Colazione, pranzo e cena
L'abitudine di consumare tre pasti al giorno è relativamente moderna, favorita da ragioni storiche ed evolutive, ma esistono approcci che propongono schemi alimentari alternativi
Nel 2019, il cofondatore e all’epoca CEO di Twitter Jack Dorsey parlò delle sue abitudini alimentari in un podcast con il popolare nutrizionista americano Ben Greenfield suscitando curiosità e molte attenzioni. Dorsey disse che era solito mangiare una sola volta al giorno, a cena, e che spesso nei fine settimana digiunava completamente, secondo un’abitudine descritta come diffusa tra le élite della Silicon Valley.
Prima di Dorsey, l’ex CEO dell’azienda produttrice della popolare app di appunti Evernote, Phil Libin, aveva detto che praticava occasionalmente digiuni che potevano durare fino a otto giorni. E prima ancora, nel 2013, l’attore australiano Hugh Jackman aveva detto che stava seguendo un piano di digiuni della durata di 16 ore intervallati da periodi di otto ore in cui poter mangiare, una routine condivisa da diversi attori che hanno necessità di perdere o assumere peso in tempi brevi.
La crescente quantità di pubblicazioni e studi di nutrizione sui presunti benefici e sui rischi del digiuno prolungato e delle diete che prevedono altri tipi di “restrizione calorica” ha generato negli ultimi anni un esteso dibattito su quale sia il tipo di dieta migliore, a quali condizioni e per quali determinati soggetti. Parallelamente a quello sul digiuno, si è sviluppato un dibattito di interesse più generale su quali siano le ragioni storiche e scientifiche alla base della netta prevalenza dello stile alimentare che prevede l’assunzione di tre pasti principali al giorno.
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Come spiegato in un recente articolo sul sito The conversation da ricercatrici della Queen’s University in Ontario, non soltanto quello che mangiamo ma anche quando lo mangiamo può avere un impatto rilevante sulle funzioni fisiologiche del nostro organismo, a tutti i livelli. Seguire un’alimentazione irregolare negli orari, tralasciando i rischi noti di aumento di peso e insorgenza di malattie metaboliche e cardiovascolari, può determinare anche un cattivo stato di salute mentale incrementando i rischi di depressione e ansia.
Le nostre abitudini alimentari sono in larga parte fondate sul nostro ritmo circadiano, il ciclo che si compie all’incirca ogni 24 ore e regola la produzione di alcuni ormoni, subendo l’influenza sia di fattori interni, come l’orologio biologico, che esterni, come la luce e la temperatura. In senso evolutivo, le abitudini alimentari sono il risultato di una relazione che gli esseri umani hanno sviluppato con l’ambiente per soddisfare bisogni energetici che cambiano molto tra il giorno e la notte.
Sebbene l’orologio biologico sia determinante per il metabolismo, la fisiologia e il comportamento degli esseri umani, i “ritmi” alimentari condizionano a loro volta l’orologio biologico. I tessuti di diversi organi, inclusi quelli dell’apparato digerente, mostrano oscillazioni regolari nel loro funzionamento nell’arco delle 24 ore: il funzionamento dell’intestino tenue e del fegato, per esempio, varia tra il giorno e la notte in termini di capacità digestiva, metabolica e di assorbimento.
Le nostre abitudini alimentari sono legate in modo altrettanto significativo ad abitudini culturali e stili di vita su cui incidono fattori non direttamente legati alle nostre funzioni biologiche elementari. Tutta la nostra giornata è strutturata intorno a un certo modo di mangiare: ci riferiamo spesso alla colazione come al “pasto più importante della giornata”, per esempio, e i nostri lavori prevedono generalmente una pausa pranzo. Per non dire dell’importanza degli aspetti sociali e familiari nel consumo dei pasti in comune in determinati momenti della giornata anziché in altri.
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Consumare tre pasti principali al giorno è tuttavia descritta in diversi studi e pubblicazioni di settore come una pratica relativamente moderna. Per una lunga parte della loro storia, molto tempo prima che esistessero frigoriferi e supermercati, gli esseri umani hanno mangiato quando avevano da mangiare. Gli antichi Romani, per esempio, consumavano un unico pasto principale (coena), intorno alle 16: i pasti del mattino (ientaculum) e a mezzogiorno (prandium) erano invece piuttosto rapidi e frugali.
Le regole monastiche condizionarono in seguito le abitudini alimentari delle persone comuni, diffondendo la pratica del digiuno e gli altri comportamenti legati a quelle pratiche. Tra i monaci la collatio – parola latina derivata dall’espressione cum ferre: “mettere insieme”, “conferire” – era una riunione serale dedicata alle letture e alle preghiere, ma indicava anche il primo pasto frugale successivo a quella riunione e al relativo digiuno. Questo significato è peraltro evidente ancora oggi in alcune lingue europee come l’inglese, la cui parola utilizzata per indicare la colazione significa letteralmente “rompere il digiuno” (break fast).
La colazione cominciò ad assumere l’importanza che ha ancora oggi durante la Rivoluzione industriale, quando l’invenzione del frigorifero rese il latte una bevanda molto popolare perché poteva essere conservato – non più necessariamente trasformato in formaggio – e consumato prima di andare al lavoro. La crescente diffusione della luce artificiale contribuì poi a rendere anche la cena un pasto consueto nella forma e nei tempi (dopo il tramonto e prima dell’alba) che ha mantenuto fino a oggi.
Come raccontato a BBC dalla scrittrice britannica e storica dell’alimentazione Seren Charrington-Hollins, i primi a introdurre un concetto di colazione furono gli antichi Greci, che mangiavano del pane imbevuto nel vino, e nel resto della giornata un pranzo frugale e una cena abbondante. La colazione come la conosciamo oggi risale invece a tempi molto più recenti, all’incirca il XVII secolo, ed era inizialmente un privilegio delle classi aristocratiche, le uniche che potessero permettersi il cibo e il tempo per un pasto abbondante al mattino.
Fu soltanto nel XIX secolo, in piena rivoluzione industriale, che la colazione diventò la norma, parallelamente all’introduzione dell’orario di lavoro: cosa che favorì l’affermarsi di una routine basata su tre pasti principali al giorno. «Il primo poteva essere qualcosa di semplice per le classi lavoratrici: pane o altro cibo preso da venditori di strada», ha detto Charrington-Hollins. Dopo la Prima guerra mondiale, a causa della scarsità di cibo, consumare un pasto al mattino diventò per un po’ di tempo un’abitudine poco praticabile, e in molti cominciarono a saltare la colazione. Agli anni Cinquanta risale infine la pratica largamente diffusa ancora oggi in Occidente di fare colazione a base di cereali.
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Charrington-Hollins ritiene che l’atteggiamento delle persone nei confronti del cibo stia progressivamente cambiando e che l’abitudine di fare tre pasti principali al giorno sia oggi meno compatibile con gli stili di vita di moltissime persone. «Non facciamo tutto il lavoro che facevamo nel XIX secolo, quindi abbiamo bisogno di meno calorie», ha detto a BBC, sostenendo che sul lungo termine potrebbe anche verificarsi un ritorno all’abitudine di mangiare un pasto leggero e poi un solo pasto principale al giorno, in funzione dei nostri orari e tipi di lavoro.
Sebbene la ricerca scientifica sulle abitudini alimentari e sulle diete che prevedono lunghi digiuni e un ridotto apporto calorico sia molto discussa da medici e nutrizionisti, è abbastanza condivisa l’idea che assumere due o tre pasti al giorno, con una lunga “finestra” di digiuno notturno, sia un’abitudine sana per la maggior parte delle persone. È consigliato quindi mangiare non troppo tardi la sera e non troppo presto al mattino, e in generale assumere più calorie nella prima parte della giornata.
Esiste tuttavia una generale tendenza, nella ricerca, a non stabilire regole troppo rigide o valide per chiunque quando si parla di abitudini alimentari, considerato che una grande quantità di variabili contribuisce a rendere le persone diverse le une dalle altre. Diete adatte a determinate persone, per limitati periodi di tempo, ad altre potrebbero non arrecare benefici ma anzi rischi per la salute.
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La ricercatrice americana Emily Manoogian, che lavora al Salk Institute for Biological Studies in California, uno degli istituti di ricerca più prestigiosi al mondo in campo biomedico, ha detto a BBC che le diete che prevedono un solo pasto al giorno possono aumentare il livello di glucosio nel sangue quando non stiamo mangiando e sono quindi particolarmente sconsigliate alle persone con il diabete. Alti valori di glucosio a digiuno per lunghi periodi di tempo rappresentano infatti un fattore di rischio per il diabete di tipo 2, quello dovuto a una ridotta secrezione o a una ridotta sensibilità all’ormone dell’insulina.
Alcune diete e abitudini alimentari, per quanto sane, presentano inoltre una serie di limiti pratici per molte persone, specialmente se gli orari di quelle diete sono troppo rigidamente definiti. «Dire alle persone di smettere di mangiare dalle sette di sera in poi non è molto di aiuto, visto che le persone hanno orari diversi», ha detto Manoogian, peraltro coautrice di un articolo intitolato When to Eat e pubblicato nel 2019 sulla rivista scientifica Journal of Biological Rhythms.
Secondo Manoogian, posticipare la colazione e anticipare la cena anche solo di poco – purché questi comportamenti diventino parte di una routine stabile – potrebbe in molti casi essere già sufficiente a riscontrare dei benefici senza bisogno di apportare altri cambiamenti nelle proprie abitudini.