Il vero test è Pechino
Mentre i contagi si diffondono nella capitale, il governo cinese vuole evitare un lockdown caotico come quello di Shanghai
A Pechino negli ultimi giorni le autorità cinesi hanno disposto la chiusura di varie attività commerciali, il ritorno alla didattica a distanza per molte scuole e l’isolamento di alcuni complessi residenziali con l’obiettivo di contenere una nuova ondata di coronavirus. Dopo la gestione disastrosa dei rigidi lockdown a Shanghai, il governo della Cina sta cercando di risparmiare gli stessi problemi alla propria capitale, provando a identificare il prima possibile i casi positivi in modo da ridurre i nuovi contagi. Una chiusura di Pechino avrebbe non solamente gravi effetti sull’economia cinese, ma costituirebbe un duro colpo d’immagine per il governo cinese che ha mostrato di faticare non poco nell’adattare la strategia “zero COVID” al contrasto della più contagiosa variante omicron.
Dal 25 aprile in vari quartieri di Pechino sono stati avviati test di massa per identificare i casi positivi, specialmente asintomatici, e disporre il loro isolamento. A Chaoyang, il distretto più popoloso della città con 3,5 milioni di abitanti (in tutta la città vivono circa 21 milioni di persone), è al terzo e ultimo giro di test mentre altri quartieri termineranno le attività di controllo nel fine settimana.
I test hanno portato a rilevare circa 150 casi, un numero relativamente basso se confrontato con gli oltre quindicimila riscontrati solo venerdì a Shanghai, il 96 per cento di tutti i positivi rilevati nella giornata in Cina. Nelle zone di Pechino dove sono stati identificati i nuovi casi è stato disposto l’isolamento dei complessi residenziali interessati, cui si è aggiunta la chiusura precauzionale di palestre, cinema, biblioteche e centri commerciali. L’amministrazione di Chaoyang non ha escluso che nei prossimi giorni possano essere chiuse altre aree del distretto ritenute a rischio, ma per ora non si parla di un lockdown vero e proprio.
Il governo cinese è stato infatti molto attento nel comunicare i provvedimenti adottati a Pechino, con l’obiettivo di evitare similitudini con la situazione più drammatica e mal gestita di Shanghai. Nel centro finanziario della Cina sono stati di recente installati recinti per isolare le zone residenziali con casi positivi, senza che la popolazione fosse avvertita per tempo.
Dopo settimane di lockdown molto difficili, con grandi problemi nel reperire cibo e altri generi di conforto, a Shanghai è cresciuto il malcontento con proteste e segni di ribellione verso le autorità raramente visti in Cina. Foto e video che mostrano l’irritazione degli abitanti della città sono circolati brevemente sui social network cinesi, prima di essere cancellati dal governo che esercita uno stretto controllo e censura i contenuti critici nei propri confronti.
Nonostante le censure, la grave situazione di Shanghai è diventata comunque un fatto noto per molti cinesi, al punto da spingere il governo a identificare nelle amministrazioni locali la responsabilità del fallimento nel contenere i contagi. La versione che viene raccontata alla popolazione è che i circa 50mila funzionari di basso livello incaricati di gestire il lockdown a Shanghai, occupandosi di porzioni della città nell’ambito dei loro comitati locali, non siano intervenuti per tempo per limitare la diffusione del coronavirus. Questa spiegazione viene anche usata come giustificazione per i test di massa avviati a Pechino, proprio con l’obiettivo di anticipare un’eventuale nuova ondata ed evitare che la città debba chiudere come ha fatto Shanghai.
Lo stesso governo cinese sembra essere convinto che Shanghai sia un’eccezione nella storia di successo della strategia “zero COVID”, che prevede proprio l’istituzione di rigidi lockdown non appena vengono identificati pochi casi positivi al coronavirus, in modo da eliminare i rischi di diffusione del contagio. Questo approccio, dai costi sociali ed economici molto alti, ha consentito alla Cina di essere uno dei paesi con meno casi al mondo e decessi negli ultimi due anni di pandemia, almeno stando alle cifre ufficiali diffuse dal governo.
La strategia “zero COVID” ha però mostrato di non funzionare al meglio nell’attuale fase dell’epidemia, condizionata dalla grande diffusione di omicron, molto più contagiosa delle precedenti varianti. Verificata una minore aggressività (per esempio rispetto alla variante delta) e l’alta protezione contro le forme gravi di COVID-19 offerta dai vaccini, molti paesi soprattutto in Occidente hanno scelto di allentare o eliminare completamente le limitazioni passando a una fase di convivenza con il virus, ritenuta accettabile per tornare a una parziale normalità. Il governo cinese si è finora mostrato contrario a questo approccio, preferendo apportare qualche lieve modifica alla “zero COVID”, ma senza stravolgerne il senso.
Analizzando la situazione a Shanghai, numerosi esperti e analisti hanno però definito poco sostenibile la strategia seguita negli ultimi due anni in Cina, con grandi rischi sia per l’economia sia per la tenuta sociale. Il governo cinese sembra esserne consapevole e per questo a Pechino sta provando ad anticipare il più possibile i nuovi focolai, con una gestione più centralizzata e che faccia meno affidamento sui comitati e i funzionari locali.
Il governo è restio ad abbandonare la “zero COVID” anche a causa dei bassi livelli di popolazione vaccinata tra le persone che hanno più di 60 anni, e che sono a maggior rischio di sviluppare forme gravi della malattia. In Cina non è stato introdotto un obbligo vaccinale, preferendo l’impiego di campagne di informazione per indurre volontariamente a vaccinarsi. Circa l’86 per cento della popolazione è completamente vaccinato, ma la percentuale di vaccinati sopra i 60 anni di età è più bassa di alcuni punti percentuali. Sui 264 milioni di cinesi over 60 si stima che ci siano ancora 50 milioni circa di persone non completamente vaccinate.
Anche per questo motivo il governo cinese si sta mostrando estremamente cauto su Pechino, cercando di bilanciare la necessità di tracciare il maggior numero possibile di casi e al tempo stesso di non prospettare una chiusura generalizzata di buona parte della città, che dimostrerebbe un nuovo fallimento nella gestione della pandemia. Il danno di immagine sarebbe importante soprattutto per il presidente Xi Jinping, che tra pochi mesi dovrebbe ottenere un terzo mandato da presidente. La propaganda in queste settimane ha continuato a descrivere Xi come l’artefice dei successi negli ultimi due anni contro il coronavirus, ma nel caso di un peggioramento a Pechino sarebbe più difficile proseguire con questa narrazione.