Com’è cambiata la moda per i bambini
Fino a non molto tempo fa era un mercato specializzato e quasi immobile: poi sono arrivati i marchi di lusso, le grandi catene e i piccoli laboratori indipendenti
di Arianna Cavallo
In Italia la moda per bambini non ha lo stesso peso di quella degli adulti, che nel 2019, prima della crisi dovuta alla pandemia, aveva fatturato complessivamente 100 miliardi di euro; ma è comunque un settore importante e in evoluzione.
Fino a una ventina di anni fa si reggeva su aziende dedicate e su linee appositamente disegnate, comode e “senza tempo”, ma anche poco innovative nelle stampe, nei modelli e nei tessuti. Le cose sono cambiate con l’arrivo, a fine anni Novanta e inizio Duemila, dei grandi marchi di lusso e poi, qualche anno dopo, delle catene di fast fashion, che offrono vestiti molto economici e alla moda, come H&M: hanno stravolto il settore ma lo hanno anche rinnovato, portandolo al passo coi tempi.
Ha contribuito al cambiamento anche internet, con l’arrivo degli influencer e con lo spopolare del “mini me”, la tendenza di genitori e figli di vestirsi nello stesso modo.
Ora il mercato dell’abbigliamento per bambini è suddiviso principalmente tra i marchi di lusso, redditizi ma per pochi; le grandi catene di fast fashion; le aziende tradizionali e specializzate, che resistono cercando una nuova identità; le più recenti realtà indipendenti e sperimentali, fondate a volte da genitori, attente alla sostenibilità ecologica e sociale e alle tematiche di genere.
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Cosa dicono i dati
Secondo i dati del Centro studi di Confindustria moda, nel 2019 il fatturato complessivo dell’abbigliamento per bambini in Italia – considerando quello in maglia e tessuto, tra cui l’intimo e gli accessori, dalla nascita ai 14 anni – era stato di 3,1 miliardi di euro, con un valore della produzione pari a 943 milioni; il valore delle esportazioni era di 1,275 miliardi, il 41,1% del fatturato, e quello delle importazioni di 2,117 miliardi.
La crescita del settore era stata costante fino all’arrivo del coronavirus: i dati del 2020 riflettono la crisi dovuta alla pandemia, meno grave che nell’abbigliamento per adulti perché c’è una richiesta continua di capi dovuta alle nascite, alla crescita e all’usura più frequente.
Nel 2021, secondo le previsioni di Confindustria moda che potranno essere confermate solo nei prossimi mesi, il fatturato complessivo sarà di 3 miliardi di euro, con un contenimento della perdita pari al -2,8% rispetto al 2019 e un valore di produzione attorno ai 795 milioni di euro.
Il fatturato aumenta soprattutto grazie alle esportazioni, il cui dato più recente riguarda la moda neonato (dalla nascita ai 36 mesi) dal gennaio al settembre 2021, quando, dice l’ISTAT, era stato di 113,6 milioni di euro. La Spagna era stato il primo paese acquirente seguito dalla Svizzera, mentre erano cresciute le esportazioni in Francia, negli Emirati Arabi Uniti (+159,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) e in Corea del Sud (+102,3%) e calate quelle in Russia. Un dato curioso riguarda le importazioni, coperte per il 71,5% del totale da cinque paesi: Cina, Spagna, Bangladesh, Francia e India.
Il mercato di acquisto interno, invece, è in calo: Paolo Zani di Sita Ricerca spiega che è diminuito del 10% negli ultimi dieci anni, regolandosi sul calo delle nascite. Secondo dati ISTAT, nel 2008 erano nati 577mila bambini e nel 2020 405mila, il 30% in meno; nel 2017 c’erano 953mila bambini sotto i due anni, nel 2021 erano 820mila, il 15% in meno.
Questo comporta, spiega Zani, un problema strutturale del mercato: mentre qualche anno fa il calo degli acquisti riguardava l’abbigliamento delle prime fasce d’età, ora è arrivato a quello dei 5-7 anni. Nel 2019, per esempio, il mercato dalla nascita ai 7 anni era stato di 1,9 miliardi di euro ma negli ultimi due anni è calato del 10% all’anno.
Una cosa importante quando si parla del settore, specifica sempre Zani, è ricordare che è suddiviso per gruppi d’età, con esigenze, prezzi e clienti anche molto diversi tra loro. Alcune aziende, per esempio, sono specializzate soprattutto in vestiti e accessori per neonati, altre arrivano fino ai 12 o ai 14 anni, mentre le grandi catene che vestono anche gli adulti possono contare su un’offerta di assortimento più ampia che «in un contesto difficile come l’attuale si traduce in un notevole vantaggio competitivo».
Come il lusso ha cambiato la moda bimbo
«Prima dell’ingresso delle grandi marche e dei gruppi la moda bambino era immobile e viveva di stagioni molto regolari: il ritorno a scuola con camicie azzurre e fantasie scozzesi, il Natale e le feste, la primavera con gli abiti da cerimonia», spiega Giuliana Parabiago, ex direttrice di Vogue Sposa e di Vogue Bambini e dal 2015 consulente di Pitti Immagine, l’azienda che organizza a Firenze Pitti Uomo e Pitti Bimbo, due delle più importanti fiere al mondo di abbigliamento maschile e per bambini (le prossime edizioni si terranno, rispettivamente, dal 14 al 17 giugno e dal 22 al 24 giugno 2022).
Parabiago ricorda che «quando all’inizio andavo a Pitti Bimbo, l’anno in cui mi trovavo era ininfluente, era uno spazio senza tempo: ora quando entro so in che anno sono». E aggiunge che la moda bimbo «era un argomento intoccabile, i giornali che non erano del settore non se ne occupavano, sembrava un po’ amorale, uno squarcio dell’innocenza».
Ora invece l’abbigliamento per bambini è immerso nella contemporaneità: un po’ perché i genitori hanno cambiato mentalità, un po’ per internet – che coinvolge anche i più piccoli nel suo mondo pieno di immagini – un po’ per l’influenza nel settore dei marchi di lusso e dei laboratori indipendenti.
Le aziende di moda di lusso si sono interessate all’abbigliamento per bambini in ritardo rispetto ad altri settori: quasi tutte, per esempio, hanno realizzato prima profumi, cosmetici o biancheria per la casa, lavorando in licenza con aziende specializzate.
Il primo fu il francese Christian Dior, che fondò Baby Dior nel 1967 e che dal 2013, sotto la direzione di Cordelia de Castellane, propone anche la haute couture, cioè gli abiti confezionati esclusivamente a mano e su misura, che possono costare anche 14mila euro l’uno. Nel 1978 arrivò Ralph Lauren e poi ci fu un vuoto di vent’anni: nel 2001 nacque Burberry Kids, nel 2005 Little Marc Jacobs, nel 2010 Stella McCartney Kids, nel 2011 aprirono le loro linee Lanvin, Marni, Gucci e Fendi, l’anno successivo Dolce & Gabbana. Nel 2013 si tenne a Londra la prima settimana della moda bimbo, che convinse altri marchi di lusso a entrare nel settore, tra cui Karl Lagerfeld, Balenciaga e Givenchy.
Burberry Kids è tra i marchi che vendono di più: nel 2013/2014 aveva fatturato 79 miliardi di euro, circa il 4% delle sue vendite totali. Per dare un’idea dei prezzi attuali, un body in cotone con finiture a scacchi costa 95 euro, un cofanetto regalo per neonato con tutina, cuffietta e bavaglino ne costa 210 e l’orsetto in lana con motivo tartan 450 euro; anche il set regalo per neonato di Baby Dior con tutina, berrettino e bavaglino costa 450 euro, mentre le scarpine per i primi passi 210 euro.
Il cosiddetto “my first” – cioè il regalo dalla nascita ai 12 mesi – vende bene ed è importante per i marchi: come spiega Parabiago «anche chi ha mezzi modesti è disposto a spendere molto, per esempio le scarpine vendono tantissimo. A maggior ragione quando i bambini sono pochi, si tende a spendere di più nel regalo: fa piacere anche se dura poco. Sono cifre che per te non spenderesti ma per tuo o figlio o tuo nipote sì».
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Già quando i grandi marchi entrarono nel settore, i costi dei vestiti facevano discutere. Per esempio in un articolo del 2012 il New York Times riportava l’opinione di Andrew Rosen, fondatore dell’importante rivenditore di abbigliamento newyorkese The Theory: «qui si parla all’1%, o a meno dell’1%, della popolazione. Sono certo che nessuno di loro [gli stilisti, n.d.r.] lo faccia per far soldi, ma per restare rilevanti. Vuoi tener viva l’attenzione dei clienti attorno al tuo marchio». Come scrive anche la rivista Business of Fashion (BoF), nessuno pensava che sarebbe stato un grande affare.
Invece la strategia ha avuto successo: secondo dati di Edited, nel 2016 l’abbigliamento di lusso per bambini rappresentava il 4% delle vendite totali, mentre nel 2018 era salito all’11%.
Stando all’ente di ricerca Euromonitor, dal 2013 al 2018 il mercato della moda di lusso per bambini è cresciuto costantemente raggiungendo i 6,6 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi solo nella regione dell’Asia Pacifico. La Cina «è probabilmente il mercato più importante», spiegava nel 2019 sempre a BoF Cordelia de Castellane, la direttrice creativa di Baby Dior. Qui i grandi marchi arrivarono nel 2016 confidando nella legge che consentiva alle coppie di avere due figli e non soltanto uno come imposto dal governo dal 1979.
Un significativo aumento delle nascite però non c’è stato e questo, secondo Tracey Cheng, vicepresidente del merchandising del rivenditore di abbigliamento cinese I.T, ha favorito i grandi marchi di lusso perché «non avendo molti bambini le persone investono molti più soldi nell’abbigliamento».
Grandi marchi e aziende tradizionali
Per farsi strada nella moda bambino, i grandi marchi si sono rivolti alle aziende specializzate lavorando con loro in licenza perché produrre i vestiti per bambino è difficile: le taglie sono tante e meno standardizzate perché i bambini hanno fisicità diverse e difficili da raggruppare come si fa con l’adulto.
Soltanto dagli 0 ai 36 mesi le taglie sono 11 e si misurano in centimetri di altezza; poi ce n’è una per anno, con una differenza di 6 centimetri ognuna (i 2 anni equivalgono convenzionalmente a 92 centimetri di altezza, i 3 anni a 98, i 4 a 104 e così via). In più i capi vanno adeguati alle esigenze dei bambini: per i bebè è utile poter stringere o allargare la vita con l’elastico o con i bottoncini, le tutine devono avere un’apertura comoda per cambiare il pannolino, lo scollo deve essere largo e morbido per far passare facilmente la testa.
C’è anche la questiona della sicurezza, che prevede norme molto severe: per esempio i bottoni vanno attaccati in un certo modo per impedire che si stacchino e che i bambini li ingoino e alcuni tipi di coloranti ammessi per gli adulti sono considerati tossici per i bambini. Poi bisogna tenere conto del materiale, che deve essere morbido, adattabile alle forme del corpo e facile da lavare in lavatrice. Tutto questo ha anche portato a un utilizzo più attento dei materiali e ha favorito il controllo della filiera con tempi più rapidi che nell’adulto. Infine destreggiarsi tra le esportazioni è piuttosto intricato: ogni paese ha le proprie regole e questo ha reso l’appoggio alle aziende storiche ancora più necessario.
Alcuni grossi marchi, come Dolce & Gabbana, Ralph Lauren, Burberry, Gucci e Baby Dior, producono la moda bambino internamente; altri, come Brunello Cucinelli, l’hanno assorbita dopo una collaborazione iniziale, altri ancora lavorano su licenza: Kenzo Kids, Paul Smith, Lanvin, Karl Lagerfeld e Givenchy con il gruppo CWF; Diesel, Marni, N°21 e MM6 Maison Margiela con Brave Kid, mentre l’azienda Monnalisa, fondata ad Arezzo nel 1968 e che realizza, spiega, «capi di grande qualità, destinati a durare», ha in licenza la linea bambini, fino ai 10 anni, dell’influencer Chiara Ferragni, attraverso un accordo quinquennale che prevede la produzione e la distribuzione.
Lavorare in licenza, comunque, è vantaggioso per tutti: permette ai grandi marchi di appoggiarsi a chi questo mestiere lo fa da tempo e ne conosce le regole anziché impiegare anni e risorse per capirne i funzionamenti e trovare i produttori, e aiuta le aziende tradizionali a contare su un fatturato sicuro e, allo stesso tempo, a rinnovarsi.
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Gli indipendenti
Il mercato non è fatto solo di marchi di moda o di aziende dedicate al bambino, ma come spiega Parabiago «c’è tutta una geografia di piccoli marchi: sono tantissimi, a volte fondati da mamme che si divertono a fare i vestiti ai propri figli e che poi diventano collezioni. È un mercato di nicchia, interessante sia dal punto di vista della sostenibilità sia dal punto di vista della moda».
Il sito di Pitti Bimbo ha una sezione dedicata – si chiama Kids’ Lab – a questi marchi pionieristici e di ricerca, caratterizzati da un’estetica originale, dalla scelta accurata dei materiali e dall’attenzione alla sostenibilità ambientale, che spesso si interessano anche di arredamento, oggettistica, libri e prodotti di cosmesi per bambini e il cui gusto finisce per influenzare anche le grandi catene.
Agostino Poletto, direttore generale di Pitti Immagine, racconta che il mondo della ricerca è molto internazionale: nel Kids’ Lab le aziende che arrivano dalla Francia e dal Nord Europa sono circa il 60-64%. Dice inoltre che spesso sono aziende piccole che lavorano molto sul design, oppure che producono anche per l’adulto e che sperimentano sul bambino.
Il mini me e il maxi me
La sapienza delle aziende tradizionali è fondamentale anche nel realizzare la moda più importante dell’abbigliamento di lusso per bambini: il mini me, ovvero la scelta di genitori e figli di vestirsi nello stesso modo. Recentemente è stata promossa da influencer e celebrità sui social network – come Kim Kardashian e Beyoncé con le figlie North West e Blue Ivy e Victoria Beckham con la figlia Harper – ma è alla base della nascita dell’abbigliamento di lusso per i piccoli, come testimonia la storia dell’azienda francese Lanvin.
Nel 1908 la sua fondatrice, Jeanne Lanvin, inaugurò una linea dedicata alla figlia Marguerite: mamma e figlia si vedevano insieme alle feste e per le strade della città vestite in modo identico (con imbarazzo della bambina, come raccontò successivamente). Ispirarono persino il logo dell’azienda disegnato da Paul Iribe, che le raffigura insieme a un ballo in maschera. Tra le persone comuni il cosiddetto look matchy-matchy, cioè l’accoppiamento di vestiti tra madri e figlie, si diffuse più tardi: la rivista statunitense Life ne parlò come di un nuovo fenomeno nel numero di luglio 1938.
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Le altre tendenze dell’abbigliamento di lusso per bambini riflettono quelle degli adulti: lo stile classico ed elegante, lo sportswear (cioè gli abiti sportivi, con magliette, sneaker, felpe e cappellini), il cosiddetto “urban style” (cioè il vestire metropolitano, con jeans, maglietta, felpa o chiodo) a cui si aggiungono le stampe colorate e, soprattutto per i più piccoli, con personaggi di cartoni animati e film di supereroi.
Oggi, comunque, i grandi marchi che disegnano una collezione bambino originale sono pochi: la maggior parte traduce in piccolo i modelli pensati per l’adulto, oppure ricorre all’impiego massiccio dei loghi per rendere i capi immediatamente riconoscibili e giustificarne la spesa. Spesso, infatti, si limitano a passare i bozzetti degli abiti alle aziende che lavorano su licenza, che avranno poi il compito di adattarli alle esigenze dei bambini: renderli comodi, scegliere i tessuti più adatti e rispettare le normative di sicurezza.
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Alcune aziende che facevano solo prodotti per bambini hanno percorso una tendenza opposta, il cosiddetto maxi me: propongono cioè versioni da adulto di capi per bambini, anche per rispondere al fenomeno per cui molte donne di taglia piccola compravano gli abiti destinati alle 12-14enni, che costavano di meno.
Tra i primi a farlo c’è stato Petit Bateau, un marchio francese che vende molto bene in Italia, specializzato dal 1893 nell’abbigliamento per bambini e diventato famoso per l’intimo, per i body con i bottoni automatici (fu la prima azienda a introdurli) e poi per le mantelline e le cerate gialle. Nel 1994 lo stilista Karl Lagerfeld fece sfilare la modella Claudia Schiffer con una maglietta per bambina di Petit Bateau sotto un completo di Chanel: l’azienda la rese subito disponibile in taglia adulta, vendendo tantissimo ed entrando anche in quel mercato.
Petit Bateau è un ottimo esempio di azienda tradizionale che ha saputo crearsi un’identità e restare rilevante. Come spiega la direttrice vendite Miriam Fellini, «noi vestiamo i bambini per renderli liberi, comodi, con capi confortevoli e durevoli». L’azienda punta su capi senza tempo: «la millerighe, la marinière, sono inconfondibili e vengono rivisti ogni anno nei colori e nelle proposte. Abbiamo una collezione molto trasversale con capi iconici e altri con delle fantasie più adatte alla modernità ma che rispecchiano il DNA del marchio».
L’attenzione alla durabilità dei capi ha portato all’apertura, in Francia, del primo negozio di second-hand, cioè di capi usati, di Petit Bateau. Infatti comprare abiti usati o scambiarli tra genitori è un’abitudine in crescita, per darsi una mano e per ridurre lo spreco di vestiti utilizzati per poco tempo e non consumati.
Anche altre aziende stanno lavorando in questa direzione: Monnalisa, per esempio, ha un piano triennale dedicato alla sostenibilità e sta considerando eventuali collaborazioni con rivenditori specializzati nell’usato, soprattutto online. Invece il vintage, sempre più importante nell’abbigliamento dell’adulto, è poco presente in quello per bambini e, almeno per il momento, i negozi che se ne occupano sono pochi e soprattutto stranieri, come il britannico Wolf & Mabel, che spazia dagli anni Trenta agli anni Ottanta.
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Fuori dall’armadio
Poletto, direttore generale di Pitti Immagine, racconta che le cose sono molto cambiate rispetto a quando «l’universo bimbo era relegato nel guardaroba. Ora si è aperto e ha investito tutto quello che sta attorno: la stanza, gli oggetti, i libri».
Poletto fa notare che «quando entri in una casa, le cose del bambino non sono rinchiuse nella sua camera ma sono ovunque: c’è una sorta di apertura e di non ghettizzazione, rispetto a prima». È cambiato insomma l’intero modo di concepire il bambino e la stessa fiera di Pitti Bimbo «vuole allargare la rosa delle merceologie: l’abbigliamento e gli accessori, come le scarpe, restano il cuore, ma si apre al mondo del giocattolo, dell’editoria, dell’arredamento: stiamo ripensando a una proposta sempre più complessiva dell’universo bambino».
Per esempio Pitti Bimbo ospita anche aziende di design per bambini e collabora con la Fiera del libro per ragazzi di Bologna, dedicata all’editoria per bambini, con una selezione di testi attorno a un tema che cambia ogni anno e che nel 2019 era stata ospitata anche al Salone del libro di Torino. Ci sono anche gli Editorials, una sezione del salone con proposte di mobili, giocattoli e oggetti per i concept store (cioè i negozi che offrono una selezione di prodotti ricercata e originale) che ruota ogni anno attorno a un tema diverso, come i giochi da tavolo o gli accessori per uscire all’aperto anche quando fa molto freddo.
L’idea di trattare il mondo del bambino in modo così olistico è ripresa da molti negozi indipendenti, che secondo Confindustria moda rappresentano il 14% della distribuzione: un tempo erano molto più diffusi ma dopo un periodo di crisi dovuto alla concorrenza di grandi magazzini e grandi catene stanno cambiando approccio.
In molti di questi negozi è infatti possibile trovare vestiti, libri, giocattoli, biancheria per la cameretta, prodotti per il bagnetto, mobili e complementi d’arredo. Secondo Poletto, i negozi più interessanti saranno quelli in grado di combinare l’offerta di abbigliamento di lusso e di ricerca e di presentarsi «come un parco tematico fatto delle tante cose che possono interessare al bambino».
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