare vuoti della comunità. «Noi che viviamo a Civita sappiamo quello che manca – continua – ma poi bisogna dire loro la verità: non si viene qui per guadagnare tantissimi soldi, si viene per abbracciare lo stile di vita della natura e del silenzio. Chi viene qui deve avere voglia di cambiamento, non basta l’amore per una donna, non basta la bellezza del mare».
Cosa fare dopo
Tra cinque anni Vincenzi vede Civita «riabitata da chi decide adesso di acquistare casa», e ora sta ristrutturando. «Qualcuno di loro si sarà trasferito qui con la sua famiglia, sicuramente ci sarà più vita. Vorrei fare un albergo diffuso nel centro storico – dice Vincenzi – creare lavoro per giovani ragazze o donne che hanno voglia di esprimersi, magari aprire una cooperativa sociale. Vorrei anche che venissero aperti piccoli luoghi per la comunità, dove ci si possa incontrare e raccontare, magari una piccola libreria con un caffè e la possibilità di collegarsi a internet». Sono progetti ambiziosi, ma non così astratti.
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